Visualizzazione post con etichetta Post-Hardcore. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Post-Hardcore. Mostra tutti i post

lunedì 26 dicembre 2022

Fucked Up – Year Of The Horse (2021)


Una decina d'anni fa ascoltai il pluri-premiato David Comes To Life e non mi piacque. Forse sarebbe servito qualche ascolto in più, ma non gli diedi la possibilità. Trovai un po' irritante il ruggito monocorde del corpulento cantante, che era l'anello di congiunzione con le origini hardcore di un gruppo che comunque si era evoluto parecchio e faceva sforzi titanici per suonare originale ed andare un po' oltre i propri limiti.

Una decina d'anni dopo, Year of the horse fa decisamente un altro effetto. Le sfuriate hardcore ci sono ed il ruggito monocorde le accompagna con la dovuta devozione, ma ormai sono solo un 30% del mastodontico output (4 pezzi per quasi un'ora e mezza). I canadesi sono cresciuti insieme alle loro ambizioni, dimostrando che la tenacia può essere costruttiva anche in mancanza di altri fattori di talento.

Quanti gruppi suonano su questo disco? Che carrellata di generi, stili e scenari scorrono? Durante l'ascolto ho perso il conto, e i Fucked Up sono degli incoscienti. Quanti rischi può accollarsi un gruppo come in questo caso, in cui si può passare da una stentorea litania piano/voce femminile ad un'aria western-plagio-morriconiana, da una minisinfonia per quartetto d'archi ad una marcetta vaudeville, da un sinuoso alt-funk ad un'escursione etno-folk, da un requiem per trombe e voci femminili ad un eccetera eccetera eccetera.

Non ho concesso neppure a Year of the horse il numero di ascolti che si meritava, ma è andata decisamente meglio di David. Il coraggio e l'ambizione vanno sempre stimati, ed anche se non ascolterò mai più i Fucked Up, ricorderò questo tomo come un episodio talmente folle da sembrare costruito con un algoritmo. 🤔​

lunedì 3 ottobre 2022

Beats The Hell Out Of Me - Beats The Hell Out Of Me (1994)


Quintetto dell'Arizona che fece due album su Metal Blade a metà dei '90, ma che di metal non aveva in pratica nulla. Fu possibile che l'etichetta californiana volesse provare ad investire in un settore ai tempi abbastanza fruttifero, ovvero quello del post-hardcore contaminato da noise-rock e grunge, due nomi popolari su tutti, Fugazi ed Helmet, le più evidenti influenze sui BTHOOM. Un suono granitico, prodotto con impeccabile compattezza, nello standard del periodo, con la coppia di chitarre in primo piano, uno screamer furioso e strutture quadrate che più non si poteva.

Si tratta di un nome minore e sostanzialmente dimenticato anche dai nostalgici del tempo, in possesso comunque di qualche punto distintivo tuttora interessante, che rispolvero per un ricordo molto affettivo: l'accoppiata Intro / Act Like a Man, il momento migliore del disco, fu passato su Planet Rock in quel periodo e divenne uno dei miei pezzi preferiti di tutto il genere ed affini. L'intro, per l'appunto, suonata in punta di dita, con uno straniante feeling psichedelico (gran lavoro delle chitarre, inaspettabile per quanto lo precede in scaletta) prima di riazionare il tipico panzer cingolato nella seconda parte. Una tendenza minoritaria che però torna prepotentemente con la finale Godbox, in cui le 6 corde tornano a deragliare con gagliardia, in una sorta di inusitato tributo al David Gilmour del 1969/1970.

Bastano questi due episodi per rendere interessante un disco che per il resto viaggia su coordinate abbastanza ordinare sui suoni di cui all'inizio, ma mai in maniera banale nè troppo derivativa. Avrebbero meritato maggior fortuna, ma ai tempi non era facile emergere per nessuno e la concorrenza era vastissima.

sabato 16 aprile 2022

Henry Rollins ‎– Hot Animal Machine (1987) + Drive By Shooting EP (1988)

