venerdì 31 agosto 2012

Effervescent Elephants - Something to Say (1987)


Ne avevo letto tanti anni fa ma poi me n'ero dimenticato. E l'anno scorso il ritorno dopo un ventennio al disco insieme a Claudio Rocchi, e allora incuriosito sono andato a pescare qualcosa di questo gruppo vercellese, anzi per la precisione di Alice Castello.
Gli EE traevano il loro nome da uno dei pezzi più sballati di Syd Barrett, e non tradiscono ciò che esso farebbe intuire. Però, più che i primi Pink Floyd, ricordavano il british flower-power generico della seconda metà dei '60's, con tutto ciò che ne consegue.
Ad ascoltarli adesso, le sonorità che già allora erano vecchiotte ora lo sono almeno il doppio. Ma la neo-psichedelia andava di moda e quindi erano giustificabili. Restano un pugno di canzoncine tutto sommato gradevoli ma nient'altro di significativo.

giovedì 30 agosto 2012

Damon Edge - Alliance (1985)


Edge fece 4 dischi a suo nome fra il 1985 e il 1987 che non erano poi tanto differenti dai contemporanei a nome Chrome risiedenti in Francia.
Scivolando sempre di più verso il manierismo del suo glaciale elettro-acid-wave, Edge utilizzava gli stessi collaboratori, in particolare il chitarrista Devilla che sembrava una versione narcisistico - virtuosistica di Helios Creed.
Nonostante le premesse così infauste, però, ci fu sempre qualcosa di interessante da pescare nell'enormità di dischi rilasciati dal californiano nella seconda metà degli '80. Una decisa sintesi ne avrebbe senz'altro giovato, ma la sua megalomania e ricerca continua di un successo francamente utopistico lo danneggiò parecchio. Cose oscure ed avvolgenti come Alliance of hearts, Why not give me your next trance e Rhapsody in maroon si fanno ascoltare ancora nonostante il sound sia un po' stantio.

giovedì 9 agosto 2012

Earth - Phase 3: Thrones and Dominions (1995)


Sono un fan degli ultimi Earth, di The bees e dell'ultimo disco in particolare, in cui Carlson e co. si avventurano placidi verso lande panoramiche di desolante bellezza. Per un decennio il progetto Earth sembrava morto, e nel frattempo i Sunn O))) s'inventavano una carriera sulle intuizioni del seattleiano.
Che sia stata la reazione d'orgoglio a farlo resuscitare? Ascoltare oggi i suoi primi dischi procura un moto d'imponenza. Ha reso perfettamente l'idea Scaruffi, nel definirli: prendere un dettaglio fondamentale dell'hard-rock ed esaminarlo al microscopio, minuziosamente, con ossessività.
Queste colonne d'Ercole di suono non fanno passare nulla al loro interno: è stato come mettere i contrappesi alle braccia di Tony Iommi, con qualche semi-impercettibile variazione fra le maglie.
Ricordo i trafiletti che Rockerilla dedicava agli Earth in quegli anni: sembrava la cronaca da un manicomio, il report di qualcosa che si descriveva assurdo e poco credibile, nonostante se ne ammettesse l'originalità.
Gli anni hanno dato ragione a Carlson, ed oggi lui fa tutt'altro. Chiamasi artista.

mercoledì 8 agosto 2012

Durutti Column - The return of (1980)


Premetto che questo è l'unico disco che ho sentito di Reilly. Il motivo per cui decido di non proseguire ai successivi è perchè nel 90/95% dei casi gli artisti che uscirono dal post-punk fecero i loro migliori dischi entro e non oltre il 1982. Non facendomi morire questo, pertanto, penso di potermi fermare qui.
E dire che aveva (ha, sembra incredibile ma fa ancora dischi) una bella peculiarità, Reilly. Uscire in epoca post-punk inglese con velleità da virtuoso della chitarra pur cercando di restare abbastanza umile (almeno, è l'intenzione che colgo io a sentimento) gli è bastato per diventare un piccolo culto underground. The return è un assemblaggio variopinto di 15 strumentali tutti abbastanza eclettici, di cui un paio sono ottimi e si fanno ricordare (Conduct e Experiment in fifth), ma mi lascia insoddisfatto.
Mi sfugge l'obiettivo primario: questa è musica che fa rilassare, che evoca l'autunno o che serve a compiacere l'abilità di Reilly?

