giovedì 29 novembre 2018

Scream From The List 77 - Nico – The Marble Index (1968)

Per il cinquantennale, il pronto recupero della messa più sepolcrale della sacerdotessa delle tenebre. Ancor più di Desertshore, che perlomeno evoca qualche paesaggio per quanto fosco sia, The Marble index è un flusso quasi ininterrotto di harmonium sul quale la Paffgen salmodia le sue poesie con fare articolato e solenne. A John Cale toccò l'onere di aggiungere viole stratificate, qualche percussione, qualche nota di piano ed un pezzetto di chitarra. Il disco nasceva dalla voglia sfrenata della tedesca di mettere da parte la sua bellezza e di farsi prendere sul serio; a mezzo secolo di distanza, la seconda  è assolutamente garantita e questi madrigali melmosi stanno ancora lì a stregare, spietati ed ancestrali.

martedì 27 novembre 2018

My Dying Bride ‎– The Angel And The Dark River (1995)

Uno dei masterpieces del doom-metal anni '90, da parte di una delle punte della triade britannica completata da Paradise Lost ed Anathema. Significativo perchè, al terzo album, il cantante abbandonava del tutto i growls in favore di una modulazione sofferta e fatalista, la produzione era più pulita rispetto al precedente, le parti lente e titaniche sempre più predominanti, violini e tastiere impreziosivano le orchestrazioni in modo essenziale e melodico. Un disco monocromatico, ma così emotivo e straziante da abbattere anche le lungaggini (una decina di minuti in meno avrebbe giovato all'insieme). Black Voyage e The cry of mankind le tracce migliori.

domenica 25 novembre 2018

Antarctica – 81:03 (1999)

Unico (e doppio) album di un quintetto newyorkese dalle grosse potenzialità commerciali, ma poi rapidamente finito in un black-hole. Questo in quanto il loro suono era un indie-rock screziato di elettronica ma sostanzialmente riferito ai Cure, o per meglio dire ad un arco temporale corrispondente a tutti gli anni '80 della banda di Ciccio Smith, inclusa l'appendice chitarrosa di Wish. Pezzi medio lunghi, spleen ridondante, effluvi elettrici, vocalizzi fin troppo affini nell'arrendevolezza (o svogliatezza, dipende dall'interpretazione), ma io aggiungerei anche qualcosa dei Death Cab For Cutie, anche se occorre dire che il loro primo fu coevo ad 81:03, nonchè agli Aloof, compari di periodo ed influenza. Un ascolto gradevole per i Cure-heads, ma anche per gli indie-hipster di area.

venerdì 23 novembre 2018

This Heat ‎– Made Available (John Peel Sessions) (1977)

Ben due anni prima del loro primo vinile di rottura, i This Heat erano già al Maida Vale a registrare per l'ultra lungimirante John Peel, che li chiamò esterrefatto dopo aver ascoltato il loro demo di presentazione. Questo prezioso documento di recupero, inerente ad una seduta di Marzo ed una ad Ottobre, fu reso pubblico soltanto vent'anni dopo e neanche dalla Strange Fruit, come di solito accadeva per le sessioni più prestigiose. Quindi la maledizione di essere troppo avanti per il trio di Camberwell continuava in maniera spietata, ma sempre meglio fuori che in un cassetto.
Poco da dire sull'art-avant-elettro-noise-rock di questa entità micidiale; occorre senz'altro rimarcare la qualità sonora delle registrazioni, courtesy degli eccezionali tecnici che la BBC aveva in scuderia in quegli anni; nello specifico, qui Malcolm Brown e Tony Wilson (no, non quel Tony Wilson lì, ma un omonimo), che davano al tridimensionale TH-sound la perfetta profondità e la cura adatta soprattutto alle ritmiche. Fenomenali Horizontal Hold e Rimp romp ramp, a mia saputa rimasto inedito altrove.

mercoledì 21 novembre 2018

.O.Rang - Fields And Waves (1997)

L'ethno-dub più lussureggiante e variegato che mai dei due ex-Talk Talk, purtroppo destinato ad essere l'ultimo in quanto Paul Webb si disinteressò al progetto, portandolo di fatto allo split nonostante un terzo album fosse in cantiere. Disco molto più prodotto e curato del precedente, Fields And Waves schiera uno stuolo di musicisti aggregati fra cui i più rinomati furono Beth Gibbons dei Portishead e Graham Sutton dei Bark Psychosis, e brilla in modo particolare per le innumerevoli soluzioni che i due talentuosissimi musicisti sapevano apportare a composizioni avvincenti, nonostante restassero flussi di coscienza diluiti. Un peccato che si fermarono qui; a modo loro, anche questo era post-rock illuminato.

lunedì 19 novembre 2018

Lycia ‎– A Day In The Stark Corner (1993)

