domenica 28 febbraio 2016

Message To Bears ‎– Maps (2013)

 
Avevo partecipato spontaneamente al crowfunding per Folding Leaves, dopo la folgorazione per il debutto di Jerome Alexander, ma il risultato non mi aveva entusiasmato: la svolta cantautoriale con iniezioni di un'elettronica discreta non mi sembrava decisamente nelle sue corde, facendo svanire gran parte della magia. Forse l'operato di Kenniff al mastering l'aveva influenzato un po' troppo.
Ascoltando Maps, comprendo che invece si trattava di un episodio di transizione. Si tratta di un rilancio in bello stile; la chitarra resta sullo sfondo in favore di una decisa esposizione di piano e tastiere, beats sintetici, voce e, novità, grande profusione di archi ad opera dell'impeccabile Tim Gill. 
Laddove Folding leaves deludeva, ovvero nelle composizioni sfocate ed in una incertezza generale, Maps ne esce vittorioso con 9 pezzi concisi e delicati: lo spleen gentile di Alexander abbraccia consolatorio e scalda come un focolare in pieno inverno. Memorabili You are a memory, I know you love to fall e Moonlight.
Bentornato.

venerdì 26 febbraio 2016

Lawrence English ‎– Wilderness Of Mirrors (2014)

Australiano, English fa parte di quella corrente di artisti elettronico-ambientali dal piglio più fragoroso e scultoreo, per farla breve epigono di Ben Frost e Tim Hecker, i nomi di punta internazionali del filone, con i quali peraltro ha già collaborato.
Al contrario dei due, però, ha pubblicato una media di 3 dischi all'anno, pertanto risulta difficile dare un giudizio globale di quanto realizzato. Wilderness of mirrors si segnala per un omogeneità quasi impressionante, per il suono compatto ma costantemente increspato dalle ruvidezze, per certi climax che lo rendono quasi rabbioso e schiumante.
Non si tratta di un disco facile neanche per le orecchie abituate a questa materia; ha bisogno di più ascolti per essere assimilato e anche dopo essi non è semplice trovare una messa a fuoco. Non lo definisco un capolavoro perchè i due sopracitati hanno fatto di meglio, ma l'impatto è di quelli che non lasciano indifferenti.

mercoledì 24 febbraio 2016

Pholas Dactylus ‎– Concerto Delle Menti (1973)

Ingiustamente ignorato quando si parla di It-prog e dei suoi nomi principali, Concerto delle menti fu uno degli esempi più brillanti di ricerca ed originalità; a dispetto di un impronta italo-mediterranea che contraddistingueva la maggior parte dei gruppi, il sestetto milanese prediligeva un approccio freddo, razionale per non dire cinico, a causa anche del fatto della voce recitata di Carelli. Punto non di forza, ma di sicura originalità.
L'aspetto più interessante sono le trame sincopate e le tessiture astruse che i PD sfoderavano, in un ininterrotto ed efferato tour de force strumentale, per certi versi il più vicino come attitudine ad Ys del Balletto di Bronzo. In un memoriale abbastanza recente, il poeta/declamatore asserisce che il disco fu registrato in fretta e male, e che dal vivo facevano scintille (aneddoto principe, la scena rubata agli Amon Duul da supporto); sarà anche vero, e di certo fu un problema comune a tanti it-proggers, quello delle cattive registrazioni. Però Concerto delle menti fa un figurone ancora oggi.

lunedì 22 febbraio 2016

Pharmakon ‎– Abandon (2013)

Giovane performer newyorkese di nome Margaret Chardiet, in forza alla Sacred Bones, l'etichetta che ha portato alla visibilità Zola Jesus (e che fra tanti altri ha pubblicato Lost Themes di John Carpenter, uno dei miei preferiti del 2015). Ciò che realizza Pharmakon sembra la versione all'inferno della Danilova, oppure dei Throbbing Gristle con una Diamanda Galas appiattita dalla ferocia e priva di inflessioni teatrali.
Voce filtrata, synth ronzanti, percussioni, clangori ed efferatezze assortite. Non è particolarmente nulla di nuovo ma ciò che colpisce è la personalità che emerge da questi incubi, questi mantra industriali su cui la Chardiet vomita chissà quali fantasmi interiori. Colpito da questo espressionismo, Michael Gira l'ha voluta di supporto ai concerti degli Swans; osservando qualche video delle sue performance, trovo però che sul palco la potenza espressa su Abandon venga dispersa in buona parte. Quindi, meglio abbandonarsi a queste apocalissi dalle casse dello stereo: la Chardiet potrebbe realizzare qualcosa di importante, in futuro.

