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giovedì 25 maggio 2023

Alexander Voulgaris a.k.a The Boy - Ώντρεϋ (2021)


L'autore della colonna sonora che mi ha fatto innamorare tratta dal film che mi è più piaciuto degli ultimi 3/4 anni ha una nutrita discografia maturata negli ultimi 15 anni fra soundtracks e dischi originali, ben documentata sul Tubo. Certamente l'alfabeto greco non consente di apprendere più informazioni di quelle che la curiosità alimenterebbe, così dopo una rapida e superficiale analisi ho scelto questo album di un paio d'anni fa, sperando di poter scorgere qualche altra gemma. Il disco mette in mostra un songwriting mellifluo ed evanescente a base essenziale di tastiere ed una voce femminile algida (non propriamente ineccepibile dal punto di vista tecnico) in greco (poco da fare, usando una parolaccia si potrebbe dire che è inchiavabile), con uno spiccato melodismo e qualche influsso tradizionalista. Una produzione un po' più affinata ed una scelta più saggia dei timbri avrebbe aiutato.

Detta così, un disco sul quale si sarebbe potuto sorvolare ampiamente, anche perchè certi pezzi sono proprio banalotti, ma scorrendo bene fino alla fine un paio di chicche si trovano e sono davvero memorabili, nello specifico la 7 e la 8 (non sto ad incollare i titoli), delicata e soffusa la prima, drammaturgica e melanconica la seconda. Due piccole perle che da sole valgono il disco e riaccendono quel fuoco che si era acceso con Apples.

domenica 21 maggio 2023

Screams From The List #115 - "Mama" Béa Tékielski – La Folle (1977)


Cantautrice francese ma di origini italo-polacche, la Tekielski diede vita ad un ibrido molto originale con questo La Folle, immergendo il suo songwriting di chiara estrazione dalla chanson storica transalpina in un substrato jazz-funk-rock molto bianco, spesso ai limiti della psichedelia. Date anche le indiscutibili doti vocali della protagonista, impostata su un vibrato-gorgheggiato potente e teatrale, mi si staglia in mente un ipotesi fantasiosa, ma giusto per dare un'idea: si provi a pensare Milva cantare sui Goblin, ed il pianeta non sarebbe poi così distante. Il disco inevitabilmente risente un po' degli anni che ha (è fuor di dubbio che queste produzioni oggi suonino molto più datate di altre più anziane), ma esercita ancora un discreto fascino per la propria originalità.

lunedì 1 maggio 2023

Joanna Newsom – Divers (2015)


Ma che fine ha fatto la divina Giovanna dopo questo disco, il suo quarto in oltre un decennio? L'unica notizia acclarata è che nel 2017 è diventata madre, e quindi vien da supporre che abbia, anche solo temporaneamente speriamo, riposto la sua arpona per esercitare il mestiere più nobile del mondo. Ipotesi che non fa altro che aumentare la stima ed il rispetto per questa grande ed originale cantautrice.

Divers ebbe il gravoso ed oneroso compito di succedere di 5 anni al monumentale Have One On Me, un capolavoro che difficilmente si potrà superare. Persino una formula inedita come quella californiana poteva essere a rischio di ripetersi, ma chissà perchè non è successo. Tornata ad un formato umano, ha felicemente deciso di variegare le proprie composizioni con sapienti, mai invadenti arrangiamenti. L'apertura cameristica di Anecdotes ci catapulta da subito in un mondo fiabesco, segue un trittico di pezzi a piena band, inclusa batteria. Ma la dimensione che preferisco è quella con l'essenziale, come la pianistica The things I say, la meravigliosa Divers, gli arcobaleni di You will not take my heart alive, le polifonie in crescendo della finale Time as a sympton, una chiusura in grande stile. Se avesse terminato la sua carriera qui, non ci sarebbe molto da rimpiangere, perchè i suoi dischi sono talmente belli che possiamo mandarli in loop senza mai stancarci.

sabato 15 aprile 2023

Peter Jefferies – Closed Circuit (2001)