Il terzo album di Mike Van Portfleet, incastonato fra l'ancora acerbo Ionia ed l'opus magnum The burning circle, e come esso solenne e gigantesco affresco di gotico atmosferico, fra le strali chitarristiche, l'abbondanza di tastiere aeree ed i battiti tonfanti e riverberati della drum machine. Poco da dire, un'arte sopraffina, fatalista e stregata, un suono unico ed immediatamente riconoscibile che nessun'altro in campo gotico nessuno saprà replicare con efficacia (penso soltanto ad Aidan Baker, che con Nadja trasfigurerà un approccio simile immerso in lava metallica) e che costituisce un modello probabilmente insuperato.

sabato 17 novembre 2018

Preoccupations ‎– New Material (2018)

Quartetto canadese su Jagjaguwar che come i Soror Dolorosa, Soft Moon e qualche altro nome attuale, fa uno spudoratissimo revival della new-wave più algida e ritmata, come se non fossero passati quasi 40 anni, fregandosene altamente e propinando al pubblico giovane del materiale (il titolo enuncia, direi ironicamente, l'attualità della proposta) che sembra quasi prodotto con un apposito software riciclatorio. Così verrebbe da stroncarli, se non chè un nostalgico come me che ha scoperto il genere una decina d'anni dopo il tempo reale non può non restare affascinato da anthem sulfurei di synth-dark come Espionage, Solace, Disarray o da lenti cadenzati e solenni come Manipulation e Doubt, che pescano senza ritegno da Cure e Joy Division, a secchiate. Così il giudizio più o meno obiettivo dipende esclusivamente da quanto possa piacere il prodotto.

giovedì 15 novembre 2018

Klaus Schulze ‎– Blackdance (1974)

Terzo disco e terzo capolavoro di KS agli inizi di un interminata carriera (ad oggi fanno 137 titoli, si scusi se è poco). Blackdance fu disco più organico del precedente Cyborg, e si intuisce fin dall'inizio: un inaspettata classica a 12 corde da il là a Ways of changes, per lasciare poi spazio ad una meravigliosa cavalcata cosmica per bonghi ed orchestra di synth. Some velvet phasing è una fantastica meditazione statica. La facciata B è interamente occupata da Voices of syn, inquietanti bordoni di organo, poi fluttuazioni di ritmica meccanica, una combinazione di figure astratte che si rincorrono angosciate ed estasiate al tempo stesso.
La ristampa giapponese del 2007 comprende due bonus track del 1976, che in apparenza c'entrano abbastanza poco, sia per il suono (molto freddo e sintetico) che per i contenuti, che lasciano già intravedere un declino fisiologico di questo grandissimo maestro ambientale.

martedì 13 novembre 2018

Queens Of The Stone Age ‎– Queens Of The Stone Age (1998)

Che vista lunga che aveva il rosso Josh Homme. Dopo lo scioglimento dei Kyuss si portò il batterista Hernandez e varò QOTSA. Nel ventennale vale la pena di ricordare il loro album di debutto, sul quale scommise (a ragione) la label di Gossard dei Pearl Jam, unico ed ultimo indipendente perchè il successo fu immediato. Un disco roccioso e compatto, accattivante e sornione, che già sorpassava l'epic-stoner dei Kyuss, e non soltanto perchè al posto della voce ruggente di John Garcia era subentrato il falsetto esile e beffardo di Homme.
Abbondano i pezzi irresistibili, da quelli che riprendevano la vecchia lezione tellurica della band madre (Regular John, Avon, Mexicola) a quelli che schiudevano aperture power-pop trascinanti (If Only, How to handle a rope), a quelli un po' più sofisticati, e a mio parere i migliori (You would know, You can't quit me baby). Roboante.

domenica 11 novembre 2018

Joy Division ‎– Les Bains Douches 18 December 1979 (2001)

Fa coppia col concerto di Preston uscito un paio d'anni prima, cioè in uno dei massimi momenti di revival JD (nonchè di revival new-wave). Per chi ha visto Control, il periodo è ben noto: è il tour fra Francia e Benelux, Curtis è seguito dalla sua amante belga, sta sempre peggio con gli attacchi ma la band è in una forma a dir poco stellare; Sumner si porta il synth sul palco per fare Insight, Hook e Morris una macchina da guerra implacabile, il suono è bello abrasivo e parecchio distante da quello ripulito degli album in studio (che piaccia o meno l'uno o l'altro).
La scaletta in realtà riguarda Parigi solo per 9 pezzi su 16, mentre il resto verte su un paio di date in Olanda del mese successivo. Il dato interessante è l'inclusione di pezzi meno frequenti come These Days, Dead Souls e Digital, ed a differenza di Preston non mi pare di udire errori evidenti. Per cui, ricorrenza doverosa e, una volta tanto, buona operazione discografica. Per non dimenticare mai.

venerdì 9 novembre 2018

Roger Waