Magistrale riproposizione dal vivo dell'ultra-austero Field Of Reeds, registrato con l'ausilio di un'intera orchestra, d'altra parte necessaria per dare una versione fedele dell'originale (d'altra parte, al 98% in copia carbone). E' sembrata quasi la trasposizione ai giorni nostri del trionfale disco dal vivo che negli anni '70 santificava e portava in gloria la carriera dei grandi gruppi rock, se non che la perfetta esecuzione, ai limiti dell'asetticità, lo fa sembrare un live in studio. Poco da dire sul materiale, con The light in your name e Island Song in vetta al resto, apici del loro art-reed-rock qui giunto alla fine di un ciclo. Nel bis un paio di estratti dal (non apprezzato da me) precedente + un ottimo inedito, Spitting Stars. Isolati su un inevitabile piedistallo.
sabato 18 marzo 2023
These New Puritans – Expanded - Live At The Barbican (2014)
mercoledì 22 febbraio 2023
Lingua Ignota – Caligula (2019)
Fin dall'incipit, dalle polifonie gotiche di Faithful Servant Friend Of Christ, un affresco non distante da certe pagine Dead Can Dance, si è capito che il difficile terzo album di Kristin Hayter sarebbe stato naturalmente evolutivo rispetto ai due miliari precedenti. Un disco sfaccettato e composito, lunghissimo, che ha richiesto più attenzione e concentrazione per essere assimilato. L'effetto finale, per quanto l'impressione continui a restare altissima, è che l'immediatezza sia stata sacrificata in nome di una maggiore cura dei dettagli. Spicca infatti il coinvolgimento di diversi musicisti a sostegno (cello e violino, batteria e percussioni sparse, qualche sgocciolìo di elettronica) delle 11 composizioni, che raramente vedono la Megachurch Mom in perfetta solitudine come in passato.
La base di partenza resta la dolente sonata piano/voce, per mezzo della quale si dipanano le sfuriate harsh, le mazzate doom (Day of tears and mourning ricorda vagamente i Locrian), le orchestrazioni a pieni giri (Spite alone holds me aloft, I Am The Beast), in un labirinto difficilmente estricabile. Se si trattasse del disco di una esordiente i toni sarebbero forse più entusiastici; l'impressione generale è che si sia trattato di un episodio di transizione. Ma è la transizione di una fuoriclasse, ed è inevitabile renderle omaggio, ancora una volta.
mercoledì 12 ottobre 2022
Lingua Ignota – All Bitches Die (2017)
Uscito a soli 6 mesi di distanza dal sensazionale esordio, All Bitches Die ne è stato l'ideale complemento nonchè la giusta prosecuzione. Anche in questo caso, difficile trovare le parole per descrivere quella che, più che musica, è una forma di auto-terapia generosamente donata al mondo. La Hayter avrebbe potuto insistere sul versante più urticante del suo stile, come lascia intuire l'incipit di Woe To All: clangori metallici, scansione harsh-synth e scorticamento belluino di ugola. Al quinto minuto però tutto si placa e la nostra eroina si siede al piano, compassata, e comincia a gorgheggiare estatica, dando la stura a ciò che preferisco della sua arte; il rapimento etereo, la vocalizzazione virtuosa ed emotivamente spericolata.
God gave me no name è la sonata gotica per organo e performance gospel nero-pece, un raggio di sole nel suo buio esistenziale. Sempre più rapita, intona la title-track su un filone similare (ma al piano) e genera 13 minuti da pelle d'oca, con un brevissimo intervento di larsen a fare da spartiacque fra due distinti, brillantissimi tronconi. For I Am the light ripristina l'atmosfera da messa horror, che finisce per deflagrare in un altro gospel sotterrato dal rumore bianco ad intermittenza. Chiude Holy is my name, evocativa fino alla massima rarefazione.
