mercoledì 29 novembre 2017

Bachi Da Pietra ‎– Necroide (2015)

E giù la maschera, dopo lo shock iniziale di Quintale, che pur già si era rivelato sorprendente. Non mi aspettavo sinceramente che i BDP si inoltrassero con ancor più cattiveria in quella direzione, ma in un certo senso la ritenevo pertinente. Esplorata a fondo la loro personale via dei primi, irrinunciabili dischi, Succi e Dorella hanno spinto a tavoletta il pedale del metallo rovente, riuscendo però ad evitare una pericolosa autoreferenzialità che tendeva ad affiorare, soprattutto in Quarzo. Anzi, io in Necroide ci trovo persino dell'ironia, non limitabile solo ad un titolo come Slayer & The Family Stone. Il growl che Succi sfodera, ad esempio, o ancor di più il vocoder in Apocalinsect, non possono che far generare un sorriso ed un apprezzamento per come si siano reinventati. Una lezione di vita per tanti gruppi, non solo italiani: ci vuole del coraggio, a status critico ben acquisito (non tanto per Dorella, già familiare a cruditè del genere, quanto per un artista come Succi), a mettersi in gioco in questo modo.

lunedì 27 novembre 2017

Scream From The List 65 - James White & The Blacks ‎– Off White (1979)

Spettacolare parallelo del più famoso Buy dei Contortions, uscito nello stesso anno ma a mio avviso inferiore a Off White. Non a caso i Blacks saranno la formazione su cui White insisterà nei primi anni '80, mentre i Contortions avevano l'impeto storico di esser stati fra i fondatori della No-Wave della grande mela. Poco da dire; se Captain Beefheart fosse nato lì nei primi anni '50, avesse studiato il sax e fosse cresciuto col mito del soul e del funk sarebbe stato James White/Chance. Off white sposa le sue influenze con i suoni secchi e spigolosi della wave, con una formazione quadrata ma abilissima nel supportare le lucide follie del leader, in particolare col chitarrista Harris, un terrorista visionario. Altro che fuffa funk degli anni '00 e new wave della new wave della new wave. Tutto a pezzi, al cospetto di questa roba.

sabato 25 novembre 2017

GobbleHoof ‎– FreezerBurn (1992)

I Supreme Dicks non erano gli unici cuginetti sfigati dei Dinosaur Jr.; nella famiglia c'era pure questo quintetto a schieramento tipicamente hard-rock anni '80 (vocalist solista, coppia di chitarre) che non aveva di sicuro il talento di Dan & Co., ma se non altro aveva un potenziale commerciale enorme al tempo in cui pubblicò gli unici due dischi. La parentela con J Mascis era dovuta al fatto che il lungocrinito aveva suonato la batteria sul primo, omonimo dell'89. Freezerburn chiuse una breve carriera contraddistinta da tiepidi accoglimenti da parte di pubblico e critica, ma in realtà meritava di più. L'attitudine era quella dei Soundgarden, un crossover hard(rock)core tendente all'epico, ma anzichè schierare Robert Plant davanti ai Black Sabbath, i Gobblehoof ci mettevano un Nick Cave disturbato mentale con l'attenuante di essere stonato, tal Charlie Nakajiima. Fu esssenzialmente l'approccio psicotico del cantante a scombinare i piani dei grungers modaioli; strumentalmente il gruppo, produzione piatta a parte, sapeva anch'esso macinare schemi più o meno predefiniti con abbastanza personalità da non essere retrocessi fra gli stroncati dell'epoca. Il dimenticatoio, poi, è un'altra cosa.

giovedì 23 novembre 2017

Pissed Jeans ‎– Why Love Now (2017)

