lunedì 31 luglio 2017

Arab Strap - Live in Covo, Bologna, 29-07-2017

Appuntamento con la nostalgia, venerdì scorso, al Covo. A 11 anni di distanza da quando, in un Estragon semivuoto, gli AS salutarono col farewell tour, rivedo per la quarta volta uno dei gruppi che in assoluto ho amato di più nella mia vita. Occasione inaspettata ma non troppo, vista la reunion dell'Ottobre scorso in patria che evidentemente ha fruttato risultati positivi per incoraggiarli ad imbarcarsi verso il Continente. Invero, la location bolognese non è delle più esclusive, ma bisogna fare i conti col presente: altro che i palchi giganteschi dell'Estragon o di Urbino, il cortile del Casalone ritaglia per loro una dimensione decisamente raccolta, quasi casereccia. Il pubblico, non più di 250/300 persone, è comunque di quello storico, di un età media direi intorno ai 35; i fedelissimi non li hanno certo dimenticati, e pazienza se non potevano esserci tutti....
Undici anni però che non sembrano passati, alla resa dei conti; il mondo nel frattempo è cambiato ma per loro resta tutto immutato. Persino la line-up sembra essere cambiata di poco; esclusi bassista e batterista, il pianista/secondo chitarrista giurerei essere lo stesso del 2006, raffinato ed elegante, mentre la rossa violinista dovrebbe essere una delle due epoca Monday at the Hug & Pint. Materiale nuovo non ce n'è, e l'ora e mezza di concerto è praticamente un greatest hits: discutibile quanto l'assemblaggio che la Chemikal ha rilasciato per la reunion. Una scaletta che non brilla certo per coraggio, affidandosi alle melodie più accattivanti del repertorio o comunque più collaudate.
Dal primo: The first big weekend, Blood
Da Philopohobia; Soaps, Here We Go, Piglet
Da The red thread: Scenery, Turbulence
Da Monday at the Hug & Pint: The Shy Retirer, Fucking Little Bastards,
Who Named The Days?
Da The Last Romance: Stink, Don't Ask me to dance, Speed Date
Extra-album: Girls of summer, Rocket take your turn
Nessun estratto, ahimè, da Elephant Shoe, un disco che amo ancora alla follia ma che evidentemente M&M hanno bocciato fin da quando uscì, l'unico su major, l'unico fuori da Chemikal. Ma al di là di quello, nessuna traccia oscura, di quelle strabordanti di spleen ed esistenzialismo; per fare qualche esempio, niente The devil tips, The long sea, Phone me tonight, Night before the funeral, Glue. Lo so che è un ragionamento egoistico, io rifletto da fan e questo concerto purtroppo mi lascia un po' l'amaro in bocca, mi ha dato l'idea di essere un po' troppo professionale e senza scossoni: Aidan non è mai stato così intonato e lucido, Malcolm non ha fatto nemmeno una stecca, gli accompagnatori sono stati infallibili; se analizziamo il concerto da questo punto di vista, nell'immediato ne sono stato entusiasta e trascinato, ma già tornando a casa realizzavo che quegli Arab Strap di un tempo, quelli un po' ubriachi, sbilenchi e precari non torneranno mai più.
Ma pensiamoci bene, non è forse la crescita in sè che porta il cambiamento e fa rinsavire, parzialmente o più? Sarebbe come ritrovare i vecchi amici e restare delusi perchè non si fanno più le cazzate di un tempo, perchè si ride di meno e si parla di argomenti che allora non ci avrebbero minimamente interessato. Padri di famiglia, schiavi di un lavoro, pensierati e responsabili.
In due parole filosofiche, la vita è così.
Ed allora, bentornati cari vecchi amici Arab Strap. Vi voglio bene, sempre.

domenica 30 luglio 2017

Scream From The List 61 - Pierre Henry ‎– Le Voyage - D'après Le Livre Des Morts Tibétain (1967)

Il master francese dell'elettro-acustica-concreta in una delle sue opere più rinomate, ispirato dal buddismo tibetano anche se non si direbbe. Una vita dedicata alla ricerca, quella del parigino, che continua addirittura in tempi recenti; ormai novantenne, il suo ultimo disco è datato Gennaio 2016.
Non essendo intenditore del filone di cui la Francia fu autorevolissima esponente, non posso lanciarmi in discorsi analitici: mi limito a citare quanto riportato da Vlad e a rimarcare l'enorme influenza su NWW in termini più rumoristici. D'altra parte, Le Voyage è un folle assortimento di feedbacks, spirali, bubboni, tonfi, clangori, power electronics che non può far altro che annichilire l'ascoltatore e lasciarlo senza parole.

