venerdì 30 giugno 2017

Scream From The List 60 - Spacebox ‎– Spacebox (1981)

Uli Trepte era stato il tellurico bassista dei Guru Guru; formatosi in ambito jazz, aveva poi rigettato le sue competenze tecniche in favore di uno stile estremamente fisico. Spacebox fu il suo gruppo all'inizio degli anni '80, col quale rilasciò soltanto due dischi, all'insegna di un delirante free-rock per quartetto comprendente un fiatista in libera uscita, Edgar Hofmann, una chitarra tutto sommato abbastanza allineata e la sezione ritmica arzigogolata del leader e dei due batteristi Schmidt e Beck.
La vocalità beffarda di Trepte e il sax tragicomico sono i tratti più distintivi nell'immediato di un impianto che sembra sgretolarsi in ogni momento, ma sa ri-aggrumarsi in un batter d'occhio. Le esplosioni dei Guru Guru non sono distantissime, ma Spacebox era chiaramente una faccenda tutta sua. Un suono che definirei sardonico-sarcastico, senza compromessi, un caos organizzato ai limiti dello humour più nero. Capolavoro irregolare.

mercoledì 28 giugno 2017

Palace Music ‎– Lost Blues And Other Songs (1997)

Sulla scia del successo dei suoi primi 4 album, Will Oldham rimediò alla sua già proverbiale prolificità assemblando questa raccolta su Domino che comprendeva singoli sparsi ed una mezza dozzina fra live, inediti e versioni alternative. Oltre che una gradita compilazione per i fans, era anche il modo per chiudere un ciclo importante dato che si trattò dell'ultimo disco a nome Palace. Da lì in poi, infatti, sarebbe passato in modo irreversibile alla sigla Bonnie Prince Billy.
Sul contenuto, inevitabilmente disomogeneo ma inequivocabile; sono 15 tracce classiche del primo Billy, quello a mio parere più ispirato e spontaneo, l'alfiere del rinascimento folk nei fragorosi anni '90. In larga parte elettrico, Lost Blues annovera fra le perle più preziose del canzoniere: West Palm Beach, Gulf Shores, Ohio River Boat Song, Oh how I enjoy the light, Stable Will, una  versione alternativa, quasi noise di Riding. Non lo ascoltavo da tanti anni e l'ho ritrovato fresco come allora.

lunedì 26 giugno 2017

Bruce Anderson & Rich Stim - Bar Stool Walker (2012)

Le due vecchie glorie MX-80 che si riuniscono per un progetto dedito a, loro parole, strumentali di pop-rock melodico con assoli chitarristici ispirati. Parole un po' forti, ma intrise di un evidente senso ironico da parte di gente che, in fondo, può anche permettersi di fare più o meno ciò che pare loro. Ironia che traspare evidente fin dalla cover, un disegno che ritrae un signore molto anziano intento a muoversi con l'ausilio di un deambulatore. Bar Stool Walker appare come un prodotto nato da situazioni di divertissment ma con un senso compiuto ed un respiro fortemente cinematico, spaziando fra shuffle-blues strascicati e contaminati, surf ficcanti, tesi e scuri elettro-rock vagamente carpenteriani (The unsuspected, The bridge), preziose e fragorose reminescenze MX-80 tempi d'oro (Tall boy), splendide e rilassate contemplazioni (The warmth of the sun, Paper Hat) quelle sì, realmente melodiche e gemme di un disco di poche pretese, ma gradevolissimo.

sabato 24 giugno 2017

Missing Foundation ‎– 1933 Your House Is Mine (1988)

Act newyorkese appartenente alla categoria dei complessi americani più spostati di fine anni '80, di quella stessa matrice che generò Vampire Rodents, Gravitar, Crash Worship ed altri folli di questo tipo.
Furono un po' la risposta americana all'industriale europeo; l'influenza originaria dei Throbbing Gristle e delle loro muraglie bianche veniva contaminata con voci isteriche, quasi belluine, chitarroni zavorrati e tribalismi pesanti. In qualche tratto sembra di assistere ad una parodia hardcore, quasi a sfottere i Ministry che concettualmente potevano contare sulla stessa estrazione ed invece si diedero una (per dire) ripulita e corsero verso il successo.
Ma sono solo episodi marginali, perchè 1933 è l'espressione sfigurata di un gruppo di folli scatenati, invasati e sconsiderati che seminano il panico.

