mercoledì 30 maggio 2018

Space - Space (1990)

Ricordo delle prime Mental Hours, in occasione del venticinquennale di quelle fantastiche memorie dell'adolescenza. La storia è ben nota: il nucleo originale degli Orb, composto da Alex Paterson e Jimmy Cauty, aveva lavorato ad un disco ma si spaccò e quest'ultimo portò il materiale in studio, tolse il contributo dell'ex-partner e lo pubblicò a nome Space, proprio mentre il suo progetto principale KLF spiccava il volo con Chill Out.
Generalmente stroncato dalla critica, Space è un saggio di ambient-house poco prima della sua esplosione ma quasi privo di ritmiche. Facile pensare che Paterson fosse l'artefice dei battiti, vista quest'assenza: ciò che resta al netto era un fascinoso concentrato di sequenze teutoniche, frequenze androidi, silenzi inquietanti, raffinati passaggi sinfonici, in un fragile e precario equilibrio di riflessi. Il meglio sta proprio nelle due tracce che vennero incluse nelle Hours (ma guarda un po'!), ovvero l'incubo galattico di Mars ed il deliquio bucolico per piano elettrico, moog e voce femminile soprano di Jupiter. Non verrà certo ricordato fra le pietre miliari del genere, ma come atto pionieristico sicuramente sì.

lunedì 28 maggio 2018

Dead Rider ‎– Crew Licks (2017)



Torna Todd Rittmann col quarto Dead Rider, ed è ancora una gioia per le orecchie. Quest’uomo sa sempre come disorientare, come contaminare, come rivitalizzare la propria musica. Adesso cosa faranno?, mi chiedevo al termine di Chills on glass. L’elettronica torna parzialmente nelle retrovie, il basso-synth ancora sinuoso fra le righe ma meno invasivo, le chitarre tornano a graffiare. Ma non è un ritorno al rock, Crew Licks: con le dovute misure cautelari che si attengono ad un pazzo come lui, Rittmann non è mai stato così soul-blues in tutta la sua carriera. Si alternano sghembi hard-rock marziali (Grand Mal Blues, The Listing, The Floating Dagger) a sinuosi e sensuali movimenti soul (Ramble on rose, Bad Humours) come se non ci fosse stato uno ieri. Al primo ascolto sembrerebbe di trovarsi di fronte al disco più ordinario (o tradizionalista) di Rittmann; al secondo si rinsavisce e si pensa già, questo genio ne sa una più del diavolo e ci distrae con una disinvoltura sempre più invisibile. Come la scelta del video ufficiale promozionale: The Ideal, il pezzo che c'entra meno con tutto il resto.

sabato 26 maggio 2018

Low ‎– I Could Live In Hope (1994)

E' giunta l'ora, per me, di rivalutare i Low, o quantomeno i primi essenziali. Perchè devo ammettere che ai tempi d'oro dello slow-core li snobbai altamente. Pensavo che la loro ricetta fosse troppo semplice e priva delle trovate infiammabili che sapevano sfoggiare i miei beniamini: un suono troppo asciutto, prevedibile, soporifero. Mentre tutti li inneggiavano io facevo bah, ma vuoi mettere questi con i Codeine, con gli Idaho, con i Red House Painters? Ma scherziamo?
Dopo quasi un quarto di secolo, credo ancora fermamente che lo slow-core sia stata una breve ma gloriosa pagina del rock americano, un suono che non invecchia e mantiene tutta la propria accecante intensità. E I Could live in hope, indicato ai quattro venti come pietra miliare del genere, è una peculiarità tutta sua del filone: la devozione quasi liturgica, le melodie nette e carezzevoli, quelle scure e appena appena tese, gli incastri vocali, la calma serafica che ineffabilmente non sfuggiva mai; era tutto un inno alla compostezza, ma con sentimento. Nevrosi era una parola sconosciuta nel vocabolario dei Low. Oggi, dopo quasi 25 anni, questo disco mi sembra di averlo consumato come Year After Year, Rollercoaster, The White Birch; ai tempi avrei potuto farlo ma il mio animo inquieto cercava questa cosiddetta nevrosi ed i Low forse erano troppo adulti per me. Era questione di vivere nella speranza, ed era evidente che loro ce ne avevano fin dall'inizio.