venerdì 28 luglio 2017

Massacre – Funny Valentine (1998)

Secondo ed ultimo disco in studio del piro-trio di Frith e Laswell, in reunion a 17 anni di distanza da quel fulminante primo. A differenza di esso, alla batteria i due maestri invitarono a sedersi Hayward dei grandi This Heat, a rimarcare il fatto che Massacre era in sostanza un supergruppo estemporaneo. Ed infatti Funny Valentine è stato un assemblaggio di improvvisazioni, dai suoni più dilatati, dai ritmi fratturati, dalle aperture diverse; il basso di Laswell ricorre spesso ad effetti psichedelici, Frith tritura i suoi pick-ups senza pietà, Hayward svolazza e costipa alla grande. 17 anni erano passati e richiedere un'altro Killing Time sarebbe stato fuori luogo; per chi ama questi musicisti, comunque, è una goduria tecnica.

mercoledì 26 luglio 2017

Cut Hands ‎– Black Mamba (2012)

Smessi (finalmente, avrà pensato più di qualcuno) i panni di terrorista sonico a capo di Whitehouse, col sopraggiungere della mezza età William Bennett si è reinventato con un nuovo progetto, il cui monicker non sembrerebbe molto rassicurante. In realtà Cut Hands rivela uno scenario che forse nessuno avrebbe previsto, un suono fortemente percussivo e mutuato dalla tradizione tribale africana, anche se è evidente che si tratta di suoni del tutto sintetici. Quindi non qualcosa alla Z'ev, ma neanche uno squallido furto world. In Black Mamba Bennett ha la cura e la sapienza di alternare le tracce più spoglie, ovvero quelle fatte di sole percussioni, ad interessanti varianti ambient-drone-minimalistiche che spezzano il ritmo. Il giudizio finale è buono, anche se rischia di essere amplificato per l'effetto, diciamo, sorpresa.

lunedì 24 luglio 2017

Deep Freeze Mice ‎– The Tender Yellow Ponies Of Insomnia (1989)

Ricordo pochissime bands che attraversarono gli anni '80 senza farne assolutamente parte. I DFM, provenienti dall'ora popolare Leicester, chiusero la loro esistenza con quest'ultimo disco nel 1989, a 10 anni esatti di distanza da quello sgangherato debutto che aveva permesso loro di entrare nella NWW List. Il motivo per cui il quartetto se ne stette bel bello impermeabile ad ogni scempio produttivo di quella decade, come fosse sotto una specie di campana di vetro, era semplice: autoproduzione, sempre e comunque. Chissà se furono mai contattati da qualche etichetta, indie o major che fosse; ed in tal caso, chissà come argomentarono la loro scelta di restare totalmente liberi.
In quel decennio, la loro musica non cambiò praticamente mai; art-pop-wave di derivazione sixties ma traslata attraverso l'Inghilterra dell'epoca Tatcher, dai connotati sempre molto naif. Semmai, l'unico aspetto che era cambiato era che il gruppo, a forza di suonare e registrare, era tecnicamente migliorato; il cantante/chitarrista Jenkins aveva sviluppato uno stile appuntito ed espressivo, a tratti quasi surf. La sezione ritmica era coesa e dinamica (era cambiato il batterista, nel frattempo, ed era molto migliore del fondatore). L'organista Lawrence, qui impegnata anche saltuariamente con un canto fragile ed incerto, disegnava linee semplici e funzionali col Farfisa.
Per effetto di ciò, persino il songwriting era più ispirato, con le stesse canzoni frizzanti e surreali, mai stucchevoli; un dada-pop all'apparenza semplice e leggero ma con una sua cifra stilistica immediatamente riconoscibile. 
La ristampa in cd di The Tender Yellow Ponies of insomnia, effettuata sempre da loro nel 2010, contiene un bonus-collage di mezz'ora, The Delicious Little Green Roosters Of Insomnia, dalla concezione simile a The Octagonal Rabbit Surplus su My Genaniums are bulletproof, meno sperimentale e più psichedelico. Nelle note di copertina, con squisito humour britannico, viene spiegato che è stato assemblato al termine di una lunga e dolorosa caccia al tesoro...

