sabato 31 marzo 2018

Shellac - Singles 1993-2000

Corollario di vinili 7'' che hanno contraddistinto la prima fase, più creativa ed esplosiva, degli Shellac of North America. E che hanno confermato la loro tendenza ad essere altalenanti, ad alternare cose mostruose ad altre scazzate e fuori fase, che vista così potrebbe anche essere letta come simpatica propensione a non prendersi troppo sul serio: io no, al primo ascolto di At Action Park li presi sul serio così tanto che da allora non ho mai smesso di incazzarmi per tutti i seguiti, al confronto di cui erano come minimo deludenti.
The bird is the most popular finger 7'', il primo della lista, titolo ironico in onore dei Six Finger Satellite di cui Albini aveva appena prodotto The pigeon is the most popular bird; poco più di un demo strumentale di Admiral e Pull the cup in chiave lo-fi; come premessa poteva anche essere interessante, ma col senno di poi è praticamente inutile.
Con The Rude Gesture (A Pictorial History), si inizia a fare sul serio ed il trio comincia a schiacciare sassi senza pietà, con The guy who invented fire e Rambler Song. The billiard player song indugia su lunghe pause quasi slintiane, mostrando anche il lato più frastagliato dello Shellac-sound.
Uranus, esplode la bomba sul pianeta. Doris e Wingwalker aggiungono, alla già oliata macchina da paura, un senso drammaturgico inimmaginabile e forse mai raggiunto da nessuno prima di loro.
Nel 1995, Billiardspielerlied per una indie-label tedesca, e siamo già al cazzeggio. Su un lato una versione live allungata ma tutto sommato non prescindibile di Billiard Player, sull'altro 1 minuto di chiacchiere fra Albini ed il pubblico di Amsterdam per denunciare il furto del giaccone verde di un loro amico.
La carrellata si chiude con due split, che fanno pensare quanto sia importante l'amicizia per Albini, molto prima che le pretese artistiche. Altrimenti non si spiegherebbe per quale motivo gli onorevoli Shellac dovessero condividere un pezzetto di vinile con due bands così mediocri come i Caesar nel 2000 (indie-emo-pop quasi imbarazzante) e i Mule nel 1997 (una parodia moscia moscia dei Jesus Lizard); forse per questo però si spiega perchè sui loro lati i tre non è che si sforzino di fare grandi cose: una Agostino un po' spenta e poco convinta ed una versione "soft" di Rambler Song, curiosa ma non certo imperdibile.

giovedì 29 marzo 2018

Adam Pacione ‎– Sisyphus (2005)

Impossibile non tornare ad una delle memorie più nitide della mia pre-adolescenza, leggendo per la prima volta il nome di questo ambientalista texano: il ricordo va al calciatore Marco, che una sera di primavera del 1986 divenne il bersaglio di una serie di improperi scagliati da mio padre come mai mi era capitato di ascoltare da parte sua, persona molto tranquilla e pacifica ma juventino sfegatato. Di sicuro milioni di altri gobbi quella sera lanciarono strali nei confronti del povero giovane attaccante che si impappinava davanti alla porta, e che si vide una promettente carriera stroncata sul nascere.
Adam invece è un compositore elettronico abbastanza canonico che ha rilasciato pochissimi album, e tutti nel decennio zero. Sisyphus è un lungo viaggio che sul nascere non sembra un granchè innovativo, ma è fatto dannatamente bene. Una filigrana ambient grossa, carica di bassi e di pulviscolo statico, un po' primo Ben Frost, un po' Basinski, un po' Labradford, un po' Stars of The Lid. Un'ora e un quarto di sano artigianato cosmico, non all'altezza dei maestri ma ricca di sensazioni pregnanti, grazie ad un mestierato poco discutibile.

martedì 27 marzo 2018

Franco Battiato - Battiato Pollution Happening (Live 1973)