giovedì 24 maggio 2018

Peter Silberman ‎– Impermanence (2017)

Al debutto solista per modo di dire, Mr. Antlers va estremamente intimo e spoglio con un disco che al 90% è solo chitarra e la sua voce inconfondibile. Il songwriting non sembra essere di scorta al gruppo e le esecuzioni sono di una devozione quasi liturgica, in modo da evidenziare l'influenza del Jeff Buckley di Sin-è, ma con ovviamente meno esuberanza ed enfasi. Un passo da tartaruga e accordi sparuti caratterizzano l'opening Karuna, il pezzo più esaltante della scaletta, che inscena il fantasioso innesto del sopracitato sulle architetture fantasmatiche del Mark Hollis anno di ultima grazia 1998. Fosse stato tutto a queste altezze avremmo gridato al capolavoro, ma Silberman rientra rapidamente sui binari di un cantautorato piuttosto convenzionale con New York, Maya, Ahimsa,  e la pur eccellente Gone Beyond, che non potranno non piacere a chi ha scoperto Buckley tramite l'arcifamosa rendition della Halleluwah coheniana. La chiusura spetta alla strumentale title-track, che ritorna alle atmosfere magiche di Hollis, questa volta però più dalle parti di Laughing Stock; questo è quanto prediligerei che approfondisse Silberman, augurandomi comunque che risolva i suoi problemi di udito e ritorni presto con un nuovo Antlers.

martedì 22 maggio 2018

Unwound - New Plastic Ideas (1994)


Frutto di un’evoluzione impressionante rispetto a soltanto un anno prima (il furiosissimo Fake Train), New Plastic Ideas resta una pietra angolare della carriera del trio di Olympia, di certo non fondamentale come gli ultimi, ma molto significativo perché pubblicato in un anno, il 1994, che fece la storia della musica americana, ricco come fu di capolavori ed innovazioni. A modo suo, un gruppo ancora molto giovane ma con delle idee chiare su come superare il noise-rock ed il post-hardcore, seppur sapessero interpretarlo ancora con convinzione ed ottimi risultati (Hexenzscene, Envelope,All souls day). Sono le tracce dilatate a restare scolpite nella memoria; i 7 minuti strumentali di Abstraktions riprendono la lezione implosa degli Slint e la portano a livelli quasi cosmici, Fiction Friction un vortice piano-forte che influenzerà tantissimo anche gruppi inglesi come Elevate e Ligament, Arboretum e le sospensioni parossistiche a base di armonici, con un senso del tragico che all’epoca aveva pochi eguali. Senso del tragico che diventerà la chiave di lettura principale nel proseguio della loro carriera.

domenica 20 maggio 2018

Pere Ubu - Architectural Salvage (2016)

Corollario alla cofana di 4 cd uscita nel 2016 che colleziona terzo, quarto e quinto disco degli Ubu, prima dello scioglimento nel 1982. Tre albums che mi sono sempre ripromesso di riascoltare da tanti anni, ma non ce l’ho mai fatta, e neanche questa è stata l’occasione ma pazienza, c’è questo bonus di inediti, alternate takes, rarità e la prima traccia è un live di Humor me del 1978. Miglior adescamento non potrebbe esserci, anche perché la qualità del suono, per l’epoca, è clamorosamente alta e l’esecuzione è da manuale. Senza essermi informato, al primo ignaro ascolto pregustavo un live intero, cosa di cui ovviamente non si tratta. Scorrono così, con leggera disomogeneità, questi bignamini di un triennio che ha visto gli Ubu rinunciare al brio wave-post-punk per un suono surreale, quasi demenziale a tratti, col basso spesso in primo piano. Buffi vignettisti. David Thomas un’inarrestabile cabarettista. Trovate geniali a iosa, anche se si tratta pur sempre di un corollario. Resterà confinato nei miscellaneous, ma che brillantezza.