sabato 22 luglio 2017

Great Saunites ‎– Nero (2016)

A 5 anni di distanza dal bell'esordio Delay Jesus, i GS sono passati attraverso un secondo un po' interlocutorio e progetti collaterali tutto sommato trascurabili per concentrare le risorse in questo terzo Nero. A suo tempo li avevo immaginati come la versione mediterranea degli Om; oggi il power-duo cerca e trova una progressione rassicurante, anche se di poco al di sotto del valore espresso allora. Al posto del suono desertico e polveroso del debutto ora hanno una visione più nitida, validata anche da una produzione impeccabile e volta a puntare le luci sul basso di Atros.
Solo 3 pezzi in scaletta, di cui la title-track si dilunga per 19 minuti; meglio le altre due, più stringate e lucide. Continuano a sfiorare l'IOP, ma se ne guardano da farne parte; al prossimo passo mi aspetto delle novità.

giovedì 20 luglio 2017

Elevate - Singles & EPs 1993-1997

Chiudo il discorso sui pupilli di Robin Proper Sheppard, dopo averne già scritto abbondantemente riguardo ai due album, con i singoli e gli EPs pubblicati non soltanto su Flower Shop Recordings, ma anche su un paio di micro-labels dalla vita altrettanto breve ed il primo autoprodotto. All'appello mancano un paio di titoli, il 7" Slowspeed to harbour e l'EP Exhibit 4, introvabili.
Magic Spill, il 10" di esordio del 1993, vedeva un gruppo ancora incerto sul da farsi, sia sul materiale (poco dinamico e troppo debitore dall'oltreoceano) che sul suono (impastato e rallentato). Poco male, ci pensò RPS a crederci e a consegnare loro il primo 7" della FSR, con l'ultrainfiammabile e morbosa Judas. Sul retro l'ossessione fangosa di Red (ricordo una recensione entusiastica di Badino su Rockerilla!). Sempre nel 1994 un altro 7" split coi cugini Ligament; gli Elevate spiattellano una versione di 2 days out of 5, che comparirà dopo due anni su The Architect, però registrata meglio. Nel 1995 è la volta di Two stray insight, saltellante e tutto sommato accessibile, sul retro la dirompente Splintered Spine già comparsa su Bronzee. 
Infine, nel 1997 la fine con uno strano EP, Interior, che in teoria doveva essere il biglietto da visita per gli USA ma invece si rivelò essere il canto del cigno, vista anche la scomparsa della label coinvolta. Vi comparivano due highlights da The Architect, un'estratto da Bronzee e tre inediti, due dei quali contrassegnati da un'interessantissima deriva slow-core. Invece capolinea fu: Miles ed Elkington collaboreranno con RPS nei primi Sophia e May Queens, e solo il secondo continua tutt'oggi a suonare con vecchie glorie dell'alternative americano come Brokeback, Eleventh Dream Day e Freakwater.

martedì 18 luglio 2017

One More Grain ‎– Isle Of Grain (2008)

Band inglese molto originale e dalla storia curiosa: due album ravvicinati nel decennio scorso e poi la migrazione del leader in Indonesia, ponendo la parola fine alla breve esistenza. La formula del quartetto vedeva di primo acchito lo spoken word del suddetto Quinn, per accento e cadenza molto molto simile a Mark E. Smith, ma dando un orecchio all'insieme era chiaro che si trattava solo di un dettaglio non dominante; il dispiegamento di sax e clarinetti e la sezione ritmica incessante e fluida, col basso in evidenza, rendono Isle of grain un flusso fresco e gradevole fra post-rock, dub bianchissimo e residuati jazzy dal basso profilo. Ed allora, sopra tutto questo contesto dai pezzi di durata contenuta, i discorsi cockney di Quinn diventano il valore aggiunto di un insieme che forse non può durare una vita, ma che lascia una bella testimonianza. Il gruppo si è riformato un paio d'anni fa ma ancora non ho ascoltato le nuove produzioni.

domenica 16 luglio 2017

Residents ‎– Eskimo (1979)