giovedì 22 giugno 2017

Eugene S. Robinson & Philippe Petit ‎– The Crying Of Lot 69 (2011)



Forse a ESR era mancata soltanto l'elettro-acustica, fra tutte le sventagliate di generi a cui ha prestato la sua voce. Anzi, questa collaborazione col francese omonimo del famoso funambolo degli anni '70 ha persino anticipato quanto ha realizzato con mr. Xiu Xiu un paio d'anni dopo.
Il marsigliese è un manipolatore sonoro che più che far uscire dischi da solo predilige collaborazioni con nomi stagionati e generalmente demodè ma di un certo livello. The Crying Of Lot 69 è un flusso abbastanza compatto di elettronica sporca, droni sibilanti, concretismi, astrazioni dissonanti. Qualche puntatina saltuaria con parvenza melodica è molto significativa perchè sembra buttarla in sottilissima caciara e salace ironia, per contrasto col plumbeo umore generale. ESR non si scompone più di tanto e bada al sodo, ai contenuti. Le prime parole che pronuncia sono You can trust me. Oh, certo che sì. Ti crediamo e vogliamo continuare a sentirti parlare.

martedì 20 giugno 2017

Trumans Water ‎– Of Thick Tum (1992)

Il famoso debutto dei TW per il quale John Peel perse la testa, mandandolo in onda per intero. Diciamo che per molto, tantissimo tempo, ho bistrattato Of Thick Tum in favore del secondo Spasm Smash..., perchè sono un po' allergico ai Sonic Youth ed i pur brevi frangenti in cui si sente qualche reminescenza mi avevano reso un po' prevenuto. Oggi, al quinto/sesto ascolto consecutivo, sono costretto a convenire che si tratta di un discone anch'esso, che si inserisce nella lunga scia dei grandi geni irregolari (Pere Ubu, il Capitano) aggiornati all'era dell'alternative rock, fratturato oltre l'inverosimile eppure miracolosamente compatto e coeso. Del resto, il loro suono spigoloso (e le imperfezioni, volute o casuali che fossero) è invecchiato molto molto bene. E loro erano dei dannati folli.

domenica 18 giugno 2017

Implodes ‎– Recurring Dream (2013)

Difficile, difficilissimo ripetersi ai livelli di un esordio che aveva fatto gridare al piccolo miracolo nel 2011. Per il secondo album gli Implodes non hanno cambiato un granchè la loro formula fuzz-drone-gothic-foggy, se non affidandosi ad un suono più nitido e pieno, per non dire di una produzione più professionale.
Punto che sulla carta non sarebbe a favore, in luogo di una leggera perdita di spontaneità e/o mistero che ammantava Black Earth: svelato l'arcano, al primo ascolto rispetto ad esso sembrano mancare persino i pezzi killer e/o quelle divine parentesi acustiche che lo impreziosivano. Insistendo con l'approfondimento, poi però si scopre un album molto compatto, focalizzato più sulle atmosfere caldo-freddo che i chicagoani sanno confezionare con (pare) estrema facilità e naturalezza. Ed allora sì, pazienza se il miracolo non si ripete, lasciamoci andare in questo sogno senza prevenzioni; in casa Kranky sono ancora i campioni.

venerdì 16 giugno 2017

Cocteau Twins ‎– Head Over Heels (1983)

Il secondo album degli scozzesi, un fermo immagine importante per gli sviluppi del dream-pop di cui furono fra i pionieri. Dopo il debutto, il bassista originale lasciò, così la Frazer e Guthrie si ritrovarono a dover far fronte alle promesse degli inizi senza un pezzo importante del loro assetto. Invece di sostituirlo, il chitarrista si caricò tutto sulle spalle e fece centro. Con l'impeccabile Frazer ancora impegnata a dipanare filastrocche e cercare di superare il modello Siouxsie, a cui era tecnicamente superiore, elaborò 10 pezzi che facevano da ponte perfetto fra la dark-wave e gli impasti zuccherosi che avrebbero contraddistinto i loro (scarsi, a mio avviso) dischi successivi. La progressione artistica è un concetto non negoziabile, certo; nelle sue pieghe più gotiche Head Over Heels resta un disco molto significativo della seconda ondata della wave britannica, nonchè apice dei Cocteau Twins.

