E' giunta l'ora, per me, di rivalutare i Low, o quantomeno i primi essenziali. Perchè devo ammettere che ai tempi d'oro dello slow-core li snobbai altamente. Pensavo che la loro ricetta fosse troppo semplice e priva delle trovate infiammabili che sapevano sfoggiare i miei beniamini: un suono troppo asciutto, prevedibile, soporifero. Mentre tutti li inneggiavano io facevo bah, ma vuoi mettere questi con i Codeine, con gli Idaho, con i Red House Painters? Ma scherziamo?
Dopo quasi un quarto di secolo, credo ancora fermamente che lo slow-core sia stata una breve ma gloriosa pagina del rock americano, un suono che non invecchia e mantiene tutta la propria accecante intensità. E I Could live in hope, indicato ai quattro venti come pietra miliare del genere, è una peculiarità tutta sua del filone: la devozione quasi liturgica, le melodie nette e carezzevoli, quelle scure e appena appena tese, gli incastri vocali, la calma serafica che ineffabilmente non sfuggiva mai; era tutto un inno alla compostezza, ma con sentimento. Nevrosi era una parola sconosciuta nel vocabolario dei Low. Oggi, dopo quasi 25 anni, questo disco mi sembra di averlo consumato come Year After Year, Rollercoaster, The White Birch; ai tempi avrei potuto farlo ma il mio animo inquieto cercava questa cosiddetta nevrosi ed i Low forse erano troppo adulti per me. Era questione di vivere nella speranza, ed era evidente che loro ce ne avevano fin dall'inizio.
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