Qualche parola su un importante reperto archeologico rilasciato dai ragazzi della Stratosfera, con corredo (a ragione) altamente emotivo per l'aver disotterrato un documento che alimenta, insieme ad un sano entusiasmo, il rimpianto per la scarsa qualità sonora. Un vero peccato, ma quando capitano questi casi il vero amante che non va per il sottile può anche pensare "beh, meglio che non averlo mai neanche sentito, no?".
Che i live di Battiato epoca Pollution fossero qualcosa di veramente anticonformista e che causassero reazioni molto forti, non era certo un mistero; lo stesso ne racconta, dalle pagine di Superonda, con toni trasognati, forse un po' pudici ma che non rinnegano di certo l'esperienza.
Un sano orgoglio invece è quello che il Maestro siculo dovrebbe sbandierare, perchè una volta fatto l'orecchio lo-fi a questo concerto del maggio '73 a Padova, si scopre un set da mozzare il fiato, che verteva principalmente su Pollution in forma continuativa, senza alcuna pausa, che passava da cavalcate grintosissime a deliri ed esplosioni di synth e VCS3, da far sembrare edulcorato il disco originale, con un quartetto di supporto a dir poco indemoniato (fra cui un giovanissimo Cacciapaglia alle tastiere, ma anche un bravissimo e misconosciuto Della Stella alla chitarra elettrica). Il rimpianto quindi resta, per chissà quale motivo di quel tour non sia mai uscita una registrazione dignitosa; forse Battiato pensava più che altro al lato artistico ed alle provocazioni di scena, il suo temporaneo mentore Sassi pensava troppo alle pubblicità, e a nessuno dei due venne in mente l'idea banale di registrare. Mi piace pensare che sia andata così.

domenica 25 marzo 2018

US Maple ‎- Acre Thrills (2001)

Al 4° album, per gli US Maple iniziò a farsi veramente dura, riproporre sè stessi dopo le mirabolanti imprese di Sang phat editor e Talker. Una proposta così borderline da rischiare di diventare lama a doppio taglio, di diventare auto-parodia, ed invece. Nel lotto, a parte un paio di pezzi più accessibili della media, i quattro riuscivano ad ingarbugliare ancor di più la matassa, in primis dal punto di vista delle ritmiche, mai così spezzettate. Di certo con Acre Thrills non guadagnarono nuovi fans, tant'è che la loro parabola era verso fine corsa. Destino amaro dei grandi, quello di restare incompresi al grande pubblico e di far storcere il naso alla critica.

venerdì 23 marzo 2018

Tindersticks ‎– Tindersticks II (1995)

Poche proposte furono così fuori moda ai tempi come quella dei Tindersticks, che dopo un disco d'esordio che aveva piacevolmente spiazzato un po' tutti, decisero di ripetersi senza remore. Ovviamente li snobbai del tutto nonostante il grande successo di critica; non era il periodo giusto per farsi avvolgere dalle loro solenni ballad noir, che su questo secondo rilanciavano l'afflato orchestrale. Ero ancora troppo preso dalle chitarre, c'era poco da fare...
Non è mai troppo tardi per ripescarli e lasciarsi scorrere addosso l'eleganza di Staples, ai tempi novella fusione di Nick Cave e Scott Walker senza aver di loro nè la voce nè la perdizione, ma dotato di un bagaglio romantico intenso e posato, così british ed europeo al tempo stesso.

mercoledì 21 marzo 2018

Airportman ‎– Letters (2008)

Chiamarsi come il primo pezzo di Up! dei Rem, forse una delle tracce meno digeribili per i fans più puri del quartetto-poi-trio di Athens, sempre che fosse questa l'origine dell'ispirazione, è stata una stranezza che non mi ha mai indotto all'ascolto di questo prolifico (10 dischi in 10 anni) gruppo cuneense; che poi sapessi che tutto era fuorchè un clone della banda di Stipe, non importava.
Oggi, ascoltandoli per la prima volta, mi rendo conto che non è stato giusto, perchè almeno Letters è un disco che, seppur abbastanza monocromatico, riluce di un eleganza formale e rustica al tempo stesso, intriso di una malinconia cinematica che a tratti ha del sublime. L'ispirazione può esser derivata dalle tristi nenie dei Black Heart Procession, o dalle tessiture agresti dei Drunk, o dalle rarefazioni di Mark Hollis; composta da 9 tracce senza titolo, è un'unica grande meditazione dal sapore rurale (evidente tratto dna piemontese, mi ha anche ricordato i Madrigali Magri, nonostante le evidenti differenze), priva di qualsiasi ritmica, con un cuore grande così.