Anche se accreditato al solo HR, HAM di fatto rappresenta il primo atto della Rollins Band, anche soltanto per la presenza del fido chitarrista Chris Haskell, che con lui condividerà tutta la parabola post-Black Flag. Non potè mettere in atto risposta migliore a tutti quei maligni che lo davano per finito una volta uscito dalle quattro barre, ancor prima di dargli una chance; la mistura micidiale di hard-rock e post-hardcore (con dei pizzichi sparsi di funk r blues) suonata con micidiale lucidità, persino l'ideale seguito a quella fondamentale esperienza ma con un chitarrista meno cervellotico dell'ultimo Ginn, più attento alla sostanza e al servizio del suono generale. In prospettiva, forse appena inferiore alle prove successive che lo porteranno ad un meritato successo di pubblico, ma già esplosivo. La ristampa include l'EP Drive By Shooting dell'anno successivo, una divagazione fra goliardia e spoken word, tutto sommato dispensabile.
 

venerdì 31 dicembre 2021

Shorty – Fresh Breath EP (1994)

Fulmineo EP di un quarto d'ora scarso che chiuse la repentina carriera degli Shorty, un'anno prima che Al Johnson e Mark Shippy tornassero con gli U.S. Maple. Cinque pezzi roventi e fumiganti, che rilanciavano la proposta già udita l'anno prima con Thumb Days. Se qualche fan dei Jesus Lizard nel 1994 si sentiva deluso dal (presunto) ammorbidimento di Down, poteva rifarsi con gli interessi grazie agli Shorty e le loro tempeste granitiche, i loro ritmi sghembi, la fucina di riff incessanti di Shippy, le urla invasate e beffarde di Johnson e tutto il resto. Unico neo, la produzione un po' da bunker, tipica comunque della Skin Graft di quel periodo.

 

sabato 13 novembre 2021

Black Flag ‎– Slip It In (1984)


Terzo album dei BF, all'insegna della transizione verso aree all'epoca impensabili. Ci aveva già pensato My War,, l'anno precedente, a chiarire gli intenti di Ginn & Co. Su Our Band Could be your life, nel capitolo a loro dedicato, mi è rimasto impresso il passaggio in cui Rollins rievocava quel periodo in cui facevano letteralmente la fame, ma erano talmente orgogliosi del loro output e del loro suono che i morsi potevano essere sopportati. L'ingresso della bassista Kira la novità sostanziale, il tiro pazzesco generale una garanzia, su tutte Slip it in, Black Coffee, The Bars. Le deviazioni sempre interessanti, come il free-jazz-punk di My Ghetto, lo strumentale sincopato Obliteration, la strascicata Rat's eyes e la lunga mescolanza hardcore-blacksabbath di You're not evil. Ginn sempre più incontenibile soprattutto negli assoli, Rollins sempre più animalesco, Kira un treno incollato al vortice batteristico di Stevenson. Con queste performances e 200 concerti l'anno, aveva ragione Rollins a mangiarsi una barretta di nascosto dagli altri per trovare un po' d'energia.

venerdì 6 dicembre 2019

Stabscotch ‎– Uncanny Valley (2017)

Una delle sempre più rare scoperte di PS, proveniente da quello che una volta si chiamava underground ed adesso non esiste più, ma romanticamente ha ancora una consistenza perchè il disco è uscito in cassetta e di questo trio dell'Indiana non si sa praticamente nulla.
Non importa, perchè hanno abbastanza da dire nella pratica; non possiedo il supporto fisico, ma mi chiedo che tipologia di cassetta possa essere, dato che va oltre i 100 minuti di durata; nuove frontiere del glorioso supporto?
Venendo al contenuto, gli Stabscotch sono una rivelazione, c'è poco da dire. Non suonano come nessun'altra cosa mai sentita, e lo suonano come se non ci fosse un domani, con uno sforzo sovrumano ed un dispiego di idee e soluzioni impressionante, in pratica inesauribile. Il bassista / vocalist ha un'imprinting  tipicamente hardcore, con quel declamare furioso e monotono. L'asso del gruppo è il chitarrista, l'elemento più raffinato ed in grado di sfornare riffs dalle mille sfaccettature, che più volte mi ha ricordato il grandissimo Drazek dei Rope. 
E le composizioni? Indefinibili, inafferrabili, psicotiche, dei rebus inestricabili. Gli Stabscotch parlano un linguaggio dell'assurdo, sono accompagnatori verso una Zona del mistero più fitto ed inspiegabile. Un labirinto di post-hardcore, prog, art-metal, avanguardia e tanta, tanta psichedelia.
Uncanny Valley è talmente lungo e pieno di dettagli che credo occorrano 10/15 ascolti per assimilarlo al meglio, il che significa circa 24 ore. Follia totale, di questi tempi, ma gli Stabscotch sembrano non fare parte di questo mondo, ed entrare nel loro, almeno metaforicamente, è un esperienza da provare.