Ho pochi dubbi al riguardo che molto improbabilmente i PJ riusciranno a bissare i risultati dei primi due album, però sentirli tornare in buona forma oggi mi fa un enorme piacere perchè li avevo dati per persi. La Sub Pop continua ad investire su di loro, e per Why Love Now hanno scelto come produttrice Lydia Lunch (!); non ci si aspetti rivoluzioni copernicane, ma il risultato è un disco cazzuto, nerboruto e schioccante che si guarda sempre alle spalle verso l'eredità storica del noise-hardcore americano con rispetto e gratitudine.
Alla fine però ciò che resta più impresso sono un paio di tracce che invece potrebbero aprire un (piccolo, ma pur sempre) varco nello spettro dei PJ: The Bar Is Low e Love Without Emotion stabiliscono un parallelo con i Killing Joke più furiosi (ho sempre udito una somiglianza fra il cantante Korvette e Jaz Coleman, con le dovute differenze, ma qui è anche una questione di chitarre e ritmica) ed a mio parere si stagliano come le migliori del lotto. Staremo a vedere...

martedì 21 novembre 2017

Flavio Giurato ‎– Il Tuffatore (1982)

Artista romano che, dopo una lunghissima assenza dalla musica incisa, ha ottenuto una notevole visibilità nel 2015 quando si è aggiudicato un disco del mese su Blow Up con La scomparsa di Majorana, un buon album acustico con testi molto belli ma a mio avviso rappresentativo solo della fase anziana di Giurato, che a cavallo degli anni '80 invece si distinse come cantautore non allineato e detentore di una poetica tutta sua, sia per le musiche che per le liriche.
Di questo primo periodo, il migliore è senza alcun dubbio Il Tuffatore, un sublime assortimento di musica d'autore, un mix di eleganza e classicismo che raggiunge risultati superbi in Orbetello, Valterchiari e Marcia Nuziale. La dote maggiore di Giurato era un equilibrio che aveva del miracoloso: i testi, realisti del quotidiano e quasi mai surreali, originali per quanto non ermetici, ricorrenti all'ironia in distinti e marcati momenti; anni dopo, verrà tributato addirittura da un manipolo di scrittori che hanno scritto racconti ispirati al suo repertorio.
Quanto alle musiche, è supremo il bilanciamento fra dimessi momenti acustici e strappi ritmati, orchestrati da abili turnisti che interpretano alla perfezione il dna dell'autore (fra cui il sassofonista Collins, turnista di rilevanza mondiale ed ex-King Crimson). Pochi e misurati virtuosismi, focus estremo sulle composizioni ed alle sue storie disincantate. Non replicabile in nessun modo.

domenica 19 novembre 2017

Wives – Erect The Youth Problem (2004)

Prima di varare i No Age, Randall e Spunt erano in questo power-trio col batterista Villalobos (futuro Drunkdriver). Per loro, una manciata di split e quest'unico album; ho apprezzato molto i primi dischi del duo, ma oggi, scoprendo Erect the youth problem, col senno di poi difficilmente mi tornerà la voglia di riascoltare Nouns, figuriamoci i successivi.
Questo perchè è stato un peccato mortale che i Wives abbiano finito la loro corsa dopo così poco, dopo un disco così fulminante, fragoroso ed elastico. Formato da 14 tracce tutte piuttosto brevi, Erect trae la sua ispirazione diretta dall'antico hardcore evoluto di Black Flag ed affini di casa SST e lo trasporta nell'epoca del post-noise-rock, con un energia indomabile e soluzioni ritmiche quasi math, trascinato dalla performance superlativa di Villalobos. 
Satanassi.

venerdì 17 novembre 2017

Aburadako - 1985 (Tree or wood)

Dopo i grezzi furori punk degli esordi, il primo album vero e proprio del Polipo Untuoso, un capolavoro di art-hardcore contorto ed articolato, in grado di elevare quello classico dei Dead Kennedys ad una forma superiore, complice anche la notevole tecnica strumentale (in formazione c'era il batterista Tetsuya, che qualche anno dopo travalicherà i confini alla testa dei Ruins). Un martellamento schizofrenico, ma ricco di break intelligenti e trovate variegate; da segnalare anche la produzione, infinitamente migliore della media di quegli anni, in un certo senso persino lungimirante; ad ascoltarlo a scatola chiusa si direbbe un disco dei primi anni '90. Hasegawa rules!

mercoledì 15 novembre 2017

Mako Sica ‎– Essence (2012)

