Ma anche no, che è folk music. Non si sa che fine abbia fatto (è dal 2010 che non pubblica nulla) Raphael Lyons, ed è un peccato, forse poteva ancora regalare qualcosa di interessante. Ora non vorrei fare come Ferrero imitato da Crozza, però ho notato che quando certi artisti laterali dal grosso potenziale smettono di pubblicare per più di un paio d'anni significa che hanno interrotto le trasmissioni.
Stranamente affiliato al noise-rock degli anni zero (forse più per la provenienza, Providence, che per altro), Mudboy sul primo album creava un misterioso meltin pot fra minimalismo '60 e mostri sacri tedeschi '70, con qualche breve ma efficace incursione su una specie di sub-industriale (la geniale Beirut dance party, ipotetica out-take degli ultimi Throbbing Gristle). Musica che affascina senz'altro gli amanti del suono vintage, grazie a quell'organo dal suono spesso e polveroso, elaborata su figure minimali (di qui l'eventuale accostamento a Terry Riley) e di umore particolarmente gioviale.
Lo stato artistico di Tibet tocca un vertice convincente l'anno scorso con I am the last.... Al di là dei suoi meriti effettivi, viene premiata la sua capacità di assemblare il personale adatto ad ogni situazione; in questa sede è una decina di strumentisti sparsi a collaborare. Spiccano i nomi di Nick Cave e Antony a cantare un pezzo cadauno, ma sono soltanto cammei poco influenti sul risultato finale. Stupisce il ripescaggio del vecchio chitarrista Tony McPhee, John Zorn interviene con gran gusto in un paio di episodi. Il vero protagonista è il pianista olandese Van Houdt, dallo stile asciutto ed altamente espressivo, sempre presente e pertanto presumo autore delle musiche, che sono bellissime.
I am the last è uno dei dischi più musicalmente compiuti e messi a fuoco della Corrente, dotato di una sensibilità ed un lirismo forse mai toccati in passato (Why did the fox bark, Those flowers grew) ma non privo di quelle tensioni sottopelle tipiche di Tibet, per un risultato finale elegante e barocco. Splendido.
Giudicato inutile da più voci a causa della sua natura laterale e della prolificità incontrollabile di Tibet, Haunted Waves, Moving Graves invece è un esperimento minimalistico-strumentale del 2010, diviso in due suite lunghissime, di oltre mezz'ora. Accomunate da un ciclico ed imponente suono di onde digitalizzato, si distinguono per una seriosa drammaticità la prima (il violoncello struggente ed addolorato di Contreras) e per una sognante atmosfera la seconda (il motivo pianistico di Baby Dee). E' quest'ultima ad avermi rapito senza speranza: si chiama The sound of the storm was spears ed è uno splendore assoluto.
Duo intercontinentale composto da Tucker (inglese attivo attualmente come solista su Thrill Jockey) e Beban (etnomusicologo neozelandese). Entrambi non più giovanissimi, condividono l'esperienza Imbogodom come ideale punto d'incontro fra la sensibilità folk-lisergica del primo (agli esordi era nel giro Jackie-O Motherfucker) e il concretismo elettroacustico del secondo.
Il disco pertanto vive di questo scontro; se l'obiettivo era di fondere le due aree, l'impresa non è del tutto riuscita ma nel complesso il risultato è più che buono perchè l'alternanza fra le elegiache ballad psichedeliche di Tucker e le collisioni concreto-astratte di Beban crea sorprese lungo l'arco della scaletta. Molto bravi.
Ogni tanto provo a pescare qualche jolly dal pentolone di Baker, nella speranza di trovare una perla. Il criterio non è sempre aleatorio; a volte mi baso su recensioni lette in giro, altre mi faccio guidare soltanto dal fatto che mi piace il titolo del disco.
Qui ci sono due casi in cui mi è andata piuttosto bene, che dimostrano l'ecletticità di questo artista a parecchi gradi, e lo dico con estrema franchezza, vanitoso fino allo stremo.