mercoledì 14 giugno 2017

Hella ‎– Church Gone Wild / Chirpin Hard (2005)

Solo due folli come Zack Hill e Spencer Seim potevano concepire questa freak-opera, peraltro abbastanza ignorata, se non stroncata da più parti dagli addetti; per il loro terzo album, realizzarono un doppio in cui si dividevano totalmente. Se nelle note interne non fosse stato specificato con precisione che Church gone wild è del batterista e Chirpin Hard del chitarrista, a scatola chiusa si sarebbe anche potuto pensare ad un tomo realizzato in combutta, nonostante le differenze palpabili.
Ebbene, sono 3 giorni che li ascolto in continuazione e non riesco a stancarmi neanche un attimo, anzi; ad ogni giro la curiosità e la sorpresa mi colgono e mi elettrizzano, senza sosta. Che fossero un duo ultra-peculiare ce ne eravamo accorti fin dal debutto, ma questa ora e 3/4 li eleva al rango di outsiders totali del nuovo millennio, per quanto sia sempre più difficile indossare queste vesti.
Chirpin Hard è stato argutamente definito nintendo-rock, ma suona quasi normale in confronto a Church Gone Wild, che è un capolavoro di freakitudine moderna, il parto di un pazzo furioso ed incontrollabile. Non servono altre descrizioni, anche perchè non le saprei trovare.
Uno spasso totale.

lunedì 12 giugno 2017

Fugazi ‎– Repeater (1990)

Tempo fa, leggendo l'eccellente Our Band can be your life, che racconta la biografia di 10 grandi band americane durante gli anni '80, mi sono quasi commosso durante il capitolo dei Fugazi. La loro celeberrima integrità morale e la loro etica hanno rappresentato un modello irripetibile, che nel mondo malato e marcio di oggi non sarebbe mai potuto esistere. E' vero che durante gli '80 pubblicarono soltanto i primi singoli, ma in quel decennio dedicarono anima e corpo alla coltivazione di quanto avrebbero raccolto nei '90, strameritato culto, stima illimitata e popolarità internazionale.
Per quanto riguarda Repeater, poco da dire su una trafila di album mai sbagliati e mai fuori fuoco, di cui fu soltanto il primo della lista. Me la sbrigo con la massima che i Fugazi sono stati per l'hardcore ciò che i Wire furono per il punk inglese; sviluppatori di un nuovo linguaggio e pionieri di nuove strade che quasi nessuno ha percorso con lo stesso successo.

sabato 10 giugno 2017

Gorge Trio ‎– Dead Chicken Fear No Knife (1998)

Trio californiano (doppia chitarra e batteria) attivo fra fine '90 e primi '00, appartenente a quella propaggine colta americana di cui la Skin Graft fu etichetta putativa, che comprendeva fra gli altri U.S. Maple, Brise-Glace, You Fantastic!. Stranamente lì si accasarono solo per l'ultimo disco, quando ormai questo micro-movimento di avant-rock aveva speso le sue migliori cartucce. Dead chicken fu il loro primo ed uscì lo stesso anno in cui i tre comparivano su Economy of motion, unico album dei Colossamite di cui facevano parte insieme all'ex Dazzling Killmen Nick Sakes.
Per quale motivo la Skin Graft non li abbia messi sotto rooster, resta un mistero perchè il disco è un ombroso ed eccellente caso di commistione strumentale fra Slint, Don Caballero, Captain Beefheart e free-jazz, con un doppio attacco di chitarre cervellotiche ed una batteria tentacolare ma mai vanitosa. Musica che sa bene di essere intelligente e complicata, ma che non si compiace di esserlo come i classici del genere.

giovedì 8 giugno 2017

Psychedelic Furs ‎– Talk Talk Talk (1981)