sabato 20 febbraio 2016

Taku Unami / Takahiro Kawaguchi ‎– Teatro Assente (2011)

Uno per la famigerata onkyo music, che ha diviso ed interrogato a lungo certa critica, con uno dei suoi dischi a quanto pare più rappresentativi degli ultimi anni. In passato mi ero già cimentato senza troppo successo con un disco onkyo, ma questo lavoro a 4 mani è profondamente concreto, concettuale ed è non suonato al 98%.
Ora, il rischio di esserne affascinato ed attratto è forte; a partire dal titolo del disco, curiosamente nella nostra lingua, che già suona enigmatico. Poi i titoli delle tracce, che per la prima metà sembrano raccontare una storia surreale, e per l'altra ricordano quelli lunghi e filosofici di Keiji Haino. L'ascolto di Teatro assente va effettuato in una stanza silenziosa, perchè i suoni sporadici obbligano a mantenere altissima la soglia d'attenzione. I passi sul palco legnoso del teatro in cui è stato registrato sono l'elemento più ricorrente, poi ci sono oggetti che cadono, qualche beep, ticchettii di orologi, canti di volatili, un elicottero nel finale, infine la componente musicale; qualche minuto di una chitarra elettrica furiosa, quasi black metal, che stonano decisamente nel contesto ma aiutano a ricordare che stiamo ascoltando un disco, nel caso in cui ce ne fossimo dimenticati a causa dei lunghissimi silenzi. Poi c'è il pezzo ironicamente intitolato Dub mix, che per me è la cosa migliore, con i suoni echeggianti. La fedeltà delle registrazioni è impeccabile, al punto che sembra di trovarsi proprio sul posto in cui (non) avviene l'evento. Non so se ascolterò ancora dischi onkyo, ma il concetto è davvero intrigante e non sarebbe male assistere ad una performance dal vivo di questo genere; concentrarsi su cose come Teatro assente è molto impegnativo e la vita di tutti i giorni non lo permette.

giovedì 18 febbraio 2016

Seirom ‎– And The Light Swallowed Everything (2014)

Dopo l'esaltante esordio sulla lunga distanza, De Jong è tornato con un'altro splendido disco, più concentrato nella durata e più compatto nel suono, il che lascia intravedere nuove ed imprevedibili soluzioni. Così, And the light swallowed everything rischia di essere diventato il suo disco più accessibile in assoluto.
La parola d'ordine è ancora una volta la luce, che oltre ad ingoiare tutto entra anche nei titoli di alcuni pezzi, e che è l'elemento cardine di questo suono pieno, stratificato ma non saturo, ricco di visioni paradisiache ma mai soffice. Le ritmiche diventano a tratti parti integranti dell'insieme, le vocals sparse elementi cruciali nell'avvicinare questa musica ad una versione hardcore degli Slowdive (la nostra Francesca Marongiu è accreditata in I'm so glad to have been part of you, ma appare un altra cantante non identificata nell'estatica The best you can be e nella solenne Leaving), mentre le parti di violoncello eseguite da Aaron Martin conferiscono i tratti struggenti in maniera magistrale.
Parlare di ammorbidimento per il nostro satanasso preferito sarebbe ingeneroso: chi lo segue da un po', riconoscerà sicuramente il suo Dna e poco male se qualcuno non apprezza. A mio avviso si tratta di un evoluzione necessaria ma spontanea ed in pieno corso d'opera; non mancherà di sorprendermi di nuovo, ne sono convinto.

martedì 16 febbraio 2016

Tom Recchion ‎– I Love My Organ (2004)