Destinati ai sotterranei più bui vita natural durante, i Mako Sica persistono nella loro formula, persi in un cunicolo impro senza speranza. Vinili in edizione da 100/200 copie e audio-cassette sono il  mezzo per diffondere l'attività live, sporadica ma costante negli anni. Dopo lo splendido Dual Horizon, questo Essence persevera anche il formato, 3 lunghissime tracce strutturate in un flusso continuo, un po' più sbilanciato sulla psichedelia (in certi tratti si materializza persino il fantasma dei Floyd di Ummagumma, complice anche l'estatico fonetismo di Fuscaldo), ma con alcune interessanti parti di tromba di Drazek a diversificare le ambientazioni espanse, sinistre, labirintiche. Only for fans, vista la formula che ha limiti strutturali evidenti. Da segnalare che nel '15 il batterista Kendrick non fa più parte del progetto, ed è stato rimpiazzato. Confido in novità.

lunedì 13 novembre 2017

Enzo Carella ‎– Vocazione (1977)

E' venuto a mancare il Febbraio scorso, il buon Carella. E' stata un'anomalia del pop italiano, un'outsider che non ha ricevuto giustizia dal mercato, uno di quelli che all'alba degli anni '80 si è eclissato e non ha partecipato alla festa. Per il quarantennale del suo debutto Vocazione ha lasciato questo mondo difficile, ma non fu solo il suo primo passo: fu il primo disco in cui il sommo Pasquale Panella, fino ad allora dedito al teatro, mise giù liriche.
Un sodalizio che si sarebbe mantenuto indissolubile fino all'ultimo, vista l'ammirazione sconfinata del Poeta nei confronti di Carella, da lui definito un personaggio contro i meccanismi del mercato e quindi più meritevole del suo contributo.
A livello musicale Vocazione era pop, sostanzialmente easy listening, ricco di quella qualità che negli anni '70 in Italia scorreva a fiumi, ma col surplus delle liriche che rappresentavano una novità assoluta; Panella sfoderava già le sue metafore alimentari ed i suoi giochi di parole, ma anche un erotismo ormonale che difficilmente avrebbe ripetuto in futuro, complice forse anche la giovane età all'epoca.  Carella portava una ventata di freschezza anche dal punto di vista musicale, con un suono sanguigno, ammiccante spesso al funk con un bel bassone in primo piano, ma con parti chitarristiche interessanti (a cura dello stesso) e vario quanto basta per essere divertente e naif. 
Memorabili Malamore e Il Sud è un'infanzia sudata.

sabato 11 novembre 2017

Mark Eitzel ‎– Hey Mr Ferryman (2017)

E' una grande soddisfazione per noi Eitzeliani duri e puri vederlo uscire di nuovo da solista su una grossa indie, dopo 15 anni di piccole tirature e semi-autoproduzioni. Certo, non avrebbe fatto differenza per chi continua ad amarlo senza riserve nella sua infinita umiltà e poetica, ma Hey Mr. Ferryman e la sua veste arricchita fa tornare in mente la maledetta riflessione chissà che qualcuno non se ne accorga, meglio tardi che mai.
Se succederà, bene. Se come al solito il mondo continuerà a girare le spalle al best singer you've never heard of, sarà soltanto un'altro capitolo di gloria, con la produzione sontuosa ma oculata di Bernard Butler, che infonde una profonda vena sinfonica alle 13 tracce; cascate di archi, contro-cori a profusione, assoli brucianti di elettrica, e quant'altro. Produzione che ha esaltato il nostro al punto di voler includere due estratti riveduti dal carbonaro Glory (Last ten  years e The Road), che in verità non sono i migliori del lotto ma rispettiamo la scelta di volerli mettere in evidenza.
Poco da dire, Hey Mr Ferryman è commovente, strappacuori ed ultra-lirico come lo vogliamo noi. All'avvicinarsi dei 60 anni Mark è sempre lui, come cita una delle migliori In my role as professional singer, auto-ironico, autocritico e con nessuna prospettiva se non quella di continuare a fare ciò che gli riesce meglio: emozionarci senza limiti.

