martedì 30 giugno 2015

Barzin - To Live Alone In That Long Summer (2014)

E' di un candore disarmante Barzin quando, in un intervista, dichiara che i suoi tempi sono questi: 5 anni da Songs for an absent lover vogliono dire che sì, è lento come la messa cantata ma non può fare a meno di far uscire un disco quando è sicurissimo che sia degno di essere diffuso. E ha ragione tutta la vita, tornando col suo solito, inevitabile, fermo cantautorato; di fare cose diverse non se ne parla, ma chi glielo farebbe fare. Siamo tornati ai livelli di My life in rooms, e giuro che non ci avrei scommesso un centesimo.
Inutile dilungarsi: fosse stato 15 anni fa, avrebbe riscosso più consensi: l'era dorata del neo-folk è andata da un pezzo ma Barzin è fatto così, se ne frega e continua per quei pochi che ne amano la naturalezza e le indimenticabili canzoni di struggimento e disarmo.

sabato 27 giugno 2015

Felt - The Splendour of Fear (1984)

Tutt'altro che una meteora, i Felt da Birmingham trapassarono gli anni '80 senza mai farne parte esteticamente e senza mai diventare famosi nonostante il periodo fosse fertile e la loro musica fosse fortemente melodica.
L'aspetto ancor più atipico era che una buona metà del loro primo repertorio era composto di pezzi strumentali, nonostante il leader fosse il cantante Hayward. Nella prima fase della loro storia, infatti, era tutto incentrato sulla chitarra di Deebank che ripescava il jingle-jangle applicandolo ai ritmi secchi della new-wave, mentre il registro vocale imitava in larga parte il tono di Lou Reed. Detto così non sembrerebbe il massimo della vita, se non fosse che il materiale era di gran pregio e detta chitarra sapeva creare atmosfere sognanti e malinconiche con una genuinità indicibile. L'analogia che mi viene in mente è quella coi R.e.m: stesse basi di partenza ma contesto diverso in base alla zona di provenienza. The splendour of fear è un breve ed incantevole insieme di quadretti di quell'emotività tutta britannica, al quale abbandonarsi, preferibilmente in autunno.

mercoledì 24 giugno 2015

Mako Sica - Dual Horizon (2010)

E la cellula polacca si spaccò, dopo aver realizzato misconosciuti, incompresi ed ignorati capolavori degli anni zero. Iwank scomparse, Drazek fece combutta col sodale Kendrick, coinvolsero un cantante/chitarrista, tal Fuscaldo e formarono i Mako Sica. Un progetto esclusivamente live, almeno fino al 2012, con forti componenti impro.
E sono ancora forti sensazioni, segno che i fuochi creativi non sono stati sopiti. E' lampante che nulla potrà più essere come prima, perchè il segno di Iwank era troppo marcato. Senza la sua lugubre zavorra, Mako Sica spicca il volo e crea una formula sublime di avant-impro-psichedelia. Senza la sua imponente teatralità, gli altri due rilasciano fragranze mistiche: Drazek propone ancora il suo timbro squillante e ripone quasi del tutto il suo trapano, Kendrick reprime le ambizioni tecniche e si fa ipnotizzare dalla situazione. Fuscaldo vocalizza soltanto fonemi in estasi e fornisce un supporto ritmico o di discreto contrappunto. Tutto, come ci tengono a sottolineare, registrato live e senza overdubs. L'hanno definito atmo-rock.
Per spiriti affrancati.

domenica 21 giugno 2015

Luciano Cilio - Dialoghi del presente (1977)

Ristampato poco tempo fa in versione ampliata e con un titolo diverso dall'italiana avanguardista Die Schacthel, Dialoghi Del Presente è una gemma nascosta dell'Italia 70' che, nonostante la grande apertura mentale di quegli anni, lo ignorò. Oggi è finalmente arrivata la degna riscoperta e chissà cosa ne avrebbe pensato la buon'anima di questo polistrumentista napoletano, artefice di un'unica mezz'ora di assoluta magia e poi scomparso. La sponsorizzazione spassionata di O'Rourke, l'inclusione in una compilation di The Wire, Pitchfork che gli dà un 8.4 sono soltanto gli accadimenti internazionali di maggior esposizione.
Non c'era proprio nulla di tradizionalmente partenopeo nelle partiture di Cilio: 5 strumentali per chitarra, piano, violino, cello, oboe, sax e percussioni. Un mix audace fra musica da camera, avanguardia, struggenti melodie e morbide dissonanze, in un saliscendi continuo fra austerità e intimismi. Io ci ho colto in primis i Popol Vuh di Hosianna Mantra come attitudine, ma i nomi analoghi citati sono stati tanti (anche in ottica futura, per dare un'idea della lungimiranza di Cilio). 
Potevamo avere un nostro Harold Budd; chissà cosa avrebbe potuto fare, quali meraviglie donarci. Almeno ci resta questa sublime mezz'ora di musica senza tempo.

