mercoledì 30 dicembre 2015

Grim Tower ‎– Anarchic Breezes (2013)

Pregevole collaborazione fra Imaad Wasif e Stephen McBean dei Black Mountain, a me sconosciuto. All'insegna di un folk-rock abbastanza canonico, il progetto si eleva da un facile anonimato grazie al tocco sempre personale di Wasif, autore che seguo e stimo fin dai tempi dei Lowercase, qui in una veste dimessa e melanconica ma con qualche iniezione di robustezza sparsa di fuzz. Detto di lui, McBean invece si segnala per una gran bella voce (curiosamente dal timbro affine a quello di Richard Butler ma non arrochito e con maggior potenza) ed il tandem compositivo funziona alla grande.
Lavoro onesto e sincero; nessuna sorpresa, solo certezze.

lunedì 28 dicembre 2015

Skaters ‎– Pavilionous Miracles Of Circular Facet Dice (2005)

Come diavolo abbiano potuto due menti umane concepire ed elaborare una poltiglia di suono così indecorosa e malata non lo potrei spiegare. Come ha sapientemente scritto Mattioli su Noisers, gli Skaters hanno finito per diventare l'act più estremo della scena americana rumorista che tanta attenzione ricevette una decina d'anni fa dai media. E ciò in forza di qualcosa che non è violento nè aggressivo, ma è di una velenosità e di un marciume indicibile.
E' il gusto dell'orrido, a volte, ad attirarci. Così come spesso si resta imbarazzati dal mainstream, dalla televisione, dalla politica. Non ho ascoltato altri dischi degli Skaters nè so se lo farò, ma questa roba (sostanzialmente un'ora di deliri vocali deformati in un substrato lo-fi spesso come una scarpa di fango) è così perdutamente immonda e insensata che non ho potuto fare a meno di ascoltarlo tutto. Un fermo immagine demente di Eskimo dei Residents manipolato e replicato all'infinito. Resistenza.

sabato 26 dicembre 2015

Arc - The Circle Is Not Round (2005)

Progetto di Aidan Baker insieme a due percussionisti che si potrebbe inquadrare come minore rispetto a Nadja e quello solista in quanto la maggior parte della discografia è stata rilasciata tramite CDr, ma che a livello di tempistica non è da meno. The circle is not round fu il primo a beneficiare di una distribuzione internazionale, uscito su A Silent Place; mi chiedo quale ruolo abbiano i due comprimari in questa sede, visto che di percussioni non mi pare di udire che ce ne siano: si tratta di 4 lunghe suite di ambient-core che seppur suonate (almeno credo) in senso reale finiscono per essere abbastanza vicine al Basinski più saturo, zona Disintegration Loops. La chitarra di Baker è sicuramente la guida regina con dei flussi minimalistici di suono ultra-espanso e manipolato. L'effetto è quello di una infinita ed affascinante ipnosi.

giovedì 24 dicembre 2015

Leyland Kirby & Caretaker ‎– Bonus Tracks 1 (2011) + V/Vm ‎– Sometimes, Good Things Happen (2002)

Una preziosa miscellanea ed un recupero ormai lontano per il mio beniamino. Bonus tracks, rilasciato soltanto in formato digitale per i sottoscrittori della sua History Always Favours The Winners, è piuttosto eterogeneo ma non manca di dispensare perle sopraffine sul versante romantico come il soffio carezzevole della magnifica Medati e l'atmosfera melanconica di Because tonight always comes (si dice sia una cover dei Pet Shop Boys)Le ipnagogie marziali del resto ripristinano lo stile della serie Intrigue and Stuff 1-4. A chiudere si materializza The Caretaker, con 2 outtakes ultra-vintage-granulari del disco dell'anno 2011. Ci sarebbero state dentro alla grande senza snaturare il bilancio.
Sometimes good things happen fu il quarto album a nome V/Vm ed era composto da due cd: stessi titoli e scaletta, stessa copertina ma una di colore blu e l'altra sepia. Il primo è un attacco terroristico in piena regola, un assalto electro-noise assordante ed ottundente. Non è nè industriale nè filo-nippo, ma è solo per stomaci forti.
Molto meglio il seppiato, un assortimento avvincente di astrattismi. Nei pochi tratti ritmati è rintracciabile l'influenza dell'Aphex Twin più scabro e scuro, ma la mano sapiente ed unica del ricciolone nel saper trattare la materia elettronica era già una certezza toccante.

