martedì 31 gennaio 2017

Seam ‎– The Problem With Me (1993)

In un intervista abbastanza recente, Sooyoung Park, alla domanda finale in cui gli viene chiesto se vuole lanciare un messaggio ai fan, risponde laconicamente: Beh, è difficile immaginare che qualcuno là fuori ascolti ancora la nostra musica dopo così tanto tempo, ma se è così ciò mi rende davvero felice.
Risposta disarmante, e probabilmente non è molto distante dalla realtà il fatto che i Seam siano davvero dimenticati. Per carità, potrebbe anche essere la prospettiva di Park, che dopo aver terminato l'attività del gruppo nel 2000 si è trasferito a Singapore per fare il programmatore. C'è tanto indie-rock americano dei nineties che, a riascoltarlo oggi, sembra fiacco, fiacchissimo. Ma i Seam resistono alla prova, soprattutto il secondo The problem with me, di gran lunga superiore al debutto e che stabiliva una cifra stilistica personale e cristallina, fra impennate vigorose di post-hardcore e compassate ballad elettriche che sembrano una versione luminosa dei Codeine. Sempre bellissime Rafael, Road to Madrid, Stage 2000, Sweet Pea.

domenica 29 gennaio 2017

Danny Oxenberg & Bear Galvin - Late Superimpositions (2016)

Saluto con grande piacere il ritorno discografico dopo un silenzio ventennale di Dan Oxenberg, dopo la clamorosa reunion live dei Supreme Dicks che ha visto toccare persino l'Italia (ma che diamine, solo un concerto a Milano!...), con la collaborazione di un non meglio identificato Bear Galvin.
Uscito per l'etichetta franco-svizzera Three:Four Records, a testimoniare un legame speciale con l'Europa, Late Superimpositions vede colui che fu il vocalist principale della leggendaria band/setta, probabilmente incoraggiato dal cofanetto antologico uscito nel 2011, tornare con uno stile abbastanza morigerato, per non dire pacificato. E' sempre il folk bucolico ad ispirarlo, quello che caratterizzava per la maggior parte The Unexamined Life, privo però degli sballi spazio-psichici che hanno reso unico al mondo il SD-sound.
Non è certo una mancanza; c'è tempo per ogni cosa, quel tempo eccezionale è bello passato e sarebbe inutile cercare di rifare gli SD. Qui c'è un disco disarmante, genuino e commovente come soltanto Oxenberg poteva farlo, con la sua inconfondibile voce tremolante, senza artifizi e con almeno 3 pezzi memorabili (I believe in you, la suite in 3 parti di Less than nothin e The ping pong song).

venerdì 27 gennaio 2017

Samla Mammas Manna ‎– Klossa Knapitatet (1974)

Davvero difficile trovare le parole giuste per una delle bands più geniali, gioviali e conviviali dei '70, per la quale è anche inutile stare a cercare caselle o catalogazioni, che ho scoperto a causa della NWW List con quel monumentale doppio che mi ha fulminato al primo ascolto.
Per Klossa Knapitatet, meno immediato e forse più cerebrale, il colpo arriva dopo 2-3 ascolti ma è quasi altrettanto forte. Fu il loro terzo, l'ultimo con il chitarrista Apetrea in organico a fianco degli storici Krantz, Bruniusson e Hollmer. Ed è manco a dirlo, la sagra del virtuosismo senza vanità, dell'avant-rock giocoso e visionario, delle gag surreali e lucide. In due parole, spettacolo assoluto; inevitabilmente legato al suo decennio, ai detrattori potrà anche sembrare vecchio e sorpassato; per chi scrive questa è musica senza tempo.

mercoledì 25 gennaio 2017

Blonde Redhead ‎– 23 (2007)

E così i BR si smascherarono; dopo aver raggiunto il climax della loro prima fase con Melody of certain damaged lemons, che chiuse un ciclo, il poco riuscito debutto su 4AD ed infine 23, il loro disco definitivo per chi scrive.
Fin dall'inizio, anche quando il loro suono era ispido e a volte aggressivo, lateva questa sensibilità melodica che soltanto un gruppo così stranamente assortito poteva generare. Ciò che comunque sembrava mancare erano le canzoni azzeccate, quasi come se amassero rimirarsi allo specchio senza trovare melodie veramente memorabili; su 23 ce ne sono tante, e le migliori sono perfette alchimie di quella loro sensibilità tutta particolare, fra il malinconico ed il trasognato, con arrangiamenti fantasiosi e multicolour: Publisher, Spring and by summer fall, SW, Heroine, Dr. Strangeluv, The Dress. E non ce n'è una da buttare via, fra le altre. Splendido.