venerdì 18 maggio 2018

Caustic Window ‎– Caustic Window LP (1994)


Un anno dopo la finestra poligonale, Richard James architettò la finestra caustica, ma si rivelò talmente scottante da metterla in un cassetto ad invecchiare; fu davvero lungimirante, innanzitutto per non inflazionare la sua discografia in un epoca in cui usciva con una marea di prodotti, e poi da prevedere che si sarebbe rivelata utile dopo 20 anni.
Non sto a ripetere la storiella del disotterramento, delle aste a 3 zeri per l'unica copia (!) messa in vendita nel 2014, del fundrising, insomma, sono tutti dettagli extra musicali. Ciò che conta è che dopotutto siamo stati ben contenti di scoprire un'autentica reliquia della golden age di Mr. Irish, con 15 tracce di puro Aphex-style, forse un po' più sbilanciato sulla trance p(r)e(s)sante di Polygon Window ma anche con preziosi inserti che sembrano paracadutati direttamente dai Selected Ambient Works (Fingertrips, Airflow, Squidge in the fridge). Certo, pur sempre di un archivio si tratta e non a caso rimase tale, ma che classe folle....

mercoledì 16 maggio 2018

Scala ‎– To You In Alpha (1998)

Dallo scisma dei divini Seefeel fra Mark Clifford ed il resto del gruppo, questi ultimi rinacquero come Scala e fecero 3 dischi in rapidissima sequenza prima di dissolversi. To you in alpha uscì su Too Pure e beneficiò della promozione di una indie-label ai tempi già fortissima, tant'è che ricordo di averlo trovato fra i cd di mio fratello, ai tempi invaghito del trip-hop più modaiolo. Era da giusto giusto 20 anni che non lo ascoltavo e devo dire che il tempo se lo porta bene; evidentemente il buon gene dei Seefeel non tradiva, pur privo del leader creativo.
Forse intendevano provarci, gli Scala, ad avere un po' di riscontro di pubblico: per quanto la componente trip-hop non fosse preponderante, in effetti potevano avere la stessa attrattiva degli Sneaker Pimps di Becoming X, ma in un contesto più colto e ricercato, se vogliamo. I vocalizzi di Sarah Peacock, nettamente più in primo piano rispetto al passato, le strutture compositive più legate alla forma canzone, una più che buona varietà di stili ed atmosfere, quanto bastava per non sembrare confusi od incerti. Ci sono alcune solenni meraviglie dirette discendenti del gruppo madre (Still, Remember How to breathe, Wires), qualche concessione alle melodie più cristalline ma comunque di qualità, addirittura una libera uscita sull'acid-rock (Colt, che sembra una outtake dei Loop di A gilded eternity), insomma più ingredienti per accattivarsi varie fette di pubblico. Che in fondo avrebbero meritato.

lunedì 14 maggio 2018

Screaming Trees ‎– Even If And Especially When (1987)

Probabilmente il gruppo più ordinario della scuderia SST a fine anni '80, i primi Screaming Trees erano un'onesta band che macinava con energia hard rock e sixties-garage, dallo spirito genuino e privi di qualsiasi forma di quel nichilismo che avrebbe caratterizzato il grunge. In questo che fu secondo e primo di tre sulla label di Greg Ginn, la band aveva due tratti distintivi che li rendeva comunque superiori alla media: la voce già ruggente di Mark Lanegan ed il chitarrismo torrenziale di Conner, capace di aggirare le banalità ed i luoghi comuni del genere con un campionario di riff e trovate istantanee ad effetto.
Even if and especially when non verrà ricordato mai come i loro anteriori più di successo, ma per un gruppo alle prime armi era già un ottimo prodotto, ed oggi un occasione per ricordare le origini di Lanegan, che senza questo importante trampolino forse non sarebbe diventato ciò che è oggi. Alla fine si torna sempre al solito discorso di Seattle; esserci al momento giusto, nel posto giusto, al di là degli effettivi meriti artistici.