Un'altro recupero di archivi nascosti per Recchion, a seguito dei memorabili precedenti; questa volta il materiale risaliva a fine anni '80, ad eccezione della traccia finale, la cupissima It just stood there, registrata l'anno prima con il contributo parlato del critico e musicista concreto David Toop.
Materiale comunque restaurato e remixato per l'occasione, ed ancora una volta grande dimostrazione di estro e fantasia da parte del californiano; collage dadaisti ed atonali, irresistibili numeri di ironia per l'avanguardia (la memorabile Terry Riley in Rome), scuri e rimbombanti singulti industriali, la solita lounge-exotica, l'ambient cosmica e minimale, le imponenti sinfonie allucinogene (Ectoplasm, Forced to waltz forever), le gag surreali fra il circense ed il demenziale.
Difficile trovare altre parole per lodare la sua lungimiranza e la genialità.

domenica 14 febbraio 2016

Land ‎– Night Within (2012)

L'aggancio è facilmente prevedibile; la presenza di David Sylvian nella traccia iniziale, per lo più in spiccata performance melodica, realizza per pochi minuti una fantasia appartenente al passato per non dire dimenticata: come sarebbe stata una collaborazione con i Bark Psychosis di 20 anni fa.
Comunque, anche se non ci fosse stato l'illustrissimo, Night within avrebbe attirato la mia attenzione perchè si tratta di uno splendido album di quel ghost-ambient-rock che si ispira proprio ai divini BP di Hex ed ai Talk Talk di Laughing Stock (il timbro secco delle chitarre, la batteria così pseudo-jazz col ride tintinnante, le trombe educate ma al contempo irregolari), con un'aggiunta di componente noir che lo rende un po' nevrotico e per questo affascinante ai giorni nostri.
Autori dell'operazione due inglesi relativamente sconosciuti ma con le mani ben impastate per uscire su Important ed allestire uno staff di esecutori di cui Sylvian è solo la punta dell'iceberg. Per questo motivo l'operazione sembrerebbe uno one-shot, ma di quelli destinati ad esser ricordati,

venerdì 12 febbraio 2016

Josef K - Entomology (2006)

Dimenticata formazione scozzese che aveva le carte in regola per diventare una delle protagoniste della new-wave ma a causa di episodi jellati finì per dissolversi. Il principale dei quali fornisce loro onore: registrarono il disco d'esordio ma, insoddisfatti per la produzione troppo pulita, rifiutarono di pubblicarlo.
Infatti non erano destinati al grande successo, nonostante l'aspetto melodico fosse rilevante: insieme alle classiche ritmiche spigolose e travolgenti della corrente, la coppia delle chitarre forniva un effluvio torrenziale che a tratti sfociava nell'ipnosi psichedelica (il riferimento Will Sergeant era evidente). Entomology è una raccolta Domino del 2006 (prevalentemente singoli, una Peel Session, arbitrari estratti dall'unico album pubblicato e di quello archiviato) destinata al recupero di questa band che fu di fondamentale influenza per la new-wave della new-wave allora in voga.
Non erano i campioni britannici del genere, ma furono un ottimo originale.

mercoledì 10 febbraio 2016

Black Pus ‎– All My Relations (2013)

Lateralmente alle prodezze compiute coi Lightning Bolt, l'ipercinetico batterista Chippendale è attivo anche con questa sigla solista, la cui attività col passare degli anni è diventata più prolifica del duo. E con All my relations c'è stato persino l'approdo alla Thrill Jockey.
I punti in comune coi LB sono parecchi, la progenitura è indiscutibile: ritmi forsennati e fratturati, effetto lavatrice, follia allo stato brado. La batteria è ovviamente al centro di tutto, ma resta comunque un concreto supporto alla schizofrenia irrefrenabile: come dimostrato dal vivo, Black Pus è una one-man band che vive di corto-circuiti, di bassoni filtrati e sfigurati, di vocoderizzazioni ai limiti del cartone animato, di distorsioni galattiche. 
Ottima alternativa a chi si fosse un po' stancato degli ultimi LB.

lunedì 8 febbraio 2016

2000

TM è monodimensionale ed ossessivo: solo dischi, solo istantanee, solo isole. Ancor di più da quando ho deciso di scrivere soltanto riguardo a titoli che come minimo sono da 7 in pagella. Carbonaro ed ostinato: le visite sono ai minimi storici, ma provengono da tutto il mondo. L'iniziativa delle classifiche per anno fu attrattiva e stimolante, ma in seguito non ho pù avuto idee. Mi chiedo: potrei rendermi visibile alle ricerche di Google? Sarebbe soltanto un gesto vanesio o gratificante? Riaccenderebbe i fuochi incrociati delle autorità addette alla protezione del copyright?