lunedì 23 gennaio 2017

Black Flag ‎– The Process Of Weeding Out (1985)

Universalmente riconosciuto come mosca bianca ma anche come caposaldo essenziale nella discografia dei BF, questo sconvolgente mini di 25 minuti segnava un punto irreversibile ed anticipava di qualche anno certe commistioni di hard evolutissimo che avrebbero sviluppato gente di confine come Blind Idiot God e Iceburn, per non parlare del math-rock anni '90 anche se in forma diversa nei contenuti.
Non è vero, come si legge spesso, che Rollins non compare perchè era già fuori dal gruppo: Ginn concepì queste 4 tracce in forma strumentale e diede via libera al suo chitarrismo ormai sempre più arzigogolato e delirante, adeguatamente supportato dai tempi dispari della Roessler e di Stevenson, per un jazz-core spigolosissimo e totalmente innovativo, in quanto dotato di una tecnica particolare che era slegata sia dalle radici hardcore che da un non-identificato punto di arrivo; dire jazz in effetti è davvero straniante, ma Ginn volente o nolente suonava così. Unico punto debole la produzione, piatta e deficitaria di potenza, ma quelli erano anni difficili per tutti. Ad ogni modo, da annoverare fra le grandi anomalie degli anni '80.

sabato 21 gennaio 2017

Tim Hecker ‎– An Imaginary Country (2009)

L'ambient satura ed impressionistica di Hecker, una formula al suo vertice espressivo con questo suo secondo su Kranky. Il canadese ha sempre avuto una virtù, nel panorama dei neo-ambientali: ha saputo centellinare le produzioni concentrandosi sui risultati, con una media di un disco ogni 2 anni.
E poi la forza dei suoi sta nella coesione incredibile che li caratterizza, pur svariando da colonnati imponenti di droni ruvidi a quadretti cosmico-sinfonici ad elegie originate dal pianoforte che si espandono a 360°.
Più del celebrato Ravedeath 1972, che ce l'ha fatto conoscere per come è stato acclamato, amo questo Imaginary Country per come riesce a catturare l'attenzione e a far scattare il desiderio del riascolto per addentrarsi meglio nei fitti misteri che la abitano.

giovedì 19 gennaio 2017

Nick Cave & The Bad Seeds ‎– The Firstborn Is Dead (1985)

Più che un attestato di stima, il mio rievocare NC comporta un saluto implicito e nostalgico ad un amico che non vedo nè sento da 10 anni. Molto tempo fa, nell'ambito di lunghe discussioni musicali (ha una cultura davvero invidiabile), sbandierava la sua grande passione per NC, soprattutto per i suoi primi dischi solisti. The firstborn is dead è un classicone dell'australiano, intriso di quel croonering minaccioso, di quella formula demoniaca su cui un personaggio relativamente nuovo a metà '80 poteva far leva per diventare un'icona di culto. Figura che poi ha cavalcato con la fortuna che tutti ben conosciamo.
Detto questo, non sono mai stato un suo fan. Ma il mio amico amava (e credo ami ancora) la sua musica con un trasporto emotivo che gli illuminava gli occhi, ed in fondo io ero troppo giovane per cercare di apprezzarla. Oggi forse riesco a coglierne meglio il senso, ma pazienza se non mi appassiona più di tanto. Oggi l'ascolto di NC mi riporta alla mente l'amico con cui magari prima o poi mi reincontrerò, ed in tal caso sarà la colonna sonora giusta.

martedì 17 gennaio 2017

Julianna Barwick ‎– The Magic Place (2011)

La magia della Barwick sta in un non-luogo, geograficamente non marcabile; di sicuro ben sopra il livello del suolo.
Ed il più possibile lontano dalla New York di cui è originaria la vocalist che modella la propria soffice ugola come strumento e la stratifica, la sovrappone fino a formare nebulose di grande fascino. Una vera e propria psichedelia vocale, che può richiamare sia fascinazioni avanguardistiche del passato (Meredith Monk) che umili fuoriclasse dei giorni d'oggi (Grouper), senza neanche un virtuosismo ma soltanto lavorando di cesello sulle armonie estasiate, allungate e dilatate con gli effetti, con poco spazio riservato agli strumenti: un po' di piano, qualche synth, un tamburello nell'ultima traccia, e l'abbandono è fatto. Speciale.