Il disco dell'addio del grande outsider neozelandese, almeno fino al 2019 quando sono emerse un paio di raccolte di inediti e rarità assortite, molto eterogenee ma essenziali per ogni fan, e che hanno alimentato quantomeno la speranza di vederlo tornare in attività. Closed Circuit, quasi un titolo programmatico a suggellare una carriera stellare iniziata una ventina d'anni prima, a lungo vagante nel sottobosco locale e poi finalmente emersa nei '90 anche negli USA con la militanza su Emperor Jones, che gli diede la giusta visibilità. Un disco scomodo in quanto successore del suo apice sperimentale Substatic (un oggetto misterioso che disorientò anche i suoi sostenitori), un ritorno alla sua comfort zone fatta di alternanze fra velluto e carta vetrata, non all'altezza dei suoi principali capolavori ma capace di dare conferme del suo enorme talento. Certo la recriminazione resta alta: se il disco avesse beneficiato di una produzione migliore, pezzi come State of the nation (gotico atmosferico inedito), Dryest month in 100 years, Closed Circuit, Ghostwriter, Whatever you want ne avrebbero giovato. Con buona pace di SIB, il maggior sostenitore giornalistico italiano del talento di PJ, che però bolla il disco come il suo peggiore. No caro Direttore, non sono d'accordo. Quest'uomo non ha fatto un peggior disco.

venerdì 10 marzo 2023

Cigno – Morte E Pianto Rituale (2022)


Un esordio italico molto interessante dell'anno scorso, ad opera di un cantautore romano di nome Diego Cignitti che valica diversi steccati con Morte E Pianto Rituale, un album molto piacevole per quanto la sua non sia una musica esattamente accomodante. Il suo è una specie di cantautorato post-industriale, a tratti molto spigoloso, ad altri più disteso: potrei azzardare la definizione di esoterismo mediterraneo, a voler cercare una sintesi estrema, che ha diversi punti in comune con il più recente Iosonouncane (Protestanti). Altri paragoni possibili sono le processioni funeree dei Father Murphy (Mare Nero, La Terra Del Rimorso), antiche memorie post-punk (Postcapitalismo è un palese tributo ai CCCP, e spesso il vocalismo di Cignitti indugia in declamazioni alla Ferretti), ma io segnalerei anche alcune finezze strumentali che musicalmente alzano la media generale del disco: l'iniziale Colobraro, un valzer acido con una splendida intro pianistica che fa pensare ad un Satie sotto anfetamina, l'ipercinetica chitarra acustica di Pietra Sprecata e la finale Kabul, una contemplazione desertica di finissimo pregio. Non sarà destinato a cambiare la storia della musica italiana, ma Cignitti potrebbe avere un ottimo futuro.

martedì 29 novembre 2022

Barzin – Voyeurs In The Dark (2022)


Ogni tanto pensavo chissà che fine ha fatto Barzin, forse avrà messo su famiglia, si sarà trovato un lavoro regolare ed avrà smesso di fare la fame e di restare un perfetto sconosciuto, così ordinario e fuori dai circuiti, così classico ed obsoleto. Sono passati ben 8 anni da To Live alone in that long summer, in cui il canadese ha fatto una colonna sonora (nel 2020, sinceramente me la sono persa) e null'altro, ma chi apprezza il suo finissimo artigianato sa che il nostro ha bisogno di tempo e di estrema calma per concepire le sue trasognate ed autunnali ballads. Voyeurs in the dark non fa altro che ripetere questo piccolo miracolo, a dimostrazione che questa magica matrice deve soltanto far decantare ciò che produce. Un disco che peraltro non lesina sulla qualità degli arrangiamenti, a volte persino esuberanti per il suo standard. Se devono passare così tanti anni fra un album e l'altro, ben venga il lavorare con lentezza.

martedì 8 novembre 2022

Matt Christensen – I Know What The Fight Is (2017)

Per quanto rappresenti un modello vintage nel suono e nello stile, MC è perfettamente in linea con i tempi e con i modi degli artisti più fieramente liberi da ogni condizionamento e dagli schemi del panorama musicale; la sua discografia Bandcamp lievita mese dopo mese ad un ritmo irrefrenabile, e la lista supera ormai le 150 unità. E' chiaro che pubblica qualsiasi cosa registri. Allora tanto vale, come regola comune, basarsi sulle uscite fisiche, perchè con ogni probabilità avranno come minimo una cura sopra la media di quelle solo digitali. Almeno, in teoria.

I know what the fight is segue di un anno il divino Honeymoons, ed indugia su quel modello a dispetto di una registrazione meno limpida: strutture pigre, l'illuminata chitarra dal sapore desertico, le minimali e strascicate nenie vocali, il supporto ritmico di qualcosa che somiglia ad un double bass e percussioni spartane, col santino degli ultimi Talk Talk sull'ampli ed il flusso di coscienza che scorre come acqua fresca, senza alcun limite che non sia il proprio animo e la propria dimensione.