venerdì 30 agosto 2019

Colossamite ‎– All Lingo's Clamor (1997)

Quartetto dalla vita brevissima, attivo in neanche due anni su Skin Graft. Di fatto erano l'unione fra i Gorge Trio, un trio avant-noise e Nick Sakes, cantante dei Dazzling Killmen, trio post-hardcore attivo sempre sull'attentissima label del Montana, discioltosi da poco tempo.
Tutta gente abbastanza sconosciuta, ai tempi, di cui parlavano solo Scaruffi e Blow Up, trattandosi di materia piuttosto infiammabile. I residuati post-hardcore di Sakes, riconoscibili soprattutto dal suo urlo disperato, andavano ad amalgamarsi contro le derive math fragorose del GT, per un episodio breve (poco più di 20 minuti, senza pressochè pause), carico di pathos e psicodrammi, situato in quell'area grigia che si era venuta a formare negli US a fine '90, che non era classico noise-rock ma neanche art-avant dal sopracciglio alzato (in accezione positiva), e che diede alla luce tanti bei prodotti come questo catastrofico, dinamico, granitico mini.

mercoledì 5 giugno 2019

Rollins Band ‎– Hard Volume (1989)

Terzo album per l'ex-Black Flag e la sua congrega di scalmanati musicisti, sempre più tecnicamente ineccepibili, a tratti un po' vanitosetti ma comunque efficaci nell'accompagnare il leader. Hard Volume in pratica è hard-rock aggiornato ai tempi del post-hardcore, suonato con foga lucida e precisione chirurgica; meglio nei tempi medio-lenti, al netto di un paio di hendrixianesimi non irresistibili. Rollins aveva già da tempo brevettato il suo monocorde declamare, e il complesso dà il meglio di sè nella slam-dance di I Feel Like This e nella melma quasi doom di Love Song. Il risultato è uno psicodramma di strada che forse ha l'unica grande pecca nella produzione, ancora un po' troppo '80 nella batteria, che lascia poco spazio ai bassi.

mercoledì 27 marzo 2019

Hüsker Dü ‎– New Day Rising (1985)

Un ritorno a formati più oculati, dopo la sbornia concettuale ed iper-stirata di Zen Arcade, che viene solitamente ritenuto il loro capolavoro (che a mio avviso resta sempre e comunque Warehouse). New Day Rising resta sempre hardcore, ma di quello altamente evoluto e rivelatorio del songwriting del compianto Hart, che emerge per la prima volta prepotentemente con The Girl Who Leaves on Leaves Hill e Terms of Psychick Warfare. E' sempre Mould a dominare però, e soprattutto a diversificare, senza lesinare episodi shockanti e fuori canone come la conclusiva Plans I Make, una dissonanza colossale. Per questo motivo non è nè il migliore nè il peggiore (se esiste un peggiore) degli HD, ma soltanto un felice album di passaggio, di ulteriore crescita, di scavallamento e di conquiste.

martedì 21 agosto 2018

Fugazi ‎– Red Medicine (1995)

Insieme al primo, il miglior disco dei Fugazi. Red Medicine incarna perfettamente lo spirito dei dischi storici (si può dire, ormai sono passati vent'anni e passa) dei grandi gruppi degli anni '90: superamento dei luoghi comuni dell'area di provenienza lasciando comunque apposite nicchie con cui evitare di deludere i vecchi fans, lavoro di ricerca e commistioni inusitate, immediato riconoscimento da parte della critica (ricordo perfettamente quanto Max Prestia battè il ferro riguardo a Red Medicine durante il suo interregno su Planet Rock...), produzione e registrazioni perfette che non sono invecchiate anche se riconoscibili all'istante. 
Ricordo anche distintamente la sorpresa al primo ascolto di pezzi come Version (dub pallido con clarinetto delirante), la spettrale e dissonante Fell, destroyed, la potente e rumorosa imponenza di By You, la fatalità introversa di Forensic Scene, e cito soltanto quelle che per me sono le tracce migliori, perchè qui su 13 non ce n'è una che una che deluda o lasci indifferenti, neanche in quelle più tradizionalmente hardcore. Pietra miliare, c'è poco da discutere.