domenica 15 gennaio 2017

Arvo Pärt ‎– Tabula Rasa (1984)

Emerito profano, mi accosto timidamente alla contemporanea, o neo-classica. La spinta non ricordo esattamente da cosa è stata dettata; forse il nome di Part mi era rimasto impresso in quanto principale fonte per la colonna sonora di Mia Madre di Moretti, ed alcuni frangenti mi erano rimasti impressi.
Senonchè, alla ricerca di un titolo rappresentantivo dell'estone, o anche solo di una sintesi esaustiva sulla sua opera, scopro che è tutto un ammasso informe di titoli, in cui non esiste una versione definitiva di ogni composizione; messo in crisi sui miei dogmi (ma credo sia normale in quel mondo, l'affastellarsi tranquillamente randomizzato), mi affido ad un link di dubbia e dimenticata provenienza e ciò che ne scaturisce non è il Tabula Rasa con cui l'ECM nel 1984 aprì le sue porte a Part, bensì lo stesso doppiato da altri 4 titoli, peraltro datati fine '80/inizio '90.
Ciò sarebbe bastato a farmi innervosire, se non fosse che il primo pezzo in scaletta, Fratres per piano e violino, si tratta di una meraviglia incredibile, di 11 minuti da ascoltare e riascoltare e riascoltare all'infinito, che ti lasciano senza parole per descriverne la bellezza assoluta.
Dopo questo shock, non dico che mi ero illuso, ma speravo che ci fosse altro di quell'altezza stratosferica; purtroppo non c'è, ma non ho potuto fare a meno di amare anche l'elegia di Spiegel Im Spiegel, le tempeste sinfoniche di Cantus in memory of Benjamin Britten e Festina Lente, le figure intercalari di Summa, la maestosità di Tabula Rasa. Un po' meno entusiasta dei canti gregoriani, che evidentemente non sono il mio ideale. Ma non importa, da quando ho scoperto Fratres (attenzione, Jarrett al piano e Kremer al violino a Basilea 1983, occorre essere precisi!), è amore vero.
(Sul tubo la versione è censurata per motivi di copyright, la sottostante è quella che più si avvicina)

venerdì 13 gennaio 2017

Matteo Uggeri ‎– Untitled Winter (2014)

Gran bell'esempio di elettro-acustica moderna, che coniuga con freschezza graffianti field-recordings a lievissime partiture cariche di mistero, soffi appena percettibili ed orchestrazioni ultraterrene. Autore è questo sperimentatore milanese che da oltre 10 anni lavora principalmente in gruppi (Sparkle In Grey) o in collaborazioni a non meno di 4 mani. Untitled winter invece (gran bel titolo), è il suo primo album a nome solista esclusivo, anche se scorrendo la lista dei collaboratori si scopre che i contributi esterni sono piuttosto importanti. Ciò che conta è la bellezza dello scorrere di questo digipack dal forte impatto visivo, assemblato dall'americana Scissor Tail. Un inverno avvolgente, a cui abbandonarsi, ma attenzione non monocromatico; ci si può trovare l'estasi concreta dei Pan American, la navigazione notturna incerta di Elegi, gli stillicidi pianistici di Library Tapes, e tanto altro ancora. E non basta un'ascolto, chiaro.

mercoledì 11 gennaio 2017

Brainiac ‎– Bonsai Superstar (1994)

Giustamente omaggiati, nello scorso numero estivo, di un'estensiva monografia su Blow Up in occasione del ventennale del loro ultimo maggiore. Leggendolo, stupisce quanti musicisti di una certa fama hanno tributato loro rispetto ed ammirazione. Ed io con questo completo il trittico di albums che la grande band di Tim Taylor pubblicò in vita. Bonsai fu la rivelazione; dopo il primo, brillantemente sospeso fra diversi stili, la chitarrista Bodine abbandonò ed il suo sostituto Schmersal non potè essere acquisto più azzeccato, adattissimo ad impersonare il suono sempre più arzigogolato e compulsivo che fruttò queste 13 tracce in maggior parte concitate e caotiche, che certamente potevano far intuire le influenze primarie del gruppo (Pere Ubu, il Capitano, i Devo) ma rivelavano al mondo una band destinata a fare grandi cose. Come al solito, un grande Taylor a trascinare, perfetto e funzionale il trio dietro. Chissà che spettacolo erano dal vivo.

lunedì 9 gennaio 2017

Lake Of Dracula ‎– Lake Of Dracula (1997)