sabato 6 febbraio 2016

Screams From The List 15 - Deep Freeze Mice ‎– My Geraniums Are Bulletproof (1979)

Non sarà stato per la Side A che Stapleton ha inserito i DFM nella list; sicuramente l'ha fatto per la B, interamente occupata da The Octagonal Rabbit Surplus, un indefinibile pastiche di abbozzi, suoni straniti, sferragliate di gong, pianoforti dissonanti, starnazzamenti di fiati e qualche nastro al contrario. Collage che è stato raddoppiato con l'aggiunta di un Surplus nella prima ristampa in cd, effettuata da un etichetta belga nel 1991, e che è persino più interessante dell'originale, per via di atmosfere ancor più allucinanti e stati di caos relativamente controllato. Per non parlare di un finale semi-acustico-letargico che anticipa clamorosamente i Supreme Dicks di Unexamined Life.
Tutto questo comunque per sviare dallo stile ordinario del gruppo di Leicester, un quartetto pop-wave dall'approccio talmente naif che non poteva che attirare simpatie. La side A è composta da una manciata abbondante di canzoncine melodiche ed irresistibili, caratterizzate in primis da un brio baldanzoso e da una dose massiccia di Farfisa, direttamente discendenti dai Sixties, e con un ironia palpabile: esemplare la canzone d'amore dedicata alla Tatcher. 
Memorabile, nonostante l'evidente precarietà e l'approssimazione delle registrazioni (il basso sembra leggermente scordato e un po' fuori sincrono rispetto agli altri strumenti, ma in questo contesto un po' sgangherato tutto è a favore della causa generale....)

giovedì 4 febbraio 2016

Dead Rider ‎– Chills On Glass (2014)

Nuovi fasti per Todd Rittmann, alla terza prova con Dead Rider. Dopo l'entusiasmante debutto, la seconda prova The Raw Dents mi aveva lasciato un attimo perplesso. All'ascolto di Chills on glass, appare tutto più chiaro e coerente: era un capitolo di transizione.
L'apertura del sound ad innesti elettronici-sintetici necessitava di un certo rodaggio, che qui si sublima in un disco che chi amava gli U.S. Maple non potrà fare a meno di adorare, sempre che non intervenga l'integralismo: grooves astratti ed imprendibili, la chitarra di Rittmann defilata a pochi, graffianti riffs (oppure manipolata, non saprei...), maggior spazio ai synth ed alle tastiere della Faught, stesso approccio cubista e divinamente disorientante. Inoltre, la formazione si è fregiata di un acquisto rilevante, il batterista Thymme Jones di Cheer-Accident ed una miriade di altre esperienze avant-rock; sostituto di grande levatura, a fronte del grande predecessore che suonava su Mother of curses.
La prova del nove: al termine, stessa necessità di ripartire per cercare di trovare un filo razionale, per porsi ancora l'interrogativo e adesso cosa faranno?
Proprio come succedeva per i dischi del mai dimenticato acero americano.

martedì 2 febbraio 2016

Father Murphy ‎– Anyway Your Children Will Deny It (2012)

Ormai dotati di un loro pubblico persino negli Stati Uniti, hanno idealmente chiuso un cerchio con il loro capolavoro; l'anno successivo il batterista DeMarin ha lasciato ed il nuovo Croce si è rivelato disco transitorio, non entusiasmante come i precedenti. Ma ci può stare, per carità, e magari lo rivaluteremo.
Anyway... ha condensato alla perfezione tutti i segreti della stregoneria FM che avevamo inevitabilmente amato grazie ai precedenti: la teatralità nero pece, la solennità immane delle litanie (forse l'unico aspetto che li rimanda ad un influenza Swans, ma solo in astratto), le perdizioni psicologiche, il senso di straniamento unito ad un carisma ben determinato. Poco da dire; è un disco concentrato, anche nel minutaggio, che non disperde neanche un grammo di energie, un cinico monitor che visualizza i mali del mondo e li esorcizza, spietato. 
Gloria nazionale.