venerdì 30 settembre 2016

Chrisma – Chinese Restaurant (1977)

Poco da dire su una bomba artistica che scoppiò nell'Italia di piombo. La buonanima di Arcieri, abile e consumato trasformista, a 30 anni ebbe il coraggio di reinventarsi da ex-beat e varò Chrisma spalleggiato dall'altrettanto abile moglie, per un progetto che di italiano aveva nulla, nada, nisba, zero, 0.
Kraftwerk, Stooges, Neu!, Stranglers, queste le basi di partenza per Chinese Restaurant. Le serrate ritmiche di Black Silk Stocking, C.Rock e Mandoya sono new-wave in tempo reale e sono gli episodi più illuminati, ma le tracce che sviano dalle terre di nascita sono percepibili ovunque: i punk and roll di Wanderlust e What for, l'algida sinfonia sintetica di Lycee, la sigla solenne Thank you, marchiano a fuoco un disco che li fece paragonare ai Velvet Underground dalla stampa inglese. Dettaglio non di poco conto: le chitarre, splendide e fondamentali nell'economia del suono, furono a cura di Vevey della Locanda Delle Fate.
Alla faccia del provincialismo italico.

mercoledì 28 settembre 2016

Pyrrhon – The Mother Of Virtues (2014)

Quando, molto candidamente, ascoltavo death-grind dalle trasmissioni di Sorge su Planet Rock, ero molto attirato dalle ali progressive del genere con bands come Cynic, Dark Millenium, Atheist. Ad ascoltare oggi i newyorkesi Pyrrhon con questo mastodontico album, quei ricordi vanno in fumo, in una grassa risata, con la conseguenza che questo quartetto potrebbe dare un senso, se ancora può esistere, al genere.
Il fatto è che secondo me questo non è più death-metal, è una forma superiore. Tralasciando i growls del vocalist, che di fatto restano l'unico vero punto di contatto col passato, The mother of virtues è una colata rovente ed eccitante, che lascia ben poco fiato; fra mattanze doom, sfilacciamenti ritmicamente jazz, ripartenze sprint, orrori lisergici, schemi math-imprendibili, il trio è coeso all'impossibile nel tenere le fila di un suono elastico, propulso da uno splendido chitarrista, poco vanitoso e maniacalmente compulsivo. 
Da ascoltare più volte consecutivamente, senza comunque venirne a capo.

lunedì 26 settembre 2016

Rex ‎– Rex (1995)

Chiudo il discorso con il glorioso trio che tanto amai in vita e tutt'ora continuo a ritenere uno dei più grandi in assoluto del movimento post-folk e slowcore di un ventennio fa. Il primo omonimo, già su Southern, resta il loro disco lo-fi per non dire registrato con approssimazione ma in prospettiva fondamentale nell'aprire un varco che li porterà agli splendidi secondo e terzo.
Le loro cantilene sommesse e solenni erano già classici dopo un minuto, con l'incantevole Nothing is most honorable than you, la spettrale e spiritata Angel tune he hums, la saltellante ed accorata Come Down, con un'estraneo, This is a recording, che si direbbe out-take di Tweez degli Slint. Non lo ascoltavo da tanti anni, ma che cuore....

sabato 24 settembre 2016

Fridge ‎– Ceefax (1997)

Trio londinese che forse viene ricordato più per la presenza di Kieran Hebden che per i suoi reali meriti artistici. Dopo i primi 3 album, infatti, il chitarrista/manipolatore varò il suo personale, fruttuoso progetto chiamato Four Tet che l'ha portato alla ribalta dell'elettronica internazionale.
Tant'è che, anche se risultano ancora attivi, i Fridge hanno rilasciato un solo titolo negli ultimi 10 anni. Ceefax fu il loro esordio e vedeva un trio giovane ed esuberante che tradiva le proprie influenze post-rock ma fra qualche ingenuità, qualche colpetto di genio e qualche sfuriata grintosa riusciva a trovare una propria via. Si provi a pensare a dei Tortoise grezzi con Allen Ravenstine al synth e si idealizzerà il filo conduttore di un disco che è invecchiato piuttosto bene, non come altri titoli affini. Sugli scudi il bassista Ilhan, un virtuoso didascalico vicino, come stile, a Doug McCombs.

giovedì 22 settembre 2016

Zu + Eugene S. Robinson ‎– The Left Hand Path (2014)