martedì 22 dicembre 2015

Cannibal Movie ‎– Mondo Music (2012)

Duo tarantino appartenente al filone occult-psychedelia, dall'impianto ristrettissimo: organo vintage che più vintage non si può e batteria stra-essenziale. Mondo music, uscito inizialmente solo su cassetta e poi ristampato l'anno successivo in vinile, è un fascinoso trip mistico-allucinatorio che sembrerebbe essere stato registrato nel 1969, diviso in due tranches da 13 minuti l'uno. La prima più aggressiva e ritmata, la seconda decisamente più meditata, quasi zen.  L'organo schiumoso e stra-carico di riverbero snocciola frasi che richiamano spesso le sonorità del medio Oriente; ma più che parlare di lo-fi mi rifarei ad una filosofia ben precisa di negazione del presente che oltre oceano può trovare affinità con tante altre bands. In ogni caso, tanta stima e lavoro che ipnotizza senza compromessi.

domenica 20 dicembre 2015

Kevin Ayers And The Whole World ‎– Shooting At The Moon (1970)

Dopo David Allen ecco un'altra faccia di Canterbury, quella più freak di chi si staccò dai Soft Machine per mandare a quel paese quanto stava prendendo il sopravvento. Ayers non era meno diverso dai Gong per concentrazione di stranezza, anzi, gli sballi vertiginosi alternati alle sue sofisticate ed eleganti pop songs facevano ancora più a botte con ogni ipotesi di classificazione. Era dadaismo all'ennesima potenza, privato di quel senso d'innocenza che ha tanto fatto beato Wyatt; in una parola beffardo.
Ostico persino oggi.

venerdì 18 dicembre 2015

Desertshore & Mark Kozelek - Mark Kozelek & Destershore (2013)

La buona rinascita dell'ultimo Kozelek ha avuto un passo simbolico con questa collaborazione che ha dato grande segno di umiltà da parte dell'uomo, ovvero col gesto di mettersi in discussione all'interno di un gruppo che ha composto le musiche su cui ha cantato.
Ovvio che però lo potesse fare solo con una vecchia conoscenza, con quel Phil Carney che era stato il chitarrista successore di Gordon Mack nei Red House Painters. Desertshore è il suo progetto condiviso col pianista Connolly. Il risultato è un disco tutto sommato brioso e luminoso con una varietà di stili ragguardevole, dalla ballad pianistica al country frizzante, dal neilyounghesimo elettrico alle cavalcate acustiche tipiche di Kozelek solista. Le vere gemme però stanno altrove, nelle nevrosi controllate di Katowice or Cologne e Hey you bastards e soprattutto nelle moviole cristalline di You are not of my blood e Sometimes I can't stop, che riportano dritti dritti alle seconde pagine storiche dei RHP, diciamo altezza 95/96, e che prima o poi dovrò rivalutare.

mercoledì 16 dicembre 2015

Tussle ‎– Telescope Mind (2006)

Quartetto californiano: basso, batteria, percussioni ed elettronica. Mancherebbe una voce e ci troveremmo di fronte ad un aggiornamento dei Liquid Liquid, perchè l'enfasi è posta tutta sul ritmo e l'apporto armonico è fornito soltanto dal basso, funkeggiante e puntuto. Inoltre, in un pezzo partecipano proprio 2 componenti dei newyorkesi; poco più che un cameo simbolico ed iconoclasta.
In realtà i Tussle fanno musica strumentale e la negritudine è quasi inesistente, semmai il focus del tributo è indirizzato ai Can periodo 1975-1978, ovvero quando Czukaj aveva abbandonato il 4 corde per l'elettronica. Non ci sono grossi sconvolgimenti lungo una scaletta piacevole e coinvolgente; è tutto molto curato ed in fondo anche simpatico, ma non memorabile.