giovedì 18 giugno 2015

Deerhunter - Halcyon Digest (2010)

Anche se avevamo scorto avvisaglie tangibili con il discreto Microcastle, la svolta pop dei Deerhunter è stata una bella sorpresa, e con buon merito ha fatto guadagnare loro un po' di visibilità. Non poco per un gruppo altamente incerto che dalle premesse sembrava destinato ad una carriera minore nella serie B della Kranky. Halcyon digest non tradiva di certo la filosofia del gruppo, votato ancora all'ossessiva ricerca dell'eclettismo senza remore; soltanto che nel frattempo il gruppo aveva imparato a scrivere ottime canzoni pop nella persona del cantante Cox (ma attenzione al chitarrista Pundt, relegato ad un paio di pezzi, due centri perfetti) e soprattutto era passato alla 4AD, che in fatto di produzione sa sempre il fatto suo; era davvero il porto ideale per gli atlantiani, che necessitavano di una compattata esterna, per non dire darsi una regolata, che spesso in materia musicale è sinonimo di peggioramento.
Per loro invece era il caso contrario; potevano diventare i nuovi Radiohead, in tema di indie-pop. Peccato che il successivo Monomania sia stato un po' deludente, perchè questo gradevolissimo Halcyon digest resta nella memoria con gusto.

lunedì 15 giugno 2015

Walkingseeds ‎- Skullfuck (1987)

Di quel ristretto e coraggioso manipolo di gruppi britannici che a fine anni '80/ inizio '90 facevano noise-rock (enumerato peraltro con eccessiva eterogeneità da un Blow Up dell'estate scorsa) i Walkingseeds erano fra i più filo-statunitensi in assoluto. Il suono era sporco e sbragato, il vocalist inveiva con fare sguaiato e il senso di provocazione sonora tangibile in ogni momento, senza escludere una buona dose di ironia, fornita dall'evidente influenza dei Butthole Surfers.
Skullfuck ascoltato al giorno d'oggi può sembrare molto meno pericoloso dell'epoca, ma il delirio incessante che infonde genera buonumore. E' un disco che appartiene radicalmente, in tutti i suoi aspetti, al suo decennio e a quello che una volta si chiamava underground.

venerdì 12 giugno 2015

Cough & Windhand - Reflection of the Negative (2013)


Quando sento parlare di sludge-doom al giorno d'oggi, ripongo sempre ben poche speranze e tendo a diffidare quando ne vedo scrivere bene. Pertanto l'atto di auto-contraddirmi, come successo in questo caso, è bellissimo; trattasi di due gruppi della Virginia accasati alla Relapse, dalla storia abbastanza giovane, con un membro in comune, che non fanno altro che riprendere gli standards esecutivi/compositivi di quanto già storicizzato da Melvins, Sleep, Electric Wizard e compagnia. Anche se riservato agli stretti estimatori del genere, lo fanno dannatamente bene.
Abbastanza ordinari i Cough, con un pezzo-accetta di 18 minuti che tuttavia impressiona per la virulenza. Bravissimi i Windhand, che con 2 pezzi di 7 e 11 minuti impongono una visione più ampia ed introducono la (non so quanto relativa) novità di una voce femminile che per quanto neutra sia come timbro, insieme al tappeto tastieristico, costituisce un contrasto disorientante con la pesantezza dell'impianto. Da applausi Shepherd's crook.

martedì 9 giugno 2015

Screams from the list 7 - Debris' ‎– Static Disposal (1976)