In opposizione alla scellerata prolificità con cui criminalmente i Residents continuano a rilasciare dischi persino oggi, la gestazione di Eskimo è paradigmatica; ci misero ben 3 anni per portare a termine un'opera d'avanguardia che, se non è la migliore in assoluto del loro primo repertorio, di sicuro fu la prima del tutto priva di quell'ironia e di quella tragicomicità di cui trasudavano i precedenti.
La ben celebre tematica del disco sta nel documentario sugli eschimesi e sulle loro usanze, traslato nella tipica ottica astrusa e cartoonesca. Soltanto più di 20 anni dopo i Residents resero giustizia all'estrema cinematicità dell'opera pubblicando un dvd di slideshow e sottotitoli didascalici delle storie collegate ad ognuno dei pezzi. Quanto al contenuto, è una fenomenale formula di avant-weird-etnica irripetibile, irriproducibile, l'arte ed il fulmine della loro sapiente e consapevole follia. Un monumento antropologico al quale sarebbe dovuto seguire lo scioglimento, la parola missione compiuta, un labirinto che necessita di una moltitudine di ascolti per essere assimilato nella sua interezza. L'avvertenza di copertina recitava che Eskimo va ascoltato con vestiti pesanti o una coperta addosso. Total freezing cerebrale.

venerdì 14 luglio 2017

Hostsonaten ‎– Symphony N. 1 : Cupid & Psyche (2016)

Ho sempre diffidato in maniera drastica del neo-prog fin dai primi anni '90, in cui mi capitò un'esperienza alquanto deludente: mi capitò sottomano un cd dei torinesi Calliope, Città di Frontiera, e lo trovai talmente brutto da rigettare qualsiasi esempio di questo calligrafico filone.
Non so praticamente nulla di Fabio Zuffanti, che viene sbandierato come il prog-master italico per eccellenza da oltre 20 anni. Ad ascoltare uno dei suoi ultimi progetti mi ha convinto un'appassionata recensione di Pardo su Blow Up, e devo dire che è andata bene: Symphony n. 1 è imbevuto di seventies fino al midollo, ma è registrato benissimo ed evita cadute di stile o di gusto, risultanto un prodotto di pura nostalgia, ma talmente onesto e privo di vanagloria. Zuffanti e l'altra metà del progetto, il pianista Scherani, hanno costruito un concept strumentale dinamico, pieno di colpi di scena come da rigore e riccamente orchestrato, con grande spazio ai fiati. Un po' Art Bears e un po' King Crimson altezza Lizard, è un disco che si lascia ascoltare con piacere, a condizione di non aspettarsi nient'altro.

mercoledì 12 luglio 2017

Soft Machine ‎– Fourth (1971)

L'artwork interno qui raffigurato sembra quasi una metafora della situazione in seno ai SM al momento della pubblicazione del quarto: sulla destra un Ratledge che giganteggia, braccia conserte, aria da capo nonostante una frangia improbabile. Sulla sinistra l'impassibile Hopper, che sembra pensare so il fatto mio e lo dimostro, e Dean, che guarda altrove con aria assente. Al centro, arretrato, un Wyatt piccolo piccolo, impacciato e a disagio, con aria quasi clericale, e con le mani in mano.
Fino ad allora tutti i dischi dei Soft Machine erano stati molto diversi fra loro, al punto che sembrava una band in perenne transizione. Fourth fu in qualche modo la pietra tombale del primo, gloriosissimo lustro. Il cattivone Ratledge, dopo avergli tarpato le ali impedendogli di contribuire creativamente, cacciò il nostro beniamino Bob, fresco fresco di End Of An Ear. Così Fourth rappresentò il suo addio alla Macchina; ascoltandolo in quello che credo sia l'unico disco in cui non apre bocca, possiamo tuttavia concentrarci sulle sue doti di batterista e concludere un'altra volta che, se ce n'era bisogno, era un grande anche alle pelli e lasciava il segno anche da gregario.
Per la cronaca, Fourth è un altro classico del jazz-rock algido ed oscuro che già aveva sfondato su Third, concentrato su minutaggi più ridotti. E' dominato da Hopper, che firma un 3/4 del lotto, in particolare con la lunga Virtually, una replica in toni meno apocalittici di Facelift ma quasi altrettanto affascinante. Eccellente, a prescindere.

lunedì 10 luglio 2017

Windhand ‎– Soma (2013)