Il disco ha 7 tracce, non molto dissimili fra di loro, alcune terminano in fade out perchè potrebbero non avere fine. Il consiglio, se ci si vuole avvicinare al mondo di Matt Christensen, è di lasciarsi andare completamente e di prenderlo quasi come un sottofondo. E' fra i più immacolati e polverosi allo stesso tempo che possano capitarci fra le orecchie.

sabato 24 settembre 2022

Mark Kozelek With Petra Haden – Joey Always Smiled (2019)


Non è tutto da dimenticare ciò che ha pubblicato MK negli ultimi 5 anni, o almeno questa joint-venture è una eccezione alla regola. Ho trovato davvero scadenti l'omonimo del 2018, il trio con Boye e White del 2017, per non parlare dei vari Sun Kil Moon, che ormai sono diventati un ammorbamento spoken-word di incredibile incagabilità. Benvenuta quindi (sì sono passati 3 anni, ma i miei ritmi sono questi...) la collaborazione con Petra Haden, un'altra veterana dell'indie-art-folk americano degli ultimi 30 anni, di cui decisamente non ho seguito la carriera ma qui agisce in maniera decisiva sulle musiche, come confermato dallo stesso MK in una bella intervista.

Il bello di Joey Always Smiled è che stabilisce un compromesso sullo stato attuale di MK: non reprime la sua incontrollabile logorrea e non butta via il suo ingombrante passato, rinuncia a priori all'autarchismo ma ci tiene a porre in evidenza la sua firma, a tratti, realizzando un episodio più che dignitoso, a tratti persino divertente. Verrebbe da pensare che la Haden agisca dietro le quinte in maniera decisiva, un po' come il motto dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna, quasi dando la direzione artistica generale, perchè come presenza si limita a vocalizzare in qua ed in là (uno si aspetterebbe anche che suonasse il suo violino, ma non mi pare di sentirlo).

Sono le stranezze assortite a rendere il disco più interessante ad ogni ascolto, perchè al netto di qualche sbrodolamento MK, sembra un disco di incidenti più o meno casuali, qualcosa nato per disorientare lui stesso più di chiunque altro. Come la title-track, un mantra plumbeo composto e suonato da 3 tizi newyorkesi di area jazz-fusion (!), peraltro in modalità molto post-rock. Come Parakeet Prison, elegia pianistica di un quarto d'ora con delle ottime varianti, come la baldanzosa Spanish Hotels are echoey e i 20 minuti di 1983 MTV Era Music, che sembra nato da un giro di Ray Manzarek su una polverosa beat-box. Non mancano un paio di ballad in classico stile personale giusto per ristabilire il trademark, e nemmeno la cover ultra-famosa degli anni '80 che non la diresti mai. Tutto apparentemente un po' a casaccio, alla rinfusa, perchè MK ora è così, molto alla come viene viene, e Petra l'ha saputo addomesticare, con sapienza, tirando fuori il meglio che poteva. Non resterà nella lista dei suoi capolavori, ma una buona anomalia sì, sicuro.

domenica 18 settembre 2022

Julia Holter ‎– Have You In My Wilderness (2015)


Finalmente trovo un senso a tutto il grande clamore critico esploso a favore della Holter, ormai ritenuta una delle cantautrici più autorevoli al mondo (la media voto su Pitchfork è spaventosa, ma anche altri non scherzano). Avevo trovato gradevole uno dei suoi primissimi, ma poi ero rimasto deluso dal successivo Loud City Song. Conoscendo il percorso accademico della californiana (diplomata in composizione), ritenevo che il suo output soffrisse di uno stato di limbo sostanziale, un po' come successo ad altre della sua generazione, ovvero; il mettere la sofisticazione e lo spunto intellettuale davanti a tutto il resto, incluso anima ed emozioni. Il mio è un pensiero arrogante? Possibile. D'altra parte, magari alla Holter non interessa assolumente nulla dei giudizi e le importa fare e pubblicare la sua musica, visto che il sostegno della Domino è di quelli importanti.