martedì 7 agosto 2012

Drunkdriver - Drunkdriver (2010)

Avrebbero potuto riservarci qualche sorpresa i Drunkdriver?
Se questo disco non fosse uscito postumo, mi sarei posto seriamente la domanda. Invece le trasmissioni sono terminate e quindi resta soltanto un mucchio di cenere dopo la graticola.
Troppo, troppo ingombrante e scomodo il paragone col predecessore, quel Born Pregnant che sconvolge ancora oggi con i suoi folli cingolati. Parlare di normalizzazione sembrerebbe alquanto fuori luogo, eppure qui c'è stata una produzione ai limite della noise-professionalità; la chitarra meno impastata, più nitida (forse frutto di una miglioria tecnica della Greene), la batteria con i piatti più rifiniti e meno effetto-fustone, soltanto Berdan resta immutato al flagello di corde vocali.
Anche i pezzi sono un po' meno avvincenti, più memori della stagione nineties, ed addirittura qualche retaggio hardcore che non eccita decisamente.
Meglio che sia finita qui; il processo forse era già irreversibile e io i DD li voglio ricordare per le imprese titaniche, non per le calate.

lunedì 6 agosto 2012

Drunk - Tableside Manners (2000)


Eccellente ritrovato di underground virginiano, coordinate slow-core agreste. I Drunk erano un flemmatico quartetto da cui uscì la mente degli Spokane, e averli scoperti dopo di essi mi ha fatto capire tante cose. Fecero 4 dischi in rapida successione su Jagjaguwar a fine millennio e con Tableside manners chiusero la loro storia.
Musica fatta di poche cose e ben dosate, che si adatta benissimo alla cover: una casa immersa in un bosco innevato, con le luci accese all'interno. Non ci sono soltanto lentoni evocativi, anche se certuni sono da brividi: Truancy, Soreness of legs, Mutual Legs hanno la stoffa dei grandi nonostante una voce incerta e tremolante. Sapevano anche accelerare il ritmo con abilità, come nella frizzante e bellissima Queen of Venice, nel caleidoscopio di Upholstery, nel desert-folk di Dorothea (affine a Howe Gelb).
Non erano precursori di niente, ma bravissimi artigiani.

domenica 5 agosto 2012

Don Caballero - What burns never returns (1998)


Non è devastante come DC2, non è incendiario come Singles breaking up, non è cerebrale comeAmerican Don. E allora cos'è What burns never returns?
La chiave di lettura sta in Room temperature suite, secondo me l'apice. Un'intro spiazzante, con Octopus Che che inventa un ritmo tranquillo per i suoi standard, e Williams a far miagolare la chitarra come un gatto impaurito.
Ad eccezione della ferocia di Delivering the Groceries at 138 Beats per Minute, egli e Banfield non eccedono mai troppo col pedale del distorsore. Altri highlights i cicalecci baldanzosi di In the Abscence of Strong Evidence e June is finally here, per un capitolo un po' transitorio per i DC ma sempre ad altissimo tasso di matematicità micidiale.

sabato 4 agosto 2012

Dolphins Into The Future - On Sea-Faring Isolation (2009)

