Brillante fusione fra etnica, minimalismo ed ambient da parte di un americano di origini cinesi che, partito dall'elettronica, recuperò le proprie radici studiando i metodi antichi ed innescò una formula che trascendeva la trivialità dei prodotti new-age imbastarditi ad uso e consumo muzak.
Così le tastiere ed i synth, in The wolf at the ruins, forniscono ancora la base compositiva ma diventano quasi secondarie, attorniate come sono dagli strumenti tradizionali dell'estremo oriente che creano quadretti esuberanti, qualunque sia l'umore; trattasi infatti di un disco molto variegato, in cui i bordoni ambientali-minimalistici stabiliscono un clima generalmente solenne ma che mai incute reverenza o timori. Un viaggio avventuroso che peraltro stempera con successo i suoni patinati ed i metodi di registrazione dell'epoca, andando spesso ad evocare le fasi più etniche dei Jade Warrior di 15 anni prima.
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