mercoledì 12 luglio 2017

Soft Machine ‎– Fourth (1971)

L'artwork interno qui raffigurato sembra quasi una metafora della situazione in seno ai SM al momento della pubblicazione del quarto: sulla destra un Ratledge che giganteggia, braccia conserte, aria da capo nonostante una frangia improbabile. Sulla sinistra l'impassibile Hopper, che sembra pensare so il fatto mio e lo dimostro, e Dean, che guarda altrove con aria assente. Al centro, arretrato, un Wyatt piccolo piccolo, impacciato e a disagio, con aria quasi clericale, e con le mani in mano.
Fino ad allora tutti i dischi dei Soft Machine erano stati molto diversi fra loro, al punto che sembrava una band in perenne transizione. Fourth fu in qualche modo la pietra tombale del primo, gloriosissimo lustro. Il cattivone Ratledge, dopo avergli tarpato le ali impedendogli di contribuire creativamente, cacciò il nostro beniamino Bob, fresco fresco di End Of An Ear. Così Fourth rappresentò il suo addio alla Macchina; ascoltandolo in quello che credo sia l'unico disco in cui non apre bocca, possiamo tuttavia concentrarci sulle sue doti di batterista e concludere un'altra volta che, se ce n'era bisogno, era un grande anche alle pelli e lasciava il segno anche da gregario.
Per la cronaca, Fourth è un altro classico del jazz-rock algido ed oscuro che già aveva sfondato su Third, concentrato su minutaggi più ridotti. E' dominato da Hopper, che firma un 3/4 del lotto, in particolare con la lunga Virtually, una replica in toni meno apocalittici di Facelift ma quasi altrettanto affascinante. Eccellente, a prescindere.

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