giovedì 9 novembre 2017

Harmonia ‎– Deluxe (1975)

Secondo ed ultimo album di quest'entità provvisoria, che però ha lasciato un gran bel testamento. Strane storie kraute: ad inizio 1975 Michael Rother si trova, suo malgrado, impegnato ad esaurire gli obblighi contrattuali dei Neu!, andando a registrare Neu! 75 con un Klaus Dinger profondamente cambiato nei due anni precedenti. Con grande onestà, il chitarrista ha raccontato che, se non ci fosse stata questa scadenza, forse quel capolavoro non avrebbe MAI visto la luce, dato che l'ormai ex-compare aveva il fortissimo desiderio e la determinazione di scalare posizioni e diventare frontman, con la testa forse proiettato già ai La Dusseldorf. Difficile avere a che fare con lui...
Cerchiamo di immaginare cosa sarebbe successo senza la pietra miliare dei Neu!. Non oso pensarci. Rother ne parla come di un disco diviso in due, sua la facciata A e di Dinger la dinamitarda B. Chiusi i battenti di quella esperienza epocale, se ne torna da Mobius e Rodelius determinato a convincerli di fare un disco più legato alle melodie ed alla forma canzone. Il debutto era in effetti sembrata più una questione dei due Cluster con Rother accodato, Deluxe sposta leggermente l'asse e vede un maggior equilibrio, quantomeno nella side A; venne invitato il batterista dei Guru Guru, seppur in larga parte in veste contenuta a fare tappeti percussivi puramente funzionali. Ci sono persino delle brevi parti cantate. E' tutto molto giocoso, aereo ed atmosferico; come il precedente, non verrà mai ricordato come un caposaldo germanico, ma neanche sminuito. Basta una bomba lanciata alla posizione numero 3 per concretizzare un punto di riferimento: Monza (Rauf und Runter), una specie di risposta al Dinger di Hero e After Eight, come a dire: hey fratello, hai creato della bella roba, ma se voglio la posso fare anche io, e come chitarrista ti straccio sempre...

martedì 7 novembre 2017

Maquiladora ‎– Ritual Of Hearts (2002)

Terzo album del trio californiano, il loro primo vero capolavoro di alt-psych-country fantasmatico. Pochi, pochissimi come loro hanno saputo re-interpretare le radici americane con una visione così aperta ed illuminata, richiamando nomi illustri senza copiarne l'essenza. Un percorso che, con tempi dilatati contrassegnati dall'abbandono ad altri progetti, li ha portati all'essenziale Wirikuta, condensato sempre più sublime della loro arte.
Velvet Underground, Galaxie 500, Black Heart Procession, Rex sono le prime sensazioni che si colgono all'ascolto, ed un po' ovunque aleggia il sacro spirito lisergico che ammanta le loro pigre, dolenti ed indolenti composizioni. E da rimarcare c'è anche la produzione, che sa essere pulita nei momenti più nitidi ed espansa quando occorre. 
Il cuore ed i suoi rituali.

domenica 5 novembre 2017

Gino D'Eliso ‎– Il Mare (1976)