Progetto estemporaneo (solo questo omonimo ed un live postumo pubblicato una decina d'anni dopo) di Weasel Walter, qui dedito ad una chitarra spigolosa e dirompente, affiancanto dal cantante Magas (un monotono beffardo) e dalla batterista Melowic (minimale e sincopata). Nell'autentico segno della Skingraft che produceva, Lake of dracula fu un disco esaltante nonostante l'evidente provvisorietà della situazione, fatto di un art-noise-punk catastrofico ma a modo suo persino cabarettistico (qui sta la chiamata in causa anche dell'influenza del Capitano), con 16 pezzi tutti piuttosto brevi che si rincorrono come schegge acuminate in un campo minato.
Altrimenti detta no-wave.

sabato 7 gennaio 2017

Dead Can Dance ‎– Spleen And Ideal (1985)

Capitolo di transizione eppure così riuscito da esser generalmente definito l'apice dei DCD, Spleen and ideal si muove agile ed incontrastato fra le scorie residue della dark-wave di cui era intriso il debutto e le future inflessioni medioevali, barocche, etniche e quant'altro. L'equilibrio è mirabile: le tracce più ombrose, solitamente cantate da Perry, offrono ancora ritmiche sostenute ed arrangiamenti sofisticati (discreto ma capitale l'utilizzo dei fiati). La Gerrard, sirena incantatrice, si districava fra le ossessioni goticheggianti ma risaltava di più nei mantra mistici ed eterei che, tutto sommato, sono le perle del disco.
Ad ulteriore affrancamento da qualsiasi genere, a somma pietra miliare della carriera contrastata di questo gruppo unico al mondo.

giovedì 5 gennaio 2017

Warhammer 48k ‎– An Ethereal Oracle (2006)

Quartetto del Missouri che realizzò 3 dischi a metà anni Zero e poi si sciolse, con metà dei componenti che andarono a formare i neo-freaks Cave. Non molto facile intravedere una linea di congiunzione, dato che i W48K erano dediti ad un crossover folle ed intasato di citazioni.
La componente psichedelica aveva la percentuale maggiore, ma in An Ethereal Oracle c'era veramente di tutto: cavalcate di radice new-wave, tamarrate alternative in pieno stile 90's, schitarrate stoner, fughe tribali, angoli acuti di noise-rock. Un disco senz'altro originale, nonostante follemente eterogeneo. Una band che avrebbe meritato più esposizione.

martedì 3 gennaio 2017

Scream From The List 54 - Tolerance ‎– Anonym (1979)

La dedica sulle note del vinile recita to the quiet men from a tiny girl, ovvero il titolo del secondo album di NWW, uscito nel 1980. Eppure le similitudini finiscono qui; Anonym, il debutto di questo duo nipponico (bissato soltanto da un secondo nel 1981 e poi più nulla), è un disco fantasma.
Una di quelle mosche bianche che solo sulla List si possono trovare, o che soltanto dal Sol Levante potevano fare capolino. Yoshikawa, chitarra. La Yunko, piano, synth, beat box, voce spiritata. Con molte probabilità non-musicisti, creatori di ambientazioni scarnissime, sinistre, stordite, come magistralmente descritte da Vlad piano bar per alienati in stato di sedazione. L'inevitabile naivetè unita alle allucinazioni più inquietanti della library più oscura, per dirne una. Un disco assurdo che cozza contro qualsiasi convenzione, che non anticipa nulla (tutt'al più il primo Blues Control è l'unico che mi viene in mente, ma solo come vaga similitudine in alcune tracce) perchè non replicabile in nessun modo. Da maneggiare con molta cautela.

domenica 1 gennaio 2017

Pan•American ‎– The River Made No Sound (2002)

Riconoscibili a scatola chiusa fra mille altri artisti anche soltanto tangenti le sue aree, i dischi di Mark Nelson sono quasi sempre stati una certezza. In particolar modo quelli del decennio Zero, come questo quarto ed il successivo che con ogni probabilità è stato il suo capolavoro. Rispetto ad esso, The river made no sound era più imperniato sui ritmi, sia che fossero ben udibili (ed in alcuni casi anche abbastanza spediti), che fossero ridotti a glitches esangui, sia che fossero immaginari e rimasti sepolti in qualche traccia del mixer o nella testa di Nelson. Per il resto, è il piano elettrico a farla da padrone come strumento guida delle composizioni vaporose ed affascinanti, che trasmettono relax e favoriscono la stimolazione cerebrale come quasi nessun'artista elettronico ha mai saputo fare.