sabato 12 maggio 2018

Calla ‎– Strength In Numbers (2007)

Proprio nel momento in cui sembrava che potessero raggiungere un discreto successo, col secondo su Beggars Banquet, i Calla si sono fermati. E dopo dieci anni netti, sento che mi mancano e che forse non ho apprezzato quanto fosse giusto per loro insistere sul lato più tradizionalista, dopo quel Collisions che mi aveva leggermente deluso.
Strenght in numbers vedeva un trio ormai rodatissimo, immerso nel proprio spleen fino al midollo, elevarsi a status di classico, di gruppo formula. Inutile sparare nomi influenti, in fondo è stato un commiato che ce li farà ricordare per sempre, soprattutto per perle assolute come Defenses down, Rise, Dancers in the dust, A sure shot, testimonianze di un songwriting ormai col pilota automatico che sprintava emozioni da tutti i pori.
Ma forse è stato meglio così, che abbiano terminato la loro corsa con un grande disco.

giovedì 10 maggio 2018

Bruno Nicolai ‎– Tutti I Colori Del Buio (Colonna Sonora Originale Del Film) (1973)

Confesso di aver ascoltato questa soundtrack esclusivamente perchè un pezzo, cioè Sabba 2, è il tema che i Grails hanno ripreso su Deep Politics facendolo diventare l'eccezionale All the colors of the dark. Una scoperta che mi ha lasciato da un lato un po' di disappunto per il fatto che non fosse un originale, dall'altro un po' di contentezza perchè il fatto che i Grails omaggiassero un compositore italiano mi è sembrato degno di nota.
Bruno Nicolai, romano, amico di Morricone, ha fatto parte di quella generazione che ha trovato linfa artistica con le sonorizzazioni per il cinema sia commerciale che di tendenza del dopoguerra fino a fine anni '70. Diciamo che non è considerato nè uno dei migliori nè uno dei peggiori, e la mia conoscenza della sua opera si ferma a questo film giallo di Sergio Martino. Una colonna che non resterà negli annali, forse, ma è un ascolto abbastanza gradevole, passando fra languidezze flautate, l'immancabile fonetica di Miss Soundtrack Edda Dell'Orso, jazz incalzanti e serrati, contaminazioni a base di sitar e corali (come il Sabba sopracitato), sospensioni orchestrali. E' un calderone che porta sulla schiena tutti gli anni che ha, che non sono pochi, e indissolubilmente legato alla sua epoca. Ma che non può neanche non esercitare un certo fascino, dopotutto.

martedì 8 maggio 2018

Polvo ‎– Siberia (2013)

Secondo disco dopo la reunion che ha fruttato il fenomenale In Prism. Fin dall'iniziale, travolgente Total Immersion si intuisce che i nostri hanno tutte le intenzioni di ripetersi col loro intricato artigianato, per un trademark che si rafforza sempre più col tempo, mentre i detrattori continuano a fare spallucce. Noi che li amiamo invece ci felicitiamo e speriamo che Polvo 2.0 non si fermi più.
Siberia è un disco meno avventuroso, che spinge più sull'aspetto melodico; pezzi dai ritmi compassati come Changed e la fantastica Old Maps (credo contenente una chitarra acustica per la prima volta nella loro storia) denotano una concessione alla calma e ad una rilassatezza che ben si sposano alle ispirate armonie poppeggianti. E' una scaletta concisa ed efficace quella che contraddistingue Siberia, e che trova il suo climax nella fragorosa The water wheel, più apprezzabile per chi ama le cose più complicate del quartetto di Chapel Hill. Le performance dei singoli sono una garanzia, con risalto l'ultimo arrivato, il batterista Quast, decisivo nell'economia generale del suono. Non lasciateci un altra volta, Polvo.

domenica 6 maggio 2018

Morton Feldman - Kronos Quartet With Aki Takahashi ‎– Piano And String Quartet (1985-1993)