Songs of flowers & skin è, fra quelli che ho ascoltato fino ad adesso, il più musicalmente convenzionale, per non dire cantautorale o gothic-pop, per trovare una definizione. Caratteristiche principali sono le chitarre pulite, le canzoni ben strutturate, il canto quasi sempre presente (anche se il canadese non è un vocalist e si sente). Gli inserti di violino e tromba arricchiscono la curiosità di udire un Baker così diverso, che passa da uno slow-core funereo a delle progressioni quasi pop, con tutto quello che può starci nel mezzo. Il riferimento più frequente sembra essere i Cure ombrosi e malinconici della prima maturità (non soltanto Disintegration, ma anche le atmosfere più ricercate di Kiss me kiss me kiss me). Il fatto più sorprendente alla fine è che i pezzi sono quasi tutti validi ed i climax emotivi scuotono. E' un episodio minore di Baker, fra l'altro uscito su cd-r, e che non avrà mai un pubblico, ma molti dark-heads lo apprezzerebbero non poco.
La collaborazione col connazionale Tim Hecker verte su un elettronica sporca ed abrasiva, che procede per droni, riverberi e muraglie impenetrabili. L'idea di fondo è intrigante; una sorta di duello rusticano fra dispositivi digitali e chitarra elettrica, un botta e risposta continuo a ricreare ambienti sofisticati ed innalzare saturazioni, che crea ondate di grosso impatto, che si avvicina ad un passo dal rumore bianco ma poi sfuma in una nebbia molecolare. Nonostante l'assenza totale di ritmi, è un disco molto dinamico e ricco di spunti che cresce ad ogni ascolto. Certo si poteva evitare di spezzettarlo in 66 tracce; lo stacco ogni 20-30 secondi può anche essere fastidioso, se non lo si sente su cd. Questa maledetta autoindulgenza fa più danni della grandine....
Occupati in tutt'altri progetti, (non sempre entusiasmanti, mi si passi) i 3/4HBE mancano da un po' di tempo. Esattamente da quel fenomenale Oblivion; non ho trovato notizie particolarmente rilevanti al riguardo delle loro attività, quindi il sospetto che l'entità sia in stand-by è inevitabile.
Il loro secondo album è senza dubbio il meno ermetico del catalogo. Non voglio usare la parola accessibile perchè mi sembra inappropriato. L'entrata in line-up di un batterista, la novità della voce in utilizzo canonico, la presenza di un paio di pezzi strutturati in forma canzone (in Monkey talk si sfiora l'indie-rock). Era il segnale di un passaggio artisticamente genuino e spontaneo, in cui i 3/4 davano forma ad un avant-post di grandi suggestioni, in barba alla frammentarietà di stili.
Una fase che durò poco: già due anni dopo con lo splendido Theology si focalizzarono sul ghost-sound che li porterà in gloria a fine decennio.
Suonare la chitarra con l'archetto non è certo una novità, si sa. E' invece una novità reinventarne la gamma timbrica e sonora, grazie non solo ai dispositivi disponibili ma anche al luogo di registrazione (una grotta, nel caso di questo disco) ed all'immaginazione del chitarrista in questione, il norvegese Westerhus.
La sua è una tecnica estrema: mi viene in mente Ambarchi come presupposti di partenza, ovvero "non far mai notare che questi suoni non provengono da una sei corde". Al contrario delle prime prove dell'australiano, però, SW esterna degli stati d'animo, terrore, stupore, angoscia, cadute nel vuoto, ilarità, allucinazioni, non-sense. The matriarch è molto difficile da ascoltare, direi per gli stomaci abituati alla dark-ambient, che tange soltanto di striscio. Una volta fatto l'orecchio, si rivela terrificante in tutti i sensi.
Sidsel Endresen viene laconicamente presentata in rete come una cantante jazz. La sera in cui vidi suonare questa strana coppia dal vivo, non restai particolarmente impressionato dai suoi vocalizzi, al contrario di Westerhus che mi colpì in diretta. Ma è sempre la solita storia, occorre più di un ascolto per scavare nel concetto di un opera, se lo si trova. Didymoi dreams è la registrazione di un live del 2011, pecca di un eccessiva frammentarietà, causata forse dal fattore impro, quindi l'ascolto è ancora più ostico. Ma quando lei gioca a fare la Galas e lui si scatena, l'impatto è assicurato. Per pochi, comunque.
Proprio come scriveva Julian Cope sul suo sito, è inquietante come si possa venire a conoscenza di certe cose con un tale ritardo. E lo dichiara uno che ha scritto Krautrocksampler.