mercoledì 4 luglio 2018

Candy Machine ‎– A Modest Proposal (1994)

Esempio di band americana di metà anni '90 che avrebbe avuto le potenzialità per diventare una piccola celebrità underground; fossero nati a Washington, ad esempio, avrebbero sicuramente guadagnato un posto alla Dischord e la conseguente esposizione; invece brancolarono per pochi anni fra oscure e piccole indies per poi scomparire.
A modest proposal fu recensito sul primo Blow Up che comprai; era il n.3, quello con l'anonimo EP degli Slint in copertina, quello di Musiche d'americhe. La recensione aveva un paio d'anni di ritardo, ma all'epoca ci poteva anche stare, visto che era ancora una fanza che freneticamente cercava di stare al passo coi tempi (e ci riusciva alla grande, direi). La band pareva provenire dal post-hardcore, e forgiava il proprio stile sardonico attraverso l'influenza palpabile dei Fall più ruvidi, con un approccio funky sostenuto, le chitarre post-Sonic Youth e post-Fugazi. Un disco godibile e divertente, immerso fino al collo nella propria epoca, che ai tempi non so se avrei adorato ma che ho avuto la soddisfazione di ascoltare a più di vent'anni di distanza.

martedì 22 maggio 2018

Unwound - New Plastic Ideas (1994)


Frutto di un’evoluzione impressionante rispetto a soltanto un anno prima (il furiosissimo Fake Train), New Plastic Ideas resta una pietra angolare della carriera del trio di Olympia, di certo non fondamentale come gli ultimi, ma molto significativo perché pubblicato in un anno, il 1994, che fece la storia della musica americana, ricco come fu di capolavori ed innovazioni. A modo suo, un gruppo ancora molto giovane ma con delle idee chiare su come superare il noise-rock ed il post-hardcore, seppur sapessero interpretarlo ancora con convinzione ed ottimi risultati (Hexenzscene, Envelope,All souls day). Sono le tracce dilatate a restare scolpite nella memoria; i 7 minuti strumentali di Abstraktions riprendono la lezione implosa degli Slint e la portano a livelli quasi cosmici, Fiction Friction un vortice piano-forte che influenzerà tantissimo anche gruppi inglesi come Elevate e Ligament, Arboretum e le sospensioni parossistiche a base di armonici, con un senso del tragico che all’epoca aveva pochi eguali. Senso del tragico che diventerà la chiave di lettura principale nel proseguio della loro carriera.

lunedì 30 aprile 2018

Hoover – The Lurid Traversal Of Route 7 (1994)


Meteora della Dischord di metà anni ’90, il quartetto degli Hoover fece parte della schiera di quei maturi ragazzi che all’epoca cercarono di spostare l’hardcore ancora un po’ più in là di quanto già avevano fatto i capofila. Pur lasciando il timbro vocale arrochito tipico, il loro suono riprendeva il pionieristico approccio Fugaziano, il senso di urgenza espressiva e l’impeto fragoroso; tuttavia, lo rallentava, lo dilatava in forme sempre ben definite ma inquietanti. La scuola Spiderland iniziava già a mietere potenziali successori come succedeva altrove al contempo, leggi Rodan a Louisville, Engine Kid nella west-coast, e mancava solo un anno al debutto dei June Of ’44.
Che dagli Hoover prelevarono il bassista Fred Erskine ed il suo poderoso 4 corde che su The Lurid Traversal…ha un ruolo da protagonista, riuscendo a non farsi sovrastare dalla coppia di chitarre e grazie al suo suono profondo ed intenso, caso rarissimo in area hardcore. La scaletta verte intelligentemente sull’alternanza piano/forte, veloce/lento, pieno/vuoto, sfiorando a tratti il post-rock e riuscendo a non annoiare nonostante la lunghezza. Quindi un gruppo molto capace e dal potenziale alto, senonchè si sciolsero subito dopo ed ognuno andò per la propria strada. Sarebbe stato interessante un seguito evolutivo, ma dopotutto anche no, chè un bassista diverso da Erskine nei June Of ’44 secondo me non avrebbe funzionato…

lunedì 12 giugno 2017

Fugazi ‎– Repeater (1990)