Probabilmente frutto della stessa miniera da cui ha estratto Let the evil....., All Bitches Die è stata la conferma perfetta di un talento mostruosamente fuori da ogni canone. Credo che la si possa amare o la si possa odiare, difficile riscontrare indifferenza. Divina.
martedì 27 settembre 2022
And Also The Trees – Green Is The Sea (1992)
C'è la probabilità che abbia ampiamente sottovalutato il lavoro degli AATT, dopo che molti anni fa ascoltai distrattamente la loro discografia del primo decennio. A volte i giudizi variano in base al periodo, alla consapevolezza, alla maturità ed all'esperienza. In attesa di scandagliare un po' la loro produzione (16 dischi in 40 anni), mi soffermo al meglio su un capitolo del decennio che li vide passare con grande raffinatezza dall'iniziale dark ad una wave più atmosferica fino a svoltare al gotico elegantissimo di questo lavoro, vario e genuinamente arty (da qualche parte ho letto il brillante appellativo surf-noir, ma in questo episodio forse vale solo per alcuni passaggi), nobilitato da arrangiamenti lussureggianti, dal baritono di S.H. Jones, perfettamente calzante per la causa, e da una prima metà del disco ricca di magia evocativa: Red Valentino, The Fruit Room, Blind Opera, The Dust Sailor sono estremamente diversi fra di loro ma schiudono un senso di omogeneità granitica e di autentico artigianato. Unici difetti, il calo d'ispirazione nella side B ed alcune scelte produttive, forse ancora legate agli anni '80 appena tramontati. Ma ascoltando dischi come questi possiamo comprendere il vero senso del gotico inglese più contaminato e scopriamo l'enorme influenza esercitata sui Piano Magic del decennio successivo.
lunedì 21 marzo 2022
Miranda Sex Garden – Carnival Of Souls (2000)
Disco controverso con cui le MSG chiusero la loro carriera, dopo uno iato quinquennale da quel Fairytales of slavery che aveva sancito la fine del prestigioso patrocinio Mute. La line-up vedeva ormai un predominio maschile, dato che del nucleo fondativo era rimasta soltanto la Blake e la sua voce eterea, formalmente impeccabile e calata in un suono sempre più pieno e chitarristico. L'imprinting gotico restava parte fondante del canovaccio, ma le fusioni vocali e l'incipit sperimentale dei primi dischi erano un lontano ricordo e paradossalmente con questo episodio si sarebbe potuto aprire un varco nel fertile mercato di quei tempi. Carnival Of Souls contiene ottimi pezzi di maudit-rock come Are you the one, Ever & Ever, Broken Glass, Close to the sky, potenzialmente accattivanti sia per il pubbico indie che per quello gotico. Ma breccia non fu e lo split definitivo seguì di conseguenza. Non era destino, evidentemente.
martedì 23 novembre 2021
Lingua Ignota – Let The Evil Of His Own Lips Cover Him (2017)
Dietro il moniker italico, la performer di origine californiana Kristin Hayter, esordiente non più giovanissima con questo autoprodotto ma diventata tempo zero una delle sensazioni più forti degli ultimi anni. Le similitudini ed i richiami inevitabili a grossi nomi del passato (Nico, Diamanda Galas), aggiungerei per i tempi attuali anche Zola Jesus, lasciano tutti il tempo che trovano di fronte ad un approccio a dir poco shocking. Il suo canto, dalla tecnica impeccabile grazie agli studi intrapresi in tenera età e a varie doti naturali, ha giocoforza un ruolo centrale nei 5 pezzi dell'album, ma è il concetto generale (la violenza maschile, che ha dichiaratamente ammesso di aver subito e raccontato nelle liriche) a farla da padrone, permeando l'atmosfera generale in un pauroso, struggente blocco fuso di portata emotiva che ha ben pochi eguali.
Con delle doti così impressionanti di presenza ed una performance stellare, musicalmente alla Hayter è bastato ben poco, sia in termini di composizione che di arrangiamento. Lo strumento portante è un organo minimale, dal suono squisitamente chiesastico. Gli orpelli si possono contare sulle dita di una mano: spoken word (funzionali al racconto del concept), qualche concretismo, sparuti disturbi harsh-noise, qualche tonfo percussivo. Lo snodo centrale sta nei 15 minuti di That he may not rise again, un autentico cunicolo di orrore, in cui la Hayter si lascia andare ad una prova teatrale sovrumana.