Così anch'io scopro con enorme ritardo di questo magico distillato psichedelico, isolato da pressochè ogni contesto contemporaneo. L'autore infatti in seguito si smarcò da qualsiasi ambito kraut e virò verso altri lidi, per cui è comprensibile che si sia dimenticato. Ma Echo è un trip di 80 minuti, non è da seguire con la bussola, non serve a nulla; le origini folk del cantautore sono chiare, il suo chitarrismo pigro e sognante si stacca da ogni retaggio comunemente rock, l'accompagnamento leggero come una piuma ma concreto. Si vive in un mondo laterale, in cui tutto sembra rassicurante anche se sfocato. Non l'ho messo sul piatto subito, confesso. Ma una volta che ho fatto partire i volgari mp3, il profumo ancestrale di questa splendida opera ha invaso la stanza, l'auto, l'ufficio, tutto.
Vlad: qui ogni evento, anche quello apparentemente più innocuo, rimanda ad un sottofondo insondabile ma vivo, che coincide con l'anima millenaria della Germania, succube dell'idea del fatto e dell'ineluttabile.
Avevo scritto, qualche anno fa, che c'era bisogno di un loro ritorno. Poi è andata per gradi: la ricomparsa sui palchi, il ritorno discografico. Musicalmente non è cambiato molto, anzi non è cambiato niente.
Semmai è cambiato il mondo, ed in peggio. E così sono tornati, per emettere un nuovo bollettino ed incitare a non piegarsi, bensì ad elevarsi.
Allelujah segue un percorso naturale che si era interrotto senza preavviso, segue Yanqui Uxo. La formazione è praticamente intatta. Ci sono due pezzi di 20 minuti e due di 6. Si dice in giro che siano composizioni risalenti al 2002-2003. Chi se ne frega.
Per i detrattori, sarà un altra noia mortale, un suono usato ed abusato, i soliti schemi, blablabla. Chi se ne frega. Io spero che i Godspeed non ci abbandonino un altra volta. Dobbiamo restare uniti, per combattere.
Lo strano cammino di Pyle in due
uscite piuttosto rappresentative della sua schizofrenia produttiva.
Ricapitolando in breve; ha iniziato nel 2008 con una elettroacustica
sporca e stridente, si è imposto nel 2010 con l'afro-cosmic dell'ottimo Psychical, ha transitato velocemente nel 2011 nell'ipnagogia suadente di Crossing the pass (per certi versi vicino a quanto fa Kirby sotto il moniker The Stranger), si è concesso un passaggio nel sound-collaging con Interval signal, per poi svoltare bruscamente nelle ultime produzioni verso un territorio che in pochi forse avrebbero immaginato.
Mattioli
non ha apprezzato ed è anche comprensibile; per chi è rimasto
impressionato dalle sue prime prove dev'esser stato spiazzante
verificare che Pyle si sia dato ad un gotico-etereo che sa di 4AD primi
anni '80, di Lycia e soprattutto di Black Tape For A Blue Girl. Ovvio
che stiamo parlando di ottimi riferimenti, ma lo è stato anche per me;
eppure, vista la perseveranza discografica (3 capitoli in un anno
scarso) c'è da credere in questa visione. Anche perchè il suono è
fascinoso e ben costruito e i pezzi sono gradevoli. Melt into nothing forse stabilisce un punto di non ritorno, è c'è da immaginare che Pyle stia progettando un'altra svolta.
Un capitolo cruciale della sua prima fase invece era Standing still, che potrebbe essere incasellato persino alla voce black-library.
Fra droni impenetrabili, tonfi galattici ed incubi orchestrali, si
aggira sinistra l'ombra dell'Egisto Macchi dei primi anni '70. Dire
minaccioso è poco.
A fine anni '90 i Necks si misero a fare qualche soundtracks. La loro capacità di creare visioni importanti era diventato di pubblico dominio anche fra gli addetti ai lavori del cinema, eppure The boys è stato l'unico lavoro ad essere pubblicato in separata sede. Il film è un drammatico australiano che in rete non si trova tradotto, ovviamente.
Una bella sfida per Abrahams, Buck e Swanton: mettere in discussione il loro sistema impro per sonorizzare immagini. In passato soltanto Next, a mio modo di vedere, era stato composto e preparato prima della registrazione. Così, smussati gli angoli e le iperboli, The boys mantiene intatto il loro approccio sonoro in una formula più contenuta. Ci sono 5 temi, come da manuale minimalisti ed abbastanza lunghi per renderli di fatto jams. Un paio sono fra i più memorabili del loro catalogo (e li ho scelti come suonerie del mio cellulare...), il che è tutto un dire. C'è persino l'inedita inclusione di un basso fuzzato.
E' ciò che consiglierei ad un novizio del trio delle meraviglie di Sidney.
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