Tempo fa, leggendo l'eccellente Our Band can be your life, che racconta la biografia di 10 grandi band americane durante gli anni '80, mi sono quasi commosso durante il capitolo dei Fugazi. La loro celeberrima integrità morale e la loro etica hanno rappresentato un modello irripetibile, che nel mondo malato e marcio di oggi non sarebbe mai potuto esistere. E' vero che durante gli '80 pubblicarono soltanto i primi singoli, ma in quel decennio dedicarono anima e corpo alla coltivazione di quanto avrebbero raccolto nei '90, strameritato culto, stima illimitata e popolarità internazionale.
Per quanto riguarda Repeater, poco da dire su una trafila di album mai sbagliati e mai fuori fuoco, di cui fu soltanto il primo della lista. Me la sbrigo con la massima che i Fugazi sono stati per l'hardcore ciò che i Wire furono per il punk inglese; sviluppatori di un nuovo linguaggio e pionieri di nuove strade che quasi nessuno ha percorso con lo stesso successo.

lunedì 23 gennaio 2017

Black Flag ‎– The Process Of Weeding Out (1985)

Universalmente riconosciuto come mosca bianca ma anche come caposaldo essenziale nella discografia dei BF, questo sconvolgente mini di 25 minuti segnava un punto irreversibile ed anticipava di qualche anno certe commistioni di hard evolutissimo che avrebbero sviluppato gente di confine come Blind Idiot God e Iceburn, per non parlare del math-rock anni '90 anche se in forma diversa nei contenuti.
Non è vero, come si legge spesso, che Rollins non compare perchè era già fuori dal gruppo: Ginn concepì queste 4 tracce in forma strumentale e diede via libera al suo chitarrismo ormai sempre più arzigogolato e delirante, adeguatamente supportato dai tempi dispari della Roessler e di Stevenson, per un jazz-core spigolosissimo e totalmente innovativo, in quanto dotato di una tecnica particolare che era slegata sia dalle radici hardcore che da un non-identificato punto di arrivo; dire jazz in effetti è davvero straniante, ma Ginn volente o nolente suonava così. Unico punto debole la produzione, piatta e deficitaria di potenza, ma quelli erano anni difficili per tutti. Ad ogni modo, da annoverare fra le grandi anomalie degli anni '80.

mercoledì 17 agosto 2016

KEN Mode ‎– Success (2015)

Non è che l'equazione "disco registrato da Albini" = "disco di qualità garantita" sia assoluta e/o matematica nè frutto di mera sudditanza psicologica; dato per scontato che sia impossibile averli sentiti tutti (a meno di essere un fan terminale dell'occhialuto), il fatto che capiti nella maggior parte dei casi che passano dalle orecchie fa venire il sospetto che sia molto vicino alla realtà, però.
Il caso dei canadesi Ken Mode si ricollega a quello avvenuto pochi anni fa ai Cloud Nothings: gruppo già avviato con uno stile discretamente personale, con la possibilità di farsi un pubblico, ad un certo punto sente il bisogno di guardare indietro a 2 decenni fa ed ispirarsi a quelle sonorità, e per farsi assistere si rivolge ad una delle massime icone dell'epoca. Che inevitabilmente non fallisce e posa i microfoni a modo suo.
Con alle spalle già una manciata di dischi in stile improntata al post-hardcore ai limiti del metal, per i KM è stata una bella scommessa, ed infatti ho letto recensioni un po' contraddette sui siti più settoriali. Success esplode la sua potenza impressionante con una miscela che rimbomba fra Unsane, Jesus Lizard ed un tornado rabbioso e schiumante di energia. L'entusiasmo è di poco inferiore a quello che mi diedero i Pissed Jeans nel 2007. Il noise-rock è duro a morire.

venerdì 6 novembre 2015

Das Simple ‎– In Girum Imus Nocte (2013)