Quasi contemporaneo al bellissimo split con i Cough, il secondo album del quintetto di Richmond, che li conferma fra i campioni attuali del doom-metal. Come già constatai per il sopracitato, in un genere pressochè impossibile da innovare come questo può bastare anche solo una peculiarità per far drizzare le orecchie; nel caso dei Windhand, è la voce femminile di Dorthia, algida e quasi impassibile, priva di qualsiasi orpello se non qualche raddoppio in qua e in là, a starsene in piedi per miracolo come un fuscello isolato in mezzo ad una tempesta. Perchè sostanzialmente, Soma è un campionario di doom-metal asciutto, essenziale e granitico che forse non farà la storia, bensì ne rappresenta la sopravvivenza stessa ai giorni nostri.

sabato 8 luglio 2017

Throbbing Gristle ‎– Heathen Earth (1980)

Registrazione di un live privato in studio nel febbraio del 1980. I TG invitarono un'esiguo pubblico, filmarono l'avvenuto e misero su disco una delle loro prove più subliminali e meno violente. La mossa fu ben meditata, perchè segnava un chiaro marcatore del loro progressivo allontanarsi dalle muraglie di rumore bianco verso un elettronica puntuta e tagliente. Il termine della missione era vicino ma sapevano ancora offrire sprazzi di minacciosità e paraventi di allucinazione. 
Per un'entità che dal vivo era solita rovesciare sul pubblico la maggior quantità possibile di violenza, l'uscita di un live meno aggressivo fu un gesto di rottura. L'ennesimo.

giovedì 6 luglio 2017

Hermetic Brotherhood of Lux-or - Ethnographies Vol. 2 (2012)

Collettivo sardo attivo già da una decina d'anni, con discreto anticipo della piccola ma notevole ondata della IOP. La filosofia dei loro dischi si porta dietro concettualità legate all'antropologia, alla storia ed all'esoterismo. Ethnographies Vol. 2 è un estenuante (nel senso positivo, s'intende) tour de force diviso in due parti abbastanza distinte: la prima, fatta di circospezioni di psichedelia etnico-desertica nello stile più o meno generalistico della IOP, con punte come Gravity Sucks e Orbitronio. La seconda, inaspettatamente, ci sputa addosso un furioso industrial-cyber-punk (riferimento principale gli Shit And Shine di Ladybird, ma lo spettro dei Ministry è dietro l'angolo) che annichilisce le atmosfere precedenti. Il disco si chiude con i 34 minuti di Yellow Avaritia, per sirene e pulviscolo dronico. La dispersione eccessiva è il suo difetto, ma è un lavoro che colpisce diretto allo stomaco.

martedì 4 luglio 2017

Ferdinand Richard ‎– En Forme !! (1981)

Il bassista degli Etron Fou Le Loublan al debutto solista, con un lavoro decisamente più melodico ma non per questo facile come si è sempre convenuto agli esponenti del RIO, persino negli anni ottanta. Il brillante concetto dietro En Forme!! è quello di suonare linee sempre arzigogolate ma smussate delle asperità del gruppo madre, in un substrato art-punk-wave stranito, suonato con foga ed evidente sense of humour. FR suona basso e chitarra, canta beffardo e sprezzante, coadiuvato da un batterista e più sporadicamente da un sassofonista ed un pianista, tanto per dare un po' di colore ad un disco molto teatrale, vista anche la presenza di un pugno di vignette di estrazione squisitamente vaudeville. Nonostante la disomogeneità, a più riprese En Forme!! rivelava un'autore molto originale e divertente; ed in ogni caso, i pezzi pseudo-punk sono quasi tutti irresistibili.

domenica 2 luglio 2017

USA Is A Monster ‎– Lost And Found (2012)

Pietra tombale posta sulla carriera del grandissimo power-duo, uscita soltanto su cassetta e su Bandcamp. Come scrive Colin Langenus nelle note di presentazione, gli sembrava doveroso recuperare queste 14 frattaglie (di cui una manciata registrate per compilation mai uscite), svuotare i cassetti del repertorio più oscuro del Mostro. Ovviamente è un prodotto riservato ai fans di stretta osservanza, che tuttavia copre un ottimo spettro dei vari stili messi in luce durante l'esistenza; quindi art-noise ultra-compatto, schegge enfatiche, ballads elettrificate sbilenche e dispari, canti pellerossa e complessità synth-derivanti dell'ultimo periodo. Qualche cosa è all'altezza dei dischi storici, qualche altro no.
Forse la loro missione è terminata al momento giusto, forse no. Io continuo a rimpiangerli.