lunedì 14 dicembre 2015

Leafcutter John ‎– The Housebound Spirit (2003)

Prima della svolta folk col bellissimo The forest and the sea, peraltro precedente ad una lunghissima pausa, John Burton era un performer prettamente elettronico, audace nel mettere in scena le sue schizofrenie anche tramite un dispositivo che genera suono attraverso la luce.
In questo disco Giovanni Tagliafoglia eccedeva in un po' troppi stili; glitches, astrattismi robotici, quadretti da camera, electro-dub, pseudo-operismi, soltanto un paio di dolenti torch-songs delle sue. A volte l'avanguardia trascende un po' il sentimento e le emozioni, si sa, eppure l'inglese riuscì a canalizzare questo enorme guazzabuglio di stili in qualcosa di avvincente senza far storcere il naso nè a chi la ama nè a chi la odia, a mio parere.

sabato 12 dicembre 2015

Jarboe ‎– Thirteen Masks (1991)

Il primo disco solista della musa di Gira, pronta ad affrancarsi dal marchio Swans e ad essere officiata di gloria personale. Tredici maschere fu un titolo programmatico perchè ogni pezzo (in realtà sono 14, ma perchè A man of hate è proposta in due versioni) vive di luce propria e gli si perdona un po' di dispersione, di eclettismo fuori misura.
La personalità debordante di Jarboe usciva meglio nelle atmosfere più delicate e riflessive; lo spazio riservato ai clangori forti ed ai pezzi ritmati è minoritario. Il suo era un cantautorato carismatico, a tratti levitante, tangente appena appena il gotico. Ben poco a che vedere con gli Swans fino all'epoca, ed ancora meno d'altro.

giovedì 10 dicembre 2015

Teisco ‎– Tuscan Castle And Country Seat (1978)

Castelli e ville toscane in Italia, si chiamava il documentario o la serie in questione. Dietro il (non felicissimo, diciamocelo) monicker delle chitarre giapponesi si celava il polistrumentista Marco Melchiori, altrimenti detto Rimauri, librarysta attivo dalla metà degli anni '70 e omaggiato recentemente di qualche ristampa dalle australiane Dual Planet e Roundtable.
Abbastanza stravaganti, queste ville e questi castelli. Si penserebbe a qualcosa di più bucolico e agreste, per gli incantevoli scorci toscani, invece Melchiori si rivelava un freak intento a destreggiarsi fra caracollanti atmosfere tardo sixties, digressioni chitarristiche di retaggio psichedelico, qualche incursione cosmica con synth fischianti e soprattutto la lunghissima Old Colours, elucubrazione pianistica seriosissima e drammatica nonchè citata come sigla della trasmissione...
La coesione collettiva è pari a zero, al punto si direbbe più una raccolta; però stranisce ed incuriosisce a tal punto che diventa irresistibile.

martedì 8 dicembre 2015

Screams From The List 13 - Hugh Hopper - 1984 (1973)

Il grandissimo e compianto bassista dei Soft Machine al suo debutto solista, appena uscito dal gruppo. Concettualmente è l'equivalente di The end of an ear dell'amico Wyatt, ovvero: alta sperimentazione ed alto tasso di follia per un risultato finale memorabile. Se nel caso del batterista/vocalist si era tradotto in un manuale di dadaismo trasognato come da dna, in 1984 emerge l'ego moderato di Hopper in tutte le sue sfaccettature: si scherza poco (raramente si è visto sorridere nelle foto), lo strumento di riferimento non è più importante degli altri e la follia appare tremendamente lucida, con i pro e i contro del caso.
Certi esperimenti però lasciano il segno ancora oggi: nei 17 minuti di Miniplenty le percussioni liquefatte ed i piatti sventagliati, uniti ai nastri magnetici che manipolano i suoni del basso fino a farlo diventare come un synth, creano un'atmosfera surreale in cui non c'è scampo di orientamento. Nei 14 di Miniluv il tema iniziale marziale si stempera in una gigantesca allucinazione, come se i nastri si squagliassero al sole. Il breve delirio di Minipax II, per starnazzamenti e borbottii di fiati, è forse l'unico spazio per la gag semi-seria (a mio modo di vedere).
A fungere da cuscinetti più o meno normalizzanti, ci sono 4 pezzi brevi che invece ristabiliscono il parallelo coi Soft Machine, ovvero del jazz-rock canterburiano di classe (e di gruppo, visti i nomi dei collaboratori coinvolti) che tanto Hopper ha contribuito a creare, a partire da quella Facelift che stava sul monumentale terzo dei SM.
Memorabile, peccato che i seguiti non siano stati all'altezza ma il tramonto fu globale, non solo suo.

