Il grandissimo e compianto bassista dei Soft Machine al suo debutto solista, appena uscito dal gruppo. Concettualmente è l'equivalente di The end of an ear dell'amico Wyatt, ovvero: alta sperimentazione ed alto tasso di follia per un risultato finale memorabile. Se nel caso del batterista/vocalist si era tradotto in un manuale di dadaismo trasognato come da dna, in 1984 emerge l'ego moderato di Hopper in tutte le sue sfaccettature: si scherza poco (raramente si è visto sorridere nelle foto), lo strumento di riferimento non è più importante degli altri e la follia appare tremendamente lucida, con i pro e i contro del caso.
Certi esperimenti però lasciano il segno ancora oggi: nei 17 minuti di Miniplenty le percussioni liquefatte ed i piatti sventagliati, uniti ai nastri magnetici che manipolano i suoni del basso fino a farlo diventare come un synth, creano un'atmosfera surreale in cui non c'è scampo di orientamento. Nei 14 di Miniluv il tema iniziale marziale si stempera in una gigantesca allucinazione, come se i nastri si squagliassero al sole. Il breve delirio di Minipax II, per starnazzamenti e borbottii di fiati, è forse l'unico spazio per la gag semi-seria (a mio modo di vedere).
A fungere da cuscinetti più o meno normalizzanti, ci sono 4 pezzi brevi che invece ristabiliscono il parallelo coi Soft Machine, ovvero del jazz-rock canterburiano di classe (e di gruppo, visti i nomi dei collaboratori coinvolti) che tanto Hopper ha contribuito a creare, a partire da quella Facelift che stava sul monumentale terzo dei SM.
Memorabile, peccato che i seguiti non siano stati all'altezza ma il tramonto fu globale, non solo suo.
Memorabile, peccato che i seguiti non siano stati all'altezza ma il tramonto fu globale, non solo suo.
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