Have you in my wilderness però ha un titolo che è quasi interpretabile come programmatico. Qui un ipotetico stato brado dell'autrice si rivela in un gettare la maschera per mezzo di un lussureggiante, sofisticato, solare ed emozionante art-dream-pop sinfonico, che scava fino a modelli risalenti agli anni '60 e che beneficia di uno stato di grazia compositivo. E' stato quasi come se la Holter, non so quanto volontariamente o meno, si fosse liberata delle zavorre avanguardistiche e si fosse lanciata verso il melodismo più sfrenato, sapendo però di poter fare qualcosa di intellettualmente sensato.

Il disco srotola una chicca dietro l'altra, poco da dire. Persino la sua voce, che ritenevo algida e poco espressiva, risalta maggiormente in questo contesto (Nico e Legrand i riferimenti principali). Feel You, Silhouette, Everytime Boots, Betsy On The Roof, Have You in my wilderness, Sea Calls Me Home sono dei preziosi manufatti analogici che sembrano persino costruiti con un algoritmo (e stesso discorso per quanto riguarda la produzione, stesso principio). Quindi, amore incondizionato per il disco in sè e l'ascolto libero da qualsiasi preconcetto; il sospetto di una presunta artificiosità per quanto riguarda l'elaborazione resta, ma in fondo cosa cambia. Di questi tempi la musica è così; non puoi più trarre conclusioni di nessun tipo.

lunedì 12 settembre 2022

Iosonouncane – Ira (2021)


Cantautore sardo che in passato ho ignorato per futili e snobistici motivi, lo ammetto. Il monicker non particolarmente attrattivo e soprattutto l'affiancamento (sbagliatissimo, ma da qualche parte l'avrò letto) ad altri interpreti connazionali che poi sono andati a vincere Sanremo, e per me interessanti soltanto in sede di programmi TV di satira politica. Chiusa parentesi, ovviamente non ho potuto ignorare il fatto che Ira sia stato sbandierato ovunque come un capolavoro di art-avant e devo dire che si tratta senza alcun dubbio di un lavoro importante, che merita la maggiore attenzione possibile.

Jacopo Incani si è preso un lustro per concepire quest'opera di dimensioni colossali e di impatto ottundente, rivendicandolo nelle interviste come un disco apertamente politico. Perchè è politico di questi tempi uscirsene con un oggetto di quasi 2 ore, di ascolto così impegnativo, con dei riferimenti così ingombranti, anche se la cifra stilistica personale è molto marcata, soprattutto nell'utilizzo del canto che è declinato in una specie di Esperanto solista, che sembra ricalcare le grammatiche inglesi ma utilizzando pronunce fonetiche italo-spagnole. Nella maggior parte del percorso sonoro, sono gli aperti contrasti a brillare: i ritmi nord-africanti vs. quelli techno, le algide striature elettroniche vs. i richiami ancestrali di piano e dei mellotron, spesso presenti. Il tutto declinato in pezzi che non durano mai meno di 4 minuti e si estendono fino ai 10'.

Impossibile non pensare a Thom Yorke & Radiohead quando Incani acutizza il suo falsetto su tessiture scabre e fantasmatiche (mi ritorna in mente la metafora di PS per il suono di Kid A, quel ....come una carcassa nei boschi....che credo sarebbe appropriata anche per Ira), e penso che i fan degli inglesi dovrebbero dare una chance a questo monolite, armandosi di pazienza e apertura mentale. Ma ci sono tante altre sfere di influenza, che Incani peraltro ha onestamente denunciato: Swans, Robert Wyatt, Residents, roba forte e storica. Io aggiungerei anche gli ultimi Talk Talk e perchè no, gli Audiac traslati in un contesto mediterraneo, ma non per questo meno raffinato.

Il limite più grande di Ira sta nella sua lunghezza, so che è borioso da dire perchè si tratta di un prodotto che non dovrebbe essere considerato come un disco, ma come una forma d'arte che non va confinata bensì fatta risuonare nelle coscienze di chi ci si dedica. Comprendo perfettamente che la sua omogeneità è tale da renderlo un corpo unico, e grazie ad essa sostengo che è quasi impossibile trovare momenti di stanca. Occorrerebbe prendersi qualche giorno e far girare soltanto questo, isolandosi da altri ascolti. Non è escluso che lo faccia: sarebbe un andare controcorrente le mie abitudini, un'azione in difesa della libertà personale, un gesto di responsabilità a favore di questo presunto atto politico. Per una volta non è così male allinearsi alla critica mainstream; probabile disco dell'anno scorso.