Eccezionale collaborazione fra le colonne italiche del jazz-core e l'ormai leggendario, statuario e poliedrico ESR, di cui ci piacerebbe ascoltare persino la lettura dell'elenco telefonico. Ciò che ci si chiede, vista l'assoluta rilevanza di The left hand path, è perchè mai sia stato pubblicato dopo direi 3-4 anni dalla realizzazione, vista la presenza di Battaglia che com'è noto ha abbandonato la formazione nel 2010. Robinson in una recente intervista dichiara che la musica era destinata a sonorizzare un film horror, ma alla fine non se ne fece nulla e gli Zu gli spedirono il pacco, chiedendogli di performarci sopra a modo suo.
C'è poco da dire, è un capolavoro che non ha nulla a che fare con gli Zu che abbiamo sempre conosciuto. Pupillo zavorra il suo basso con linee fangose, monotone e lentissime, snocciola qualche giro lercio di chitarra, gingilla con un'elettronica disturbante e per l'appunto, orrorifica. Mai e Battaglia gingillano e basta. Potrei definirlo il disco dark-elettro-organico degli Zu, un notturno minaccioso ed allucinato in cui Robinson fa quello di cui non ci siamo ancora stancati: emettere i suoi suoni vocali, inconfondibili in tutte le salse (memorabile 6 O'Clock, in cui piange), come al solito capace di elevare ed impreziosire qualsiasi cosa gli passi sotto. L'unico parallelo possibile che mi viene in mente è quello dei primi, indimenticabili Rope, ma con un impronta maggiormente lasciva e melmosa. Ben 19 tracce, e già il rimpianto che non verrà mai bissato.

martedì 20 settembre 2016

Scientist ‎– Heavyweight Dub Champion (1980)

Ho sempre pensato "beh, bello il dub", quando si parlava di Scorn, della seconda facciata di Blind Idiot God, del magnifico Have fun with God di Bill Callahan, le derive degli ultimi Om, e tanti altri ancora. Ma il dub originale, quello inventato dai giamaicani?
Mai ascoltato, allora ho pescato due titoli fra quelli indicati i più storici. Super Ape degli Upsetters l'ho trovato insopportabile, per cui mi sono avvicinato a Heavyweight Dub Champion con una certa riluttanza, salvo poi dovermi ricredere. Un disco spassoso ma in grado di solleticare anche la fantasia, con gli effetti di rigore che tanto influenzeranno, gli echi, i ritmi caracollanti, i bassi in primissimo piano, e gli altri strumenti relegati a comprimari. Sapere che poi l'artefice era un ragazzo di appena 20 anni non fa che accrescere la simpatia. Non credo che andrò a scandagliare il filone, ma almeno ne ho scoperto un esempio luccicante.

domenica 18 settembre 2016

Thou – Heathen (2014)

Lo stato di salute del doom-metal continua a sorprendere, con nuove e giovani formazioni in grado di continuare a dare lustro ad un genere che ormai ha una certa età. Nel caso del quintetto della Louisiana, già attivo dal 2007, si può parlare di un primato: con ogni probabilità è il primo gruppo doom-metal con componenti dai capelli corti (lo screamer è addirittura rasato).
Al di là della curiosità, Heathen impressiona per l'approccio alla materia pesante, sicuramente incompromissorio come suono generale ma con delle dinamiche eccezionali che sembrano sfidare quasi la forza della gravità. Nonostante la lunghezza sconfinata, il disco sa andare ben oltre le mattanze alla moviola; preziosissimi i break, che siano acustici (splendide pur nella loro brevità Dawn e Clarity), l'intromissione alla voce di una donzella in Immortality dictates, le intro epic-instru (Feral faun), ed un songwriting quasi sempre molto efficace. Stiano distanti coloro che mal digeriscono i growls torci-budella; un must per gli amanti del doom, anche quello classico.

venerdì 16 settembre 2016

Maurice Deebank ‎– Inner Thought Zone (1984)

Fu l'anima strumentale dei primi Felt, in cui fino al 1986 irradiò il suo talento di chitarrista promiscuo, prestato probabilmente ad un genere che non era proprio suo ma che cavalcò con estrena brillantezza. Curioso l'aneddoto in cui, durante un'intervista, dichiarò che il suo gruppo preferito erano gli Yes, subito rimbrottato dal cantante Lawrence che lo diffidò dal ripeterlo pubblicamente.
Lo stile di Deebank era eclettico e raffinato, elaborato ma essenziale, solitamente affidato ad un jingle-jangle cristallino coi toni alti squillanti. Questo fu il suo unico album solista; la ristampa Cherry Red del '92 fu un po' un pasticciaccio, perchè alternò le 6 tracce originali con altre 4 nuove, interessanti forse in prospettiva, ma purtroppo non seguite da nessun'altra pubblicazione. La continuità coi Felt era inevitabile, visto lo stato di grazia, ma in piena libertà Deebank era capace di creare sia atmosfere autunnali che saghe esuberanti, sospensioni psichedeliche e ragnatele dai riflessi medioevali, sempre con la grazia ed il tocco inconfondibile di un artista che tanto avrebbe potuto dare ma si è ritirato per motivi sconosciuti.