Pirotecnica band francese dedita ad un math molto tecnico, di un impatto frontale che non lascia indifferenti. Cinque brani lunghi ed articolati dai titoli in latino, madrelingua ed inglese. Presumo che abbiano delle radici hardcore, dato il ruvidissimo stile vocale ed alcuni breaks di evidente retaggio (c'è persino una fuga grind), però l'influenza dei Magma in passaggi di grande enfasi e di ritmiche spigolose si fa sentire non poco. Nel primo pezzo, le trame chitarristiche risalgono addirittura alla pietra miliare kingcrimsoniana Red.
Quindi, in sintesi un hard-prog sincopato e variopinto. Nulla di nuovo oltr'alpe, ma un ascolto i Das Simple lo meritano abbondantemente.

sabato 18 luglio 2015

Dead Kennedys - Frankenchrist (1985)



Bistrattato e sottostimato da pressochè chiunque, il terzo album dei Dead Kennedys rappresentò una svolta coraggiosa e naturale. Era chiaro che ciò che avevano raggiunto con i primi due era difficilmente superabile, così ebbero la spinta necessaria a cambiare. Oggi che sono passati 30 anni, credo una rivalutazione sia doverosa.
Innanzitutto godettte di una produzione perfetta per i propri scenari inediti, al contrario di Fresh fruit che pur essendo fulminante aveva un suono piuttosto piatto e compresso. Poi va rimarcato il grande lavoro chitarristico di East Bay Ray, che aprì il riverbero del proprio ampli con grandi risultati. Ne sfociava spesso un surf-core a tratti quasi psichedelico, quasi una bestemmia per gli hardcore-kids. Ma le ritmiche erano ancora travolgenti e la scaletta non sbagliava un colpo.

giovedì 26 marzo 2015

Vss - The skin of tiny teeth + Live 1997 (2008)

Aggiunta alla ristampa di Nervous circuits rilasciata da Hydra Head nel 2008, consistente in una manciata di inediti + un live del 1997. Per tacere del dvd allegato: un'operazione che credo sia stata appannaggio di pochi fan e nostalgici, e che fa anche riflettere sulle cause che hanno portato la gloriosa etichetta di Aaron Martin a congelare le attività nel 2012.
Non che non la meritassero, quest'operazione: i Vss erano un'anello-simbolo di congiunzione fra post-hardcore, noise e art-rock ed infatti il percorso di alcuni loro membri ne è stata chiara dimostrazione. Fra gli inediti, probabilmente risalenti alla prima fase di vita del gruppo per la maggior incidenza delle chitarre, spicca una brutale cover di No hands degli Echo & The Bunnymen. Per quanto riguarda il live, è un baccanale infernale che, malgrado la non eccelsa qualità della registrazione, colpisce con la sua ossessività, con le urla belluine del vocalist ed una concitazione esecutiva che non ha molti paragoni negli anni '90.

giovedì 12 febbraio 2015

Cloud Nothings - Attack on memory (2012)

Giovane formazione americana tendente all'hardcore-pop-grunge di cui non me ne sarebbe fregato assolutamente nulla se non fosse per un quarto d'ora entusiasmante di ruspante revivalismo fine '80/inizio '90 contenuto all'inizio di Attack on memory. Considerato che gran parte del grunge tende ad invecchiare maluccio, è impresa meritevole di lode.
L'iniziale No future/no past è una litania depressa, sostanzialmente un fermo immagine dell'ultimo Cobain, cinico e fatalista, ma che ricorda vagamente anche i Van Pelt. Quando ad un minuto dalla fine il pezzo sembra decidersi a decollare, la produzione di Albini fa il primo grosso regalo al gruppo ricreando in tutto e per tutto il suono di In utero.
La sensazione vera è Wasted days, classificabile come uno dei migliori pezzi mai scritti dagli Husker Du altezza '83/85, che parte subito come un siluro a presa immediata e poi deraglia in una specie di jam iper-nevrotica con effetti deliranti, fino alla durata finale di 9 minuti.
Sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un capolavoro, ma il resto del disco getta bruscamente acqua sul fuoco facendo scendere in verticale la soglia dell'attenzione. Esclusa un'altra buona mutuazione nirvaniana (No Sentiment), i 5 pezzi residui parlano un linguaggio punk-pop con poca personalità e piuttosto scontato, mille volte inferiore a quel quarto d'ora da orgoglio in flanella.