lunedì 19 marzo 2018

Minutemen ‎– The Punch Line (1981)

Esagerati fin dal primo album. Sorridenti, sornioni, sensibili e terribilmente coesi. Con un senso dell'etica difficilmente descrivibile se non nell'ampio capitolo alla loro storia dedicato nel bellissimo Our band could be your life. Una band che poteva nascere soltanto negli USA reaganiani, come contrasto all'atmosfera opprimente e violenta di quegli anni.
The punch line fu il primo disco dei Minutemen, contiene 18 pezzi e dura 15 minuti ed è una carrellata genialoide di micro-pezzi sincopati, per nulla acerbi per un esordio. Certo, non è epocale come Double nickels on the dime, ma la pasta era già quella. Serve altro?

sabato 17 marzo 2018

Aidan Baker ‎– Dog Fox Gone To Ground (2006)

Altra scoperta durante letture estive di Blow Up di 10 e più anni fa che non avevo neanche comprato all'epoca; ho trovato sorprendente come già allora Baker potesse ricevere un'8/10 dato che già allora era spaventosamente incontinente, ma questo Cd-r per l'italiana Afe in effetti si rivela un ottima suite in 5 parti in cui il canadese suona soltanto chitarra acustica, sia al naturale che passata attraverso effetti (passi per i drones, ma come fa ad ottenere il feedback, vien da chiedersi?). La sensibilità più estatica e delicata di Baker trova un eccellente veicolo espressivo, strutturalmente improntato sul minimalismo; i 5 temi scorrono placidamente, reiterati con dolce ossessività e senza alcuna fretta, generando un paesaggio astratto ma al contempo ricco di fascino. La ricerca del suono dell'anima, direttamente dalle corde di nylon.

giovedì 15 marzo 2018

Swans ‎– White Light From The Mouth Of Infinity (1991)

Già con Children Of God sembrava impossibile che fosse lo stesso protagonista che aveva iniziato la saga Swans su coordinate che più bieche non si poteva. La progressione di Michael Gira verso un suono ancor più orchestrato e mellifluo trovò così la sua foce naturale in White Light From The Mouth Of Infinity, disco storico anche perchè fu il primo numero in catalogo della sua Young God.
Questa ossessione per un Dio così ricorrente fece intuire che sì, l'ex indemoniato aveva visto la luce, ma era una luce tutta sua. Le armonie così solenni, gli arrangiamenti cristallini sostenuti dal suo baritono impassibile, la sua ispirazione cosmica in pezzi dalle strutture semplicissime e circolari, rendono a tutti gli effetti il disco il parto di un songwriter, al punto di confinare Jarboe in un paio di episodi. Nonchè uno dei suoi capolavori gotici.

martedì 13 marzo 2018

Laddio Bolocko ‎– Strange Warmings Of Laddio Bolocko (1997)

Potentissimo, delirante e contorto avant-math-noise da parte di un quartetto newyorkese dalla vita breve ma con ramificazioni ben cementate nel giro cittadino di questo tipo di avanguardie soniche senza controllo. Forti di un bagaglio tecnico notevole, svilupparono le lungimiranze dei King Crimson di Red e dei This Heat di Deceit contaminandole con un approccio quasi jazz, sia per la presenza di un sax molto free che per l'attitudine alla jam, per approdare ad uno stato di noise-trance quasi ipnotica nel suo dipanarsi senza bussola. Questo fu il loro primo album e sarebbe stato quasi un masterpiece se non fosse stato inquinato dalla traccia finale, che si prolunga inutilmente per 34 minuti, decisamente un po' troppo anche se preso in ottica minimalistica.

domenica 11 marzo 2018

Lee Rockey ‎– Music (2007)