venerdì 9 settembre 2022

Holy Sons – Survivalist Tales! (2010)


Se solo ne avessi voglia e riuscissi ad essere un po' più coerente con gli ascolti (non mi lamento più di non avere il tempo, perchè sarebbe ipocrita nei confronti della vita), fermerei il blog, dedicherei un paio di settimane ad ascoltare tutti i 15 album che Emil Amos ha pubblicato dal 2000 ad oggi e ne scriverei un'approfondita monografia con tutte le info reperibili, che sono pochissime, in modo da esserne facilitato. Questo non è possibile e allora ogni tanto me ne ascolto uno, col rimpianto che probabilmente dietro l'angolo ce n'è uno più bello.

Di conseguenza non so se Survivalist Tales!, tappa mediana della sua discografia, sia più o meno bello degli altri. So per certo che serve le componenti essenziali di questo grande cantautore che, se fosse nato 25/30 anni prima, sarebbe diventato un gigante della sua generazione, contesti sociali permettendo. Il suo songwriting contiene tutto il dolore, il piacere, la sofferenza e la gioia del mondo, lo stordimento delle droghe, le visioni alterate e la lucidità della grande bellezza, l'imponenza pantagruelica dei Grails, lo straniamento ad un passo dal dub (Payoff, mozzafiato), l'ancestralità di Neil Young (Slow Days), la raffinatezza e l'eleganza dei Pink Floyd wrightiani (A Chapter must be closed e Reckless liberation, clamorosità), in un contesto disomogeneo che fa il filo allo spirito perfettamente inquieto del Nostro. 

Che forse non avrà mai fatto un disco capolavoro, perchè sarebbe stato troppo scontato e faticoso. Chè forse i suoi dischi funzionano meglio così, incerti e sul punto di crollare, un po' mimetizzati e pudici, trasudanti tutti i sentimenti.

domenica 17 luglio 2022

Microphones – Microphones In 2020 (2020)


Il pretesto di Phil Elverum per riesumare Microphones dopo 17 anni di Mount Eerie è stato quello di.....terminarlo. In preda ad un torrenziale flusso di coscienza autobiografico (che passati i 40 dopotutto ci può stare) ha scritto e registrato questo pezzo di 45 minuti con cui passa in rassegna tutta la sua vita concentrandosi sulla carriera musicale, dopodichè ha puntualizzato che si tratta della microfonata finale, suggellando la chiusura di recente con un box set che digitalizzato totalizza qualcosa come 74 giga fra discografia, memorabilia, feticismi e varietà. Una celebrazione che forse suona un po' stridente per il personaggio come lo conosciamo, decisamente umile e terreno; avrà avuto i suoi motivi pratici.

Musicalmente Microphones in 2020 costituisce un ponticello col passato omologo: base di strumming acustico ostinato, nevrosi controllate, improvvise abrasioni di fuzz, passaggi a strumentazione piena con basso e batteria; è di fatto un auto-tributo, costruito attorno ad un ossatura ripetitiva (2+2 accordi) con una sola fase variante intorno ai 3/4' della durata. Da leggere assolutamente le liriche, che compongono una visione filosofica molto introspettiva a corredo della sua vita da musicista, con particolare indugio sul periodo attorno ai 20 anni. Da ascoltare senza interruzioni, anche se non lo ritengo un capolavoro come hanno sbandierato varie testate.

giovedì 14 luglio 2022

Kevin Coyne – Matching Head And Feet (1975)

 

Il quarto album del piccolo grande KC, al vertice della sua forma artistica, un paio d'anni dopo essersi rivelato con l'ottimo Marjory Razorblade, ora forte di una band dalla grande coesione che schierava uno scatenato Andy Summers nell'immediato pre-Police, oltre che un ottimo batterista di nome Peter Woolf. Componenti che comunque avrebbero contato ben poco se non ci fosse stato in primo piano il talento di un cantautore purtroppo rimasto appannaggio per pochi, shouter invasato e dotatissimo, cantautore erede del blues-rock declinato in varianti sia divertite che introspettive, in grado di svariare dal gigioneggiare da bettola/osteria a ballad malinconiche/autunnali come se nulla fosse. Matching ne mise in fila una decina, con un paio che richiamavano addirittura lo stile più ordinato del Captain Beefheart coevo (ma senza esagerare), e le gemme intramontabili di Turpentine, Tulip. Sunday Morning Sunrise, Lonely Lovers.