Un tuffetto nella contemporanea ci sta; ogni tanto mi inoltro in queste aree grigie senza tanta cognizione di causa, ricavandone piaceri e delusioni. La prima volta che ho ascoltato Feldman era For Bunita Marcos, e l'ho trovata noiosa, autoreferenziale e piatta. Questa è la seconda e fa centro pieno, c'è poco da fare. A forza di leggere entusiasmi sul corpulento compositore, non ho potuto desistere con un solo tentativo.
Piano And String Quartet è una composizione di quasi 80 minuti, elaborata due anni prima della morte del newyorkese; la rendition qui esaminata fu registrata in California nel 1991 dal veterano Kronos Quartet + la pianista giapponese Takahashi, una performer stimatissima dallo stesso Feldman. La struttura iniziale sembra rigorosa e minimale: tema principale, sgocciolio di 6 note di piano, risposta di archi in bordone compatto. Piano che snocciola brevi fraseggi astratti, archi che svisano mesti e compassati. Col passare dei minuti lo scenario si allarga, le parti lasciano più spazio alle altre, raramente si sovrappongono, gli archi prendono il sopravvento, come svolazzi impressionistici, il mood si fa più drammatico.
Al minuto 79 tutto finisce, e desiderei che continuasse ancora. Magia. Di quante altre musiche si può dire?

venerdì 4 maggio 2018

Soror Dolorosa ‎– Apollo (2017)

Nel 2017 ha ancora senso fare del dark-wave? Quando Fabio mi ha consigliato questo disco, ho pensato "no vabè, dai, gli Have A Nice Life hanno fatto un miracolo e Soft Moon un mezzo, ci credo poco". Invece questi brutti ceffi di Tolosa sanno il fatto loro ed Apollo è un disco che di senso ne ha molto, rinverdendo i vecchi fasti britannici di 35/40 anni fa.
A parte qualche divagazione shoegaze e qualche piccolo inserto post-rock, i Soror Dolorosa si immergono fino al collo in quelle sonorità, col palese vantaggio che le produzioni di studio del giorno d'oggi sono molto ma molto migliori, facendo risaltare l'atmosfericità delle loro composizioni, belle squadrate come da copione ma anche belle-bellissime e basta, nella prima metà del disco. La title-track che apre la scaletta dura 8 minuti e si autocandida come miglior pezzo mai composto dai Chameleons del debutto. Il gruppo di Burgess sembra essere il referente principale in fatto di influenze, ma si sentono altre voci autorevoli come quelle dei Cure di Disintegration o dei Bauhaus di Mask. Il fatalismo della solenne Locksley Hall, la verve briosa di Everyway, le aperture panoramiche di Another Life, fanno tutte venire un sottile brivido sulla schiena per quante emozioni possano scatenare su un vecchio fan di questo genere. E' un vero peccato che nella seconda metà il livello si abbassi notevolmente; togliendo un quarto d'ora la resa finale sarebbe stata più che eccellente, ma le emozioni hanno già fatto il loro gioco ed Apollo diventa un must immediato.

mercoledì 2 maggio 2018

Scream From The List 70 - Dedalus ‎– Dedalus (1973)

Poderoso jazz-rock da parte di una band torinese dalla vita brevissima; due dischi su Trident in due anni e poi lo scioglimento. Composto da 5 pezzi ovviamente strumentali, Dedalus metteva in mostra quattro strumentisti mostruosi, che è veramente difficile non citare, di cui un paio addirittura doppiamente impegnati: il batterista Grosso, il bassista F. Di Castri, il pianista/cellista Bonansone ed il chitarrista/sassofonista M. Di Castri. Che fossero impegnati in fughe ritmicamente sostenute, in fasi più morbide e melodiche oppure più spiritatamente sperimentali (il sax manipolato di Santiago, da brividi, o le allucinazioni di Conn), i 4 riprendevano la lezione Soft Machine e la portavano un po' più in là, col loro suono algido e paurosamente coeso. E' sicuro che si tratta di un disco riservato agli amanti del genere, ma di elevatissima qualità.