Il miglior disco in studio dei Furs, per diversi motivi. L'eccellente debutto aveva rivelato un gruppo unico nel panorama wave inglese, capace di crearsi un suo stile fatto di glam, punk, dark e psichedelia; tuttavia alcune ingenuità erano affiorate e Butler & Co. necessitavano di un amalgama superiore, che arrivò ineffabile su Talk Talk Talk. Questo fu l'ultimo con la formazione originale a sei, e checchè se ne dica, in seguito la band avrebbe risentito delle dipartite di Morris e Kilburn, ingredienti essenziali in un suono che si fece formula. L'ultimo con la produzione inestimabile di Lillywhite, master assoluto della wave tutta e perfetto nell'equilibrare le dinamiche del suono. Un vero atto di maturità, una decina di pezzi praticamente perfetti fra melodie oblique ma fluenti (Dumb Waiters, It goes on), pop-song irresistibili (Pretty in pink, No Tears, She is mine), glam gotici di razza come solo loro (All of this and nothing, I wanna sleep with you), sfuriate acide alla velocità della luce (Into you like a train, Mr. Jones). Inossidabile.

martedì 6 giugno 2017

Innercity Ensemble ‎– II (2014)

Dalla Polonia, un'ensemble, per l'appunto, di 8 elementi dedito ad una psichedelia contaminata ed eclettica. Quasi inevitabile la presenza del chitarrista Kuba Ziolek, agitatore di una scena (presunta o meno che sia) che si fa sempre più interessante. Due lunghe suite, White e Black, entrambe suddivise in 5/6 tracce, che mescolano indifferentemente afflati lisergici arcaici, post-rock dinamico, tribalismi assortiti, l'oncia sindacale di elettronica e qualche impennata di hard-psych al momento adatto. Splendido l'apporto della tromba, che compassata volteggia sopra tutto il sistema senza mai invadere il campo. Fra No Neck Blues Band, Godspeed You Black Emperor e Supersilent; i fans della sempreverde jam psichedelica traggano il relativo piacere.

domenica 4 giugno 2017

Fermáta ‎– Huascaran (1978)

Irresistibile jazz-funk-rock con una puntina di prog, suonato da un quartetto di assatanati. Sulla carta l'anno di uscita, il 1978, lascerebbe immaginare un ritardo storico non indifferente oppure un involontario allineamento alle tendenze in drastico declino. Nulla di tutto questo, perchè i Fermàta provenivano neanche da Praga, ma addirittura dalla Slovacchia, ai tempi ancora unita alla Repubblica Ceca. Questo basta, secondo me, a giustificare lo scarto temporale.
In realtà con Huascaran erano già al terzo album ed in attività da diversi anni, ed il luogo di provenienza non era propriamente fra i più favorevoli in cui crescere e dettare le proprie idee, salvo starsene in silenzio e far parlare i propri strumenti. Ma se lo si prende a scatola chiusa, Huascaran si direbbe un prodotto proveniente dall'Europa Occidentale; la tecnica sopraffina, il buon gusto delle articolate costruzioni, il perfetto amalgama delle orchestrazioni, lo rendono godibilissimo ed all'altezza di gruppi più quotati della stessa area (Mahavishnu Orchestra il riferimento più visibile). Concept strumentale dedicato alle vittime del terribile terremoto in Perù che nel 1970 fece 80.000 vittime, fra cui anche un manipolo di scalatori loro connazionali che disgraziatamente si trovavano proprio nell'epicentro, la montagna Huascaran.

venerdì 2 giugno 2017

Mark Eitzel ‎– Glory (2013)

Un attacco cardiaco ha rischiato di portarcelo via. Ma non sia mai. Passato il mezzo secolo di età e l'enorme spavento, Eitzel ha ritrovato una felice vena che ci auguriamo tramonti il più tardi possibile, d'altra parte abbiamo sempre bisogno dei suoi flussi di spleen. Dopo essere resuscitato con lo splendido Don't be a stranger, ha benevolmente bissato con il non inferiore Glory, rilasciato in un edizione ultra-limitata (soltanto 750 cd!) in un dichiarato tono minore: il sottotitolo recita Nuove Canzoni - Demos - Registrazioni casalinghe con amici.
Rispetto al precedente, è una raccolta dai toni più dimessi, quasi delicata; escludendo un paio di numeri che si ricollegano a The invisible man ed un altro che addirittura riporta ad antiche memorie AMC (memorabile il fragore psichedelico di Last ten years), è un pieno di umiltà ed intimismo in cui il pianoforte guida la maggior parte dei pezzi e l'inconfondibile trademark trionfa sempre.
Che il suo cuore resti agitato solo artisticamente.