Prezioso recupero da parte di una delle etichette weird americane più rappresentative degli ultimi dieci anni, la De Stijil, che ho intercettato nella sezione Rewind di un Blow Up di diec'anni fa letto per puro completismo la scorsa estate, con un rarissimo 8/9 di Federico Savini.
Un disco che più NWWlistiano non si potrebbe, una vera e propria out-take se non fosse che questi nastri furono registrati fra la la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 ma restarono sepolti per una quarantina d'anni, per essere pubblicati solo dopo la morte di Rockey. Americano, in vita fu essenzialmente un batterista di jazz da big band ma che dopo i 40 anni si diede a questa forma di sperimentazione solista (chiamare il disco Music forse non è stata un'idea molto illuminante, a meno che non ci sia un'intenzione puramente ironica) dell'assurdo, con un coacervo impossibile da districare per nastri, violino, violoncello ed oscillatori. Un bubbone di mezz'ora abbondante che tramortisce, lascia sbigottiti e fa quadrare il cerchio del motivo per cui, a partire dagli anni '80 divenne un collaboratore abituale degli Smegma, che lo scoprirono in queste sue coraggiosissime e carbonare escursioni. Ma Rockey, rispetto ai californiani, era davvero superiore di diverse spanne ed in questa mezz'ora riesce a sconcertare sul serio e far sembrare dei pivelli tantissimi altri sperimentatori ben più conosciuti.

venerdì 9 marzo 2018

Parquet Courts ‎– Human Performance (2016)

Lou Reed, Sonic Youth, Feelies, Wire, Fall, Liars, U.S. Maple, Trumans Water, Velvet Underground, Galaxie 500, Bedhead, Devo, Swell Maps, ed altri che adesso non mi vengono in mente. Ascoltando Human Performance questi sono i nomi più o meno storici che vengono in mente, e basterebbe per liquidare i PC come dei semplici citazionisti senza tanta personalità, cosa che peraltro verrebbe istintiva dopo averne letto alcune recensioni. Diciamo che l'unico motivo per cui li ho ascoltati è dovuto al fatto che qualche mese fa Mark Kozelek ha fatto il suo milleunesimo disco col bassista Yeaton, quindi la curiosità è regina. Ed è una buona rivincita dell'indie-wave-pop americano e di alcune sue deviazioni, di un suono passatista ma che con una produzione ben rifinita (Rough Trade) può ancora far divertire. Le filastrocche rotolanti sono contagiose, le variazioni giuste e ben piazzate, il complesso più che godibile.

mercoledì 7 marzo 2018

Peter Hammill & The K Group ‎– Live At Rockpalast - Hamburg 1981 (2016)

Per me, hammilliano di ferro puro, la breve fase del K Group non è mai diventata una passione e forse lo stesso è successo per altri. Il rilascio di questo dvd pertanto si rivela occasione di revisione; trattasi, nel suo formato audio, del condono di un bootleg italiano diffuso 25 anni fa e mai regolarizzato, forse perchè i diritti erano detenuti dai tedeschi che filmarono l'evento, i quali evidentemente non si interessarono mai a trasformarlo in supporto commerciabile. Pertanto si tratta di un prodotto non controllato da PH, in merito al quale nella sua newsletter ha definito il K Group un gruppo divertente ma con momenti molto seri. Non si spiegherebbe altrimenti il suo abbigliamento durante la serata in oggetto, consistente in un'improbabile camice azzurro da ospedalizzato ed una fascia bianca fra i capelli...per tacere del cappellino parziale con visiera trasparente di Evans.
La revisione, comunque, è passata. Dicevo che non ho mai amato molto il K Group per il suo suono ispido che lasciava ben poco spazio alla teatralità ed alle acrobazie tipiche di PH, sia precedenti che successive del suo repertorio, in quegli anni molto asciutto e sfuggente al passato sia solista che VDGG. Probabilmente funziona perchè negli ultimi tempi non ho ascoltato il mio beniamino e riprenderlo con questo show mi permette di esaminarlo con criterio lucido; Evans e Potter non hanno bisogno di elogi aggiuntivi, Ellis dopotutto era un'ottimo gregario anche se dal suono monodimensionale. E la performance di PH, in una parola, stratosferica vocalmente e senza sbavature strumentali. Un opportuno ripescaggio.