domenica 6 dicembre 2015

Autistic Daughters ‎– Jealousy And Diamond (2004)

Trio austro-neozelandese attivo su Kranky nello scorso decennio, dedito ad un ghost-rock degno di grande attenzione.
Questo fu il primo album e sorprendentemente faceva riprendere nuova vita al suono dei Talk Talk di Laughing Stock e dei Bark Psychosis di Hex, però con un distacco emotivo che li rendeva a loro modo diversi da quel mood tipicamente britannico. 
Quasi ovvio, vista la provenienza non solo geografica: il cantante/chitarrista Roberts, il bassista Dafeldecker ed il batterista Brandlmayer erano di estrazione art-avant e questa loro trasposizione dello slow-core finì per diventare una formula a dir poco originale.
Le sonorità sono pacate ma non gentili, con una chitarra pigra e discreta, la voce praticamente un sussurro, le ritmiche sonnolente; da potenziale sonnifero il disco si trasforma in un cunicolo notturno stracarico di fascino e mistero. Da segnalare la presenza alla produzione ed alla registrazione del connazionale Tricoli.

venerdì 4 dicembre 2015

Watter ‎– This World (2014)

E chi se lo aspettava che Britt Walford (batterista degli Slint) tornasse ad una nuova attività dopo una vita? Ci voleva il sostegno del chitarrista Zak Rails dei Grails e di un misconosciuto tastierista tal Tyler Trotter. E' un piacere vedere certe leggende tornare ad un ruolo più o meno creativo, anche se il suo compito in This world alla fine è di semplice supporto senza tanti scossoni.
Diciamo che gli Watter nascono con delle buone intenzioni, tipo quella di non suonare per nulla louisvilliani e ci riescono senza problemi. L'intento è quello di creare soundscapes e grandi orizzonti post-psichedelici, rigorosamente psichedelici: l'ombra lunga degli stessi Grails (riferimenti vagamente mediorientali, grande enfasi e spazi) si allunga sui momenti migliori, ma nella maggior parte del disco l'influenza maggiore sembra essere quella dei Porcupine Tree degli anni '90, cioè quelli più atmosferici. Il che non sarebbe certo un problema, però al gruppo sembra mancare l'amalgama, le composizioni e gli schemi sono un po' troppo diluiti per intrigare. Detto questo, l'ascolto è gradevole perchè è tutta roba che sostanzialmente piace, ma lo si archivia con la netta sensazione che non lo si riprenderà più.

mercoledì 2 dicembre 2015

Roly Porter ‎– Aftertime (2011)

Proveniente dal giro dubstep col duo Vex'd, l'inglese Porter si è messo in proprio e ha debuttato con questo magnifico assemblaggio di elettroniche moderne.
Un tracciato molto simile a quello che fece Ingram, il cui Consolamentum rivelò un solista insperato che si staccava drasticamente da quanto aveva fatto in precedenza, creando una formula personalissima.
Con Aftertime fuoriesce un flusso appassionato ed eclettico di tanti stili, tutti uniti nella direzione di scenari solenni e ben poco accomodanti: c'è il Ben Frost saturo di elettricità, il Basinski in loop-estasi contemplativa, l'Hecker rovinoso e srotolante, l'Eluvium neo-classico, fino a raggiungere stordimenti quasi industriali. Un amalgama che ha dell'incredibile caratterizza l'intera scaletta, con le atmosfere a rincorrersi, distruggersi e dissolversi. Con gli umori che passano dal glaciale all'accorato in un men che non si dica. Antologico in sè.