Dimenticato cantautore facente parte di quella generazione che, se avesse voluto, avrebbe fatto una carrettata di soldi vendendosi al sistema degli anni '80. Lui invece si ritirò dalle scene, dopo una breve carriera contrassegnata dalla mutevolezza. Appena un anno dopo il debutto, il friulano aveva cambiato etichetta, look e totalmente musica, diventando uno dei discepoli del rock-wave di stampo bowie-mitteleuropeo, anticipando di un anno il conterraneo Fausto Rossi.
Una metamorfosi che ha quasi del clamoroso, considerando lo stampo di Il Mare, un disco di cantautorato prog-mediterraneo di ottima fattura. Lo definirei una specie di cuginetto minore del kolossal Anima Latina; uscito per la Numero Uno, fu prodotto da Claudio Pascoli (che stando a quanto raccontano i libri, ne era stato un fondamentale artefice nella costruzione degli arrangiamenti, e non solo fiatistici!) che evidentemente folgorato da quell'esperienza trasferì una parte del suo bagaglio in studio: i suoi delicati svolazzi di flauto e sax; le parti di moog e synth atmosferici, da lui stesso eseguite, così importanti nelle fasi pastorali; la cura attentisisma sulla ritmica, col bassista Donnarumma, possessore di uno stile affine al grande Bob Callero, in evidenza; il largo spazio riservato alle sezioni strumentali, nonostante la relativa semplicità delle strutture.
Il materiale, ovviamente, è scevro delle avanguardie, delle commistioni etniche e delle trovate immortali di Anima Latina, ma dopo 40 anni può funzionare come ottimo palliativo per i tossici di esso (come me) che si chiedono ancora se in quegli anni sia mai stato prodotto qualcosa  che si possa anche solo lontanamente avvicinare. La voce esile di Gino potrà piacere o non piacere, ma almeno una metà della scaletta è incantevole: Il Mare, Non è solo musica, Carso (nonostante un bridge rubato di peso a In the court of Crimson King..) e L'orologio testimoniano un cantautore emotivo ed elegante, che forse fu abbandonato a sè stesso dall'industria e per questo non esitò a cambiare subito pelle.

venerdì 3 novembre 2017

Sun Kil Moon ‎– Universal Themes (2015)

Dopo anni di alti e bassi, di scelte discografiche incomprensibili, avevo quasi smesso di seguire il percorso del mio grande eroe Mark. Con Benji, da tutti indicato come il disco della sua rinascita, è arrivato anche un gran clamore mediatico. Proprio lui, che invece sembra un marziano dei social media, così attaccato alle sue radici, così avulso dalle tematiche sociali e dall'attualità (memorabile l'epilogo della scheda di PS, che descrive con enorme maestria questo concetto), è salito in cattedra più per le sue invettive crude e volgari contro bands, giornalisti e pubblico chiassoso che per i dischi. Non posso fare a meno di pensare che non c'è nulla di calcolato; non può che essere sè stesso, calando nelle torrenziali liriche le sue inquietudini di mezza età e giustificandosi con un onestà disarmante dicendo ho finito le metafore per i testi.
Musicalmente, con i suoi ultimi 3 dischi, affiora persino un certo sforzo di variare le atmosfere. Benji è effettivamente molto bello ed ispirato ma ancora troppo acustico per spiccare. L'ultimo, Common as light, è troppo straniante e ridicolmente lungo per farsi amare (forse lo capiremo fra anni?). Il mio preferito è Universal Themes, che guardacaso è stato accolto con freddezza da tutta la critica. Ci sono i capolavori che periodicamente aggiungono tasselli ad un'antologia grassissima (Birds of films, Garden of lavender), un paio di inattese, grintose e acide sfuriate (Ali/Spinks 2, With a sort of grace..., ad un passo dallo stoner!), il resto sono ballads composite che cambiano atmosfera repentinamente (The Possum, Little Rascals, Cry me a river...,This is my first day...) al punto che, se non sembrasse una bestemmia, lo definirei il suo disco progressive per varietà di umori e arrangiamenti. 
Ormai Markone ci ha abituato: il lunario si deve sbarcare e pazienza se ogni anno esce con qualcosa, a noi fedeli spetta la caccia ai tesori.

mercoledì 1 novembre 2017

Motörhead ‎– No Sleep 'til Hammersmith (1981)

Fa più o meno lo stesso effetto di If you want blood... degli AC/DC: quando passa, polverizza tutta la produzione in studio e fa piazza pulita. Letteralmente, non la vorrai più sentire; roba buona, per carità, sempre puro trademark, ma dopo un'esperienza così definitiva, che sigilla un suono umano-non-umano, c'è da odiare qualsiasi produttore al mondo.
Poco altro da dire; pubblicato contro la volontà stessa del gruppo, questo live che ha l'aria di non esser stato ritoccato (al contrario del sopracitato, verso il quale nutro ancora dei sospetti...) non è solo un best-of dei primi 4 albums, ma anche un concentrato di violenza e divertimento senza pari. E mi stupisce, dopo tanti anni, lo scoprire che è roba che non invecchia.