mercoledì 14 settembre 2016

Kafka’s Ibiki ‎– Kafka's Ibiki (2013)

Dal grande amore di Jim O'Rourke per la Eiko Ishibashi, ecco una conseguenza: questo trio completato da un batterista nipponico (di cui non conosco i gruppi di appartenenza), che mette su nastro le probabili, numerose improvvisazioni che hanno caratterizzato la conoscenza fra l'americano e la cantautrice.
Due brani, lunghi 15 e 22 minuti cadauno, la cui struttura e costruzione non può non ricordare la scomodissima ombra dei Necks. Frasi minimali di piano che crescono in intensità fino a diventare effluvii torrenziali di note, batteria che prima spiattella atmosfericamente e pian piano partecipa alla suite ma sempre un po' per conto suo, al posto del basso c'è O'Rourke che si alterna fra chitarra trattata ed elettronica. Il confronto di talento non si pone neanche, però funziona a livello impressionistico. Decisamente vanitoso, nulla di epocale e che non aggiungerà nè toglierà ai profili dei due personaggi principali. In ogni caso, un bel disco e piuttosto difficilmente catalogabile in un genere preciso.

lunedì 12 settembre 2016

Forrest Fang ‎– The Wolf At The Ruins (1989)

Brillante fusione fra etnica, minimalismo ed ambient da parte di un americano di origini cinesi che, partito dall'elettronica, recuperò le proprie radici studiando i metodi antichi ed innescò una formula che trascendeva la trivialità dei prodotti new-age imbastarditi ad uso e consumo muzak.
Così le tastiere ed i synth, in The wolf at the ruins, forniscono ancora la base compositiva ma diventano quasi secondarie, attorniate come sono dagli strumenti tradizionali dell'estremo oriente che creano quadretti esuberanti, qualunque sia l'umore; trattasi infatti di un disco molto variegato, in cui i bordoni ambientali-minimalistici stabiliscono un clima generalmente solenne ma che mai incute reverenza o timori. Un viaggio avventuroso che peraltro stempera con successo i suoni patinati ed i metodi di registrazione dell'epoca, andando spesso ad evocare le fasi più etniche dei Jade Warrior di 15 anni prima.

sabato 10 settembre 2016

Remember Remember ‎– Forgetting The Present (2014)

Ho sempre trovato un po' fastidiosa ed egocentrica la mania di gruppi che, arrivati ad un certo livello di popolarità, si mettono a fare da chioccia ad altri più giovani che ne ricalcano sonicamente le orme, facendoli incidere sulla loro etichetta, portandoseli in tour, eccetera. Nella fattispecie dei Mogwai, l'adozione dei concittadini Remember Remember è esattamente questa mossa e va a un po' a cozzare contro la filosofia che avevo imputato loro riguardo agli ultimi due dischi, in cui avevo puntato sull'essenza di un gruppo storico che con umiltà ritrovava il bandolo della matassa dopo quasi un decennio di sbandamenti.
Tralasciando questo importante dettaglio, il sestetto scozzese mi avrebbe comunque interessato perchè Forgetting the present, che a quanto pare è il loro canto del cigno, costituisce una curiosa versione barocca dei Mogwai: impianto strumentale ricco, arie autunnali e meditabonde, saliscendi emotivi, ma con arrangiamenti carichi ed esuberanti, ricchissimi di tastiere, qualche fiato, insomma raffinati per non dire sofisticati; a dirla grossa si potrebbe definirli Mogwai meets prog!. Funziona perchè il materiale è in larga parta più che buono (Why you got a blue face e La Mayo sono spettacolari) e costituisce una validissima alternativa all'ormai consunto e stanco epic-instru che ormai ha detto tutto quello che aveva da dire.

giovedì 8 settembre 2016

Scott Walker ‎– Scott 3 (1969)