lunedì 30 maggio 2022

David Sylvian – Dead Bees On A Cake (1999)


E' giunta l'ora per me di rivalutare un disco che all'epoca non ripagò adeguatamente la lunghissima attesa. Erano infatti passati ben 12 anni da quello che restò il suo insuperabile capolavoro, ed in quel lasso di tempo DS aveva fatto qualsiasi cosa non fosse un album solista, in ordine sparso: la dissimulata riunione dei Japan, gli esperimenti ambientali con Holger Czukaj, qualche tour autocelebrativo, la discussa e controversa avventura con Fripp, e forse altro che non ricordo e non ho voglia di andare a scovare. Dead bees on a cake comparve con sembianze di grande speranza, ma in realtà, ad una manciata di anni dall'irreversibile metamorfosi del nostro, rappresentò un enorme compromesso fra le meraviglie passate (I surrender, Thalhiem, Cafè Europa, The shining of things), spiccatissime derive ethno-world, sofisticazioni di lusso quasi salottiero, e persino una sfuriata free-jazz. Un album molto ma molto eterogeneo, quasi incasinato se non suonasse come un insulto alla classe sylvianiana. Non diventerà un capitolo molto amato per i fans, ma merita una ripresa anche soltanto per il poker sopra citato, una sorta di testamento di ciò che aveva rappresentato negli anni '80, lasciando aperti grandi interrogativi su quello che sarebbe stato il filone esplorativo di lì a venire. Che nessuno potè prevedere, in ossequio ad uno spirito inquieto e nomade com'è sempre stato.

domenica 24 aprile 2022

Neil Young – Tonight's The Night (1975)


Per quanto sia un pezzo fondamentale della storia della musica in America e non solo, la dicotomia fra rock e tradizionalismo è un eterno dilemma nella carriera di Neil Young. Per quanto io ritenga Live Rust e Weld manifesti quasi scolpiti nella pietra del rock, altrettanto fatico ad apprezzare le svenevolezze di Harvest o similari. Forse Tonight's the night rappresenta questa dicotomia in maniera esemplare nel suo insieme, raggruppando più o meno equamente la divisione fra country-blues rilassati ed elettricità a passo marziale. Un disco in nome del dolore e dei lutti, ma che ad ascoltarlo sembra più il ritrovo informale di un gruppo di amici inebriati di tequila e rilassati, lasciati andare alla notte californiana. Situazione che poi non si discosta dalla realtà in cui venne realizzato, rimasto a decantare per un paio d'anni e poi rilasciato più per la sua unitarietà d'intenti che per l'esecuzione finita vera e propria. Questo è sempre stato NY: la sostanza ed il cuore prima della forma e della mente.

martedì 12 aprile 2022

Scott Walker – Scott 2 (1968)


A volte mi chiedo chissà quali battaglie Scott Engel abbia dovuto combattere contro i discografici di turno per poter includere le proprie composizioni nei primi 3 album, che grossomodo ammontano in ciascun capitolo al 25% dei titoli in elenco. Che fosse colpa/merito di quella voce così ingombrante ed ammaliante o l'ipotesi di un disco interamente di suo pugno, che probabilmente non avrebbe riscosso consensi commerciali, chi lo sa. Ci sarebbe voluto il quarto volume, una ventina di mesi dopo, per raggiungere il traguardo e l'inevitabile capolavoro, ma resta il fatto che forse la storia della musica si è persa qualcosa di importante. Sul terzo, la solita (gradevolissima) sfilata di pezzi di Jacques Brel, tributi singoli a Bacharach, Hardin, Mancini, sfoggio di tripudi orchestrali e piacere lubrico del pubblico adulto.