Un intero disco di questo tenore sarebbe stato eccessivo, e qui sta la prova di saggezza. Intorno a quel monolite spaventevole, la Hayter indugia sulla sua vena eterea, si potrebbe definire sognante se non sapessimo che razza di bestialità l'ha ispirata, si potrebbe dire liturgica vista l'atmosfera. Si entra con Disease of men, lunga nenia minimalistica con spoken word di sottofondo, e la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di unico è già materializzata. La voce virtuosa non è uno strumento nè di vanità nè di lamento, è strumento a sè. Segue Suffer Forever, dallo stesso tenore ma che rilancia in termini di composizione; il tema inizia in maggiore, poi si ferma e muta in un minore rabbrividente. La meraviglia prosegue con The chosen one, che lascia spazio ad un pianoforte che più nudo non potrebbe essere (non siamo distanti dall'ultima Grouper), un mantra da pelle d'oca che al proprio termine può lasciare spazio solo al silenzio.
La chiusura (cover di un pezzo reggae degli anni '80(!), seppur servita alla sua maniera), è il punto debole di un album che quasi rinfranca, perchè stempera l'abbandono totale in un gotico marziale alla Swans. E che non inficia il valore complessivo di un capolavoro che lascia tramortiti.
domenica 3 marzo 2019
Black tape for a blue girl – A Chaos Of Desire (1991)
sabato 28 luglio 2018
Have A Nice Life – The Unnatural World (2014)
giovedì 15 marzo 2018
Swans – White Light From The Mouth Of Infinity (1991)
domenica 14 gennaio 2018
Legendary Pink Dots – Any Day Now (1987)
sabato 7 gennaio 2017
Dead Can Dance – Spleen And Ideal (1985)
domenica 3 gennaio 2016
Anathema - Distant Satellites (2014)
sabato 12 dicembre 2015
Jarboe – Thirteen Masks (1991)
mercoledì 18 settembre 2013
Raison D'Etre - Enthraled By The Wind Of Lonelienes (1994)
giovedì 20 dicembre 2012
In The Nursery - Koda (1988)
domenica 8 luglio 2012
Cranes - Loved (1994)
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martedì 8 febbraio 2011
Miranda Sex Garden - Fairytales of slavery (1994)
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Gli arditi esperimenti delle londinesi avevano seguito un percorso tutto personale: se Suspiria le aveva indirizzate verso un barocco atipico fatto di madrigali immersi in torbide atmosfere, Fairytales of slavery affondò pesante in mari agitati e tempestosi. La tornitruante Cut, l'ipercinetica Peep show, l'epica Cover my face, mostravano un lato aggressivo molto stridente con la voce angelica della Blake. Con la decadenza inquietante di Fly, l'evocativa Freezing, la danza straniante di Wheel, ottenevano invece quel punto g-otico che forse si faceva leggermente sfocato in altri frangenti. Un vero peccato, perchè proprio qui finì il loro rapporto con la Mute e di conseguenza la loro visibilità europea (non ho mai sentito il loro disco finale del 2000).
Con le doti che avevano e la suggestione potenziale inespressa, avrebbero potuto fare di meglio. I loro dischi migliori restano quelli di mezzo, cioè Iris e Suspiria.
venerdì 23 aprile 2010
Cranes - Forever (1993)
Gli inglesi Cranes sono stati un evoluzione del dream-pop, del gothic-rock e dello shoegaze. Dopo gli esordi abrasivi, con questo Forever smussavano le asperità e dipanavano il sound su direttive più riflessive e mature. Il loro tratto distintivo risiedeva nella voce di Alison Shaw, impostata su un registro molto acuto, quasi da fase puberale. Ovviamente una voce che si ama o si odia.
Il fratello Jim invece si occupava delle parti musicali. Everywhere, Jewel, Clear, Sun and Sky sono evoluzioni della dark-wave di prim'ordine, dove le chitarre hanno la parte predominante. I momenti più profondi risultano essere nei pezzi più emotivi, come le splendide And Ever, Golden, Adrift e Far away, dove si alternano parti sospese di grande suggestione con esplosioni orchestrali, con senso di drammaticità imperante.
(Originalmente pubblicato il 09/03/2008)