Altro clamoroso colpo di mosca bianca assestato dalla List, per giunta in campo strettamente rock.
I Debris' erano un travolgente combo pre-punk sui generis che infarciva i pezzi di effetti elettronici disturbanti, diventando così pionieri contemporanei ai primi Pere Ubu (rispetto ai quali erano comunque più melodici e meno arty) in fatto di evoluzione garagistica. Qualche retaggio sixties rendeva l'effetto ancor più stridente, e i pezzi sono quasi tutti dei killer.
Purtroppo ebbero una vita brevissima, forse dovuta anche alla lontananza dai centri nevralgici americani, dei membri non ci fu più nessuna traccia e il disco fu ristampato quasi un quarto di secolo dopo. Quindi, occorre dare sempre grande merito al fiuto di Stapleton che si era aggiudicato una delle 1000 copie autoprodotte e ce l'ha fatto scoprire.

sabato 6 giugno 2015

Cure - Reflections Tour 2011-11-26 Live Beacon Theatre New York

Devo ammettere, pensavo ad una stampa ufficiale dell'impresa titanica che Ciccio Smith e compagni hanno compiuto 4 anni fa in una decina di date fra Australia, Londra e Stati Uniti. Peccato che non si sia concretizzato, sarebbe stato l'highlight della vecchiaia più di Trilogy.
Vista la sterilità produttiva che sembra aver investito il gruppo da oltre 10 anni, cos'è rimasto ormai se non celebrare il proprio passato, possibilmente quello più remoto possibile? A me resta scavare fra i bootleg reperibili e selezionare quello che si sente meglio, ovvero uno fra i 3 della grande mela.
Reflections è stato un atto di forza, una sfida nella sfida, ma anche un atto di eterno amore nei confronti dell'oceano di fans. La faticaccia di suonare una cinquantina di pezzi, per oltre 3 ore, a 50 anni suonati, non è scontata per nulla.
A parte l'ammirazione concettuale che secondo me dovrebbe essere oggettiva e al di sopra di ogni legame filologico, è una pacchia, una manna dal cielo, una bazza: i primi 3 album sparati uno dietro l'altro, ordinatamente. L'energia dirompente e l'ironia post-adolescenziale tutta british di Three imaginary boys. L'introspezione velenosa e tagliente di Seventeen seconds. La sacralità e il culto gotico di Faith. Il tutto eseguito in maniera eccezionale, col piacere di avere il miglior batterista della storia dei Cure, con l'inattesa quanto funzionale comparsata di Tolhurst, e pazienza se Ciccio Smith ogni tanto ha il fiatone, mica c'ha 20 anni (che sia stato questo il motivo della non-ufficializzazione discografica??).
L'incredulità prosegue nel 4° set, un bonus in cui si divertono a ripescare singoli, b-sides e chicche assortite. Obbligatorio eseguire certi classici, certo; una sorpresona le b-sides, ancor di più l'antichissimo scherzo white-funk Do The hansa, risalente agli albori assoluti. Inaudito infine infilare due fra le cose più ostiche che abbiano mai fatto, lo strumentale ipnotico Descent e il delirio acido-tribaleggiante Splintered in her head, possibilmente l'incubo peggiore mai prodotto in studio insieme a Pornography (qua piuttosto umanizzato, a dirla tutta).
Come se non bastasse, al termine un settetto di pezzi assortiti fra l'83 e l'85, come a dire; intanto che ci siamo, chiudiamo col pop e mandiamo a casa tutti contenti, dal primo all'ultimo. Non ce ne sarebbe stato bisogno, chè già eravamo fra le nuvole.

mercoledì 3 giugno 2015

Dead Meadow - Three Kings (2010)

Racchiuso fra gli ultimi due, francamente deboli, album in studio, Three Kings è stata la celebrazione del decennale di attività discografica del trio di Washington, con tanto di dvd accompagnatorio all'edizione in doppio vinile. Un progetto abbastanza ambizioso culminato in una specie di film-concerto accompagnato da un'allucinatoria sceneggiatura mistico-desertica. Una visione imperdibile per i fan incalliti del suono ruspante e genuino dei DM, abbastanza gradevole per chi generalmente ama il rock psichedelico d'ispirazione vintage.
La scaletta audio. oltre a 5 inediti, propone un mix equilibrato della carriera, fra le splendide divagazioni desertiche dei primi 2, la pesantezza del 3°, il melodismo più pronunciato del 5°. Peccato ci sia solo un estratto dal mio preferito, ma non importa. E' sempre un bel viaggio, con i 3 re magi.