Resta scontato che il piatto forte è costituito dai 4 pezzi autografi: The Amorous Humphrey Plugg, canonica ma con progressione in maggiore da brividi. The Girls from the streets, drammatica ed imponente. Plastic Palace People, onirica e sospesa. The Bridge, commoventissima. Come negli altri episodi, occorre dire comunque che Walker beneficiò dell'apporto orchestrale profuso al massimo, come sempre lussureggiante e di grande gusto. La sua grande voce fece il resto, cioè tutto ciò che poteva ispirare, cioè l'universo intero.

giovedì 17 marzo 2022

Lowercase ‎– The Going Away Present (1999)

Chiudo il discorso sui Lowercase andando a trattare brevemente il loro terzo ed ultimo album, un lavoro complicato e di umore nero pece. Dopo un primo nevrastenico episodio, già piuttosto peculiare ma leggermente acerbo e grezzo, Wasif e Girgus aggiunsero un bassista e confezionarono il loro miglior prodotto, Kill The lights, molto focalizzato e compatto su una sempre più originale formula di songwriting, grazie alla maturazione repentina del cantante/chitarrista. The going away present, sempre più carico di angoscia esistenziale e cantilene rabbrividenti (ai limiti del dark-gothic), testimoniava alla perfezione lo stato d'animo di una band sull'insanabile punto di rottura. Al pari di nevrotiche quanto energiche ballad elettriche comparivano anche alcuni numeri di apatico slow-core, favorendo l'alternanza delle dinamiche di uno dei dischi più depressi che mi sia capitato di ascoltare, in sostanza a metà strada fra i due precedenti come qualità generale. Poteva esser stato un episodio di transizione, ed invece funse da epitaffio. Wasif prese la sua valente strada di cantautorato esistenziale, e credo che sia stato meglio così. Lo spleen dei Lowercase aveva raggiunto un punto di non ritorno.

domenica 13 febbraio 2022

Weyes Blood – The Outside Room (2010)


Il debutto della cantautrice Natalie Mering, originaria della California, assurta a discreta visibilità grazie ad un album su Sub Pop nel 2019. Le premesse di The outside Room però erano ben altre, prima di una progressiva normalizzazione, e non a caso il trampolino della situazione fu la Not Not Fun, per i cui standard comunque era decisamente canonica. Base di partenza un folk psichedelico austero, con impostazione vocale mutuata direttamente da Nico, ben udibile nel pezzo di apertura Storms that breed. Il seguito va a braccio su tenui allucinazioni, ballad stordite alla Natural Snow Buildings, reminescenze sparse di una Azalia Snail molto seriosa, echi di una Joanna Newsom umile in quanto meno dotata. L'aspetto vocale è quello più curato e dotato di attenzione, ma più per impostazione che per talento cristallino, a suggellare il sacrale riferimento Nico-esque. Nel complesso, un disco molto etereo e diversificato, gradevole se si apprezza l'area grigia che occupa.

mercoledì 9 febbraio 2022

Imaad Wasif – Dzi (2017)


Dopo un lunghissimo silenzio solista (8 anni dal precedente, bellissimo The Voidist), IW è tornato con il suo quarto album. Nel frattempo, collaborazioni miste, un'altro gregariato live con i Yeah Yeah Yeahs, e cos'altro non si sa. Quello che era stato uno dei miei cantautori preferiti degli anni Zero sembrava essere sparito, invece ha fatto 2 album in due anni (il successivo Great eastern sun, di psych-folk quiesto e svanito) e anche se l'ispirazione non è quella degli esordi, sono stato contento di ritrovarlo con un disco 100% elettrico, grintoso e viscerale, di cantautorato quasi stoner (!), rivestito da una grossa filigrana psichedelica e dalla immancabile vena malinconica. Il fragore di Turn Away e I'm changing rasenta il grunge, mentre a più riprese si materializza il miglior spirito melodista dei vecchi Dead Meadow. Insomma, sempre tradizionalismo ma con personalità ed un trademark che resterà sempre per pochi, appassionati e fedeli come me.

lunedì 24 gennaio 2022

Nick Cave & The Bad Seeds ‎– The Good Son (1990)


Raramente ho riscontrato una tale unanimità di pareri, anche fra fonti piuttosto disparate: The Good Son non è soltanto il capolavoro di Nick Cave, ma di molto altro. A distanza siderale da quando lo ascoltai per l'ultima volta, non posso non allinearmi, se non altro per i miei pezzi preferiti: Sorrow's child e Lament, ballate sinfoniche strappalacrime in apparenza semplici ma frutto di un ispirazione straordinaria. Che altrove non manca di certo, bilanciata a meraviglia fra gli ardori del passato, il croonering di razza che già aveva coniato, il gospel virato in bianco, e perchè no, qualche lontano eco dello Scott Walker degli anni '60, restando in tema di sinfonismi e carisma del grande interprete. E poi come non citare anche The Ship Song, Foi Na Cruz, The Weeping Song. Giù il cappello.