Ma che strano caso, questa omonimia con uno degli aspiranti presidenti repubblicani che inflaziona le ricerche googlando il nome d'arte di Noel Engel. Un po' fastidiosa.
Un anno prima del suo capolavoro, le prove generali con 3. Andando a ritroso con la cronologia, si nota che Walker non stava percorrendo una particolare strada sperimentale, ma soltanto facendo librare il suo songwriting, la sua voce confidenziale e le grandi orchestre che magistralmente gli dirigevano le musiche. 3 fu l'ultimo disco con le covers di Brel, fra l'altro poste in coda al disco, che valeva a dire mettere un paletto divisorio simbolico. Manco a dirlo, gli episodi deboli.
Al loro confronto, il repertorio autografo di Walker era già avanguardia. I pezzi migliori: Copenhagen, Rosemary, Two ragged soldiers, Two weeks you're gone. Per respirare a pieni polmoni un'aria lontanissima, quella da crooner-pop sinfonico di alta classe.

martedì 6 settembre 2016

Drunkdriver - Miscellaneous 2008-2009

Chiudo definitivamente il discorso DD con le frattaglie sparse in quel bruciante biennio di vita in cui hanno marchiato a fuoco l'ibrido definitivo fra noise-rock e harsh-hc, posizionati più o meno fra il primo, fenomenale disco ed il meno entusiasmante secondo, probabile episodio di transizione se il gruppo non si fosse sciolto improvvisamente per tristissimi motivi extra-musicali, a pochi giorni dal lancio in grande stile su Load.
Nel 2008 esce la cassetta My Chinese Sister, che piazza subito due numeri cattivissimi mozzafiato e la per i loro standard lunghissima Look back and laugh, un caotico coacervo quasi alla Air Conditioning, episodio sperimentale che resterà isolato nella loro produzione. Nel 2009 due singoli al fulmicotone, Fire Sale e Knife Day: poco da dire, questi sismi ultra-abrasivi radono al suolo tutto ciò che incontrano e privano di ogni senso qualsiasi altro concorrente in tema di cattiveria e violenza sonora.
Nello stesso anno, la collaborazione con Mattin; venti minuti che assomigliano più ad un remix del basco che inserisce iper-saturazioni, effetti lavatrice, larsen da tapparsi le orecchie. L'affinità di intenti sulla carta era giustificata, ma al netto di tali, prescindibili disturbi era la solita performance ribollente del trio ad impressionare per la virulenza e l'energia atomica.
Grandissimi, al di là delle tristi vicende che hanno posto la parola fine. Maledetto Villalobos.

domenica 4 settembre 2016

Screams From The List 50 - Basil Kirchin ‎– Worlds Within Worlds (1974)

Inizia con il lamento agghiacciante di un gorilla, e già mette una paura folle. Tempo un minuto ed una serie di droni di fiati manipolati e in flanger prendono il controllo della situazione.
L'inglese Kirchin, formatosi come batterista nell'orchestra jazz del padre, si stufò di suonare le solite cose, fece una permanenza in India e tornò profondamente cambiato. Divenne così un coraggioso sperimentatore, portando le proprie competenze musicali a fondersi in una soluzione indefinibile, disturbante, estrema e a tratti persino violenta; in pratica fu uno degli inventori della musica industriale. 
L'influenza su NWW è enorme in tal senso, grazie alla pratica di collage sonoro che pesca field recordings di varia natura (il gorilla sopra citato, aerei, insetti, fenicotteri, persino bambini autistici di una comunità svizzera, e tanto altro), al trattamento dei nastri, alla creazione di atmosfere allucinate quando non orrorifiche.
Impressionante e da inserire nelle liste dei classici più weird della storia.

venerdì 2 settembre 2016

Ghostpoet ‎– Shedding Skin (2015)

Come nel caso degli Algiers o dei TV On The Radio, il talentuoso Ghostpoet è un coloured che non ignora le sue radici ma guarda intensamente alla musica bianca e la adotta al 100%.
Questo quanto succede nel suo terzo disco, in cui lascia da parte i già esigui residui di hip-hop ed elettronica e diventa un indie-guy, appellativo che non vorrebbe mai sentirsi appioppare. Difficile però non definirlo tale, all'ascolto di Shedding Skin, che è interamente suonato da una band coesa, in cui il suo vociare si fa sempre più simile ad uno spoken-word (per contrasto, le pochissime frasi cantate spesso corrispondono ai migliori climax emotivi), in cui ci sono canzoni dalle strutture piuttosto convenzionali, con un umore molto crooner, in cui il principale riferimento è riconducibile ai National di mezzo. In un paio di pezzi persino i Radiohead.
Detto ciò, il disco è letteralmente bellissimo; non c'è un pezzo che non giri a dovere, che non colpisca, che non regali il brivido di questo coinvolgente ed irresistibile crossover. Potrebbe restare una parentesi isolata, visto il talento del soggetto che pare essere un buon eclettico: comunque vada, Shedding Skin non si dimenticherà facilmente.