lunedì 5 marzo 2018

Algiers – The Underside Of Power (2017)

Neanche due anni dopo il sorprendente esordio, gli Algiers tornano più pompati che mai dalla Matador, forti di un nuovo acquisto alla batteria, l'ex-Bloc Party Tong, che detto così a bruciapelo potrebbe sembrare fonte di pericolo, ed invece si limita (o viene limitato?) a fare il gregario.
Perchè, svanito l'effetto sorpresa di Algiers le nebbie si diradano e viene fuori il valore effettivo di una proposta che resta davvero valida ed originale. Quell'elettro-gospel decadente di ghiaccio bollente che aveva catturato la nostra attenzione è rimasto sostanzialmente sè stesso, con qualche variante e qualche punto in più a favore della musicalità/negritudine in senso stretto (la title-track ci suggerisce che il futuro potrebbe pendere da quella parte, e la prospettiva non sembrerebbe davvero male!), senza nulla togliere alla teatralità apocalittica che regna alla base dell'Algiers-concept. Quindi, un altro bel colpo che non supera il debutto, ma fare di meglio sarebbe stato quasi impossibile, restando nella stessa area.

sabato 3 marzo 2018

Scream From The List 68 - Cabaret Voltaire ‎– Three Mantras (1980)

Un'altra scelta bizzarra della Audion Guide, quella di indicare questo episodio laterale dei CV anzichè il primo e ben più rappresentativo degli esordi Mix Up. Laterale in quanto programmaticamente fuori se non frutto di provocazione bella e buona, non inserito nell'elenco degli album ufficiali: visti i 40 minuti di durata, difficile definirlo un EP. I Mantra inseriti non sono certo 3 bensì solo due, uno Western e l'altro Eastern, e sono lunghissime digressioni minimali; la Eastern è quella chiaramente orientale, con samples di musiche arabe ed indiane, canti di muezzin, percussioni, scampanellii e fiati tipici, ma con un loop vocale androide inarrestabile (ad occhio e croce dice build the wheel) ed un ronzio elettronico a rendere più ossessivo e straniante l'effetto complessivo.
Più musicalmente interessante la Western, una tirata acidissima su ritmo incalzante, con chitarre muriatiche, nastri impazziti, synth beffardi e voce declamante, senza dubbio più figlia di quella new-wave degenere che i CV hanno contribuito a forgiare con quel capolavoro che fu il debutto.

giovedì 1 marzo 2018

Sufjan Stevens ‎– Carrie & Lowell (2015)

Delizioso folk-pop da cameretta per un autore che, in tutta sincerità, ho sempre bellamente ignorato fin dai primi anni zero. La colpa è (quasi) tutta da imputare alle recensioni pedanti di certe firme pesanti di Blow Up alle quali ormai non faccio neanche più caso, salvo nomi già conosciuti con cui ci si può trovare anche d'accordo; certi toni trionfalistici non fanno per uno come me, se poi si parla di indie-pop ed aree affini, l'allergia è quasi automatica.
Però ad uno così osannato, prima o poi, una chance bisogna concederla e Carrie & Lowell, sorta di concept dedicato alla madre defunta, è davvero un gran bel disco, di quelli monolitici che colpiscono il segno con la loro omogeneità e focalizzazione. Un disco low-tech, con pochi overdub ed i toni alti al minimo, che vive in una dimensione ovattata e sognante. Voce e chitarra oppure voce e tastiere, per un confessionale a cielo aperto diviso in 11 squisite vignette melodicamente disarmanti, su cui Stevens canta delicatissimo, con zero estensione e poca più emotività.
Su queste 11, almeno 4-5 sono di quella stoffa pregiata che solo i più dotati cantautori possiedono e si scolpiscono nell'immediato in testa. Ed allora tocca tornare indietro nella discografia, credo...