Ma quale futuro, futuro d'Egitto!
Tanto per usare una locuzione aulica, la musica del belga Martens sembra veramente un residuato, una raccolta d'archivio di qualche compositore elettronico dei primi anni '70.
Questo appartiene al filone hypnagogico della Not Not Fun, e l'impronta fortemente naturalistica del progetto la rende suggestiva. Oltre alla scelta del nome stesso, Martens si fa ritrarre sempre in luoghi marini e affini, e field recordings di risacche sul bagnasciuga sono sparse in lungo e in largo il disco.
Che è sostanzialmente composto da una ambient molto vintagistica, come detto, eseguita con synth, richiami di foreste e giungle, qualche timida percussione, motivi circolari per non dire ossessivi. C'è qualche richiamo agli artisti tedeschi cosmici di 40 anni fa ed ad altri anglosassoni di 20 anni fa.
Nelle sue interviste però Martens tira in ballo religione e filosofia, ma la sua potrebbe essere una buona colonna sonora ad un documentario, aehm, sui delfini.
Library involontaria?

venerdì 3 agosto 2012

Do Make Say Think - Goodbye Enemy Airship The Landlord Is Dead (2000)


Significa che in Canada non ci sono stati soltanto i Godspeed a fare del bel post-rock d'antan. Anzi, i DMST sono stati praticamente contemporanei: primo disco nel 1998, e poi una carriera altalenante ma senza pause considerevoli.
Punti in comune notevoli: musica strumentale, ensemble nutrito (ma con molto spazio ai fiati), epicità e grande respiro di sfondo. Differenze altrettanto notabili: un suono più luminoso e di minor impatto. Di certo non ne hanno raggiunto il successo nè le vette artistiche, ma si può rendere loro merito di aver saputo viaggiare su direzioni differenti.
Difatto Goodbye è un ottimo saggio dalle tante coloriture: fra raffinatezze alla Tortoise al limite del jazz, cavalcate epiche, ballad pregne di riflessività, il disco chiude in gloria con i 13 minuti della title-track, piccola meraviglia atmosferica post-space.

giovedì 2 agosto 2012

Dive - Concrete Jungle (1993)


Altro residuato delle Mental Hours. Dirk Ivens in arte Dive (per il quale un'attuale gruppo indie-rock ha recentemente cambiato nome in Diiv) è un performer belga attivo da oltre 30 anni, partito dal post-punk e poi stabilizzatosi nell'area moderatamente techno-industrial.
Il pezzo-nostalgia in questione è 39 Stitches, ed immancabilmente il migliore della scaletta. In generale il suo lavoro risiedeva in un area di cyber-cantautorato lontanamente imparentata alla techno-trance, totalmente elettronico ma improntato su strutture definite ed un canto sottomesso (da qui il concetto di composizione). Nella prima metà di Concrete Jungle stanno i pezzi più movimentati e definiti, nella seconda le atmosfere si fanno decisamente sotterranee ed opprimenti.
In attesa di un revival di queste sonorità un po' stantie, è da notare la somiglianza impressionante di Ivens con Simon Gallup dei Cure.

mercoledì 1 agosto 2012

Disco Inferno - The 5 EPs (2011)


Giustissimo ripescaggio effettuato dalla One Little Indian l'anno scorso, per ridare luce alle pubblicazioni ridotte dei londinesi fra il 92 e il 95. E' un assemblaggio che in 15 tracce denota la loro progressione dalla caustica post-wave degli esordi al capolavoro Di Go Pop, delirio astratto di post-rock atipicamente britannico.
E nel mezzo c'era veramente di tutto. Le origini erano ben chiare: Wire, le radici gotiche, le cose più atmosferiche dei Cure, ma la creatività esplosiva del trio nel saper creare ambienti disorientanti (oltre ad una scrittura di base ottimale) faceva passare ciò in terzo piano.
Fu l'attitudine a fare la differenza: l'uso massiccio dei campionamenti, anzichè abbellimento posticcio, prese il ruolo di protagonista della scena in una buona parte della scaletta, ovvero quando non era il basso a dare la linea guida.
E paradossalmente l'effetto disomogeneo che genera l'assemblaggio di ben 5 ep, in questa sede stabilisce ancor più senso di sorpresa all'ascolto. Al termine si ricorderanno non solo i motivi più accattivanti, ma anche di un percorso misterioso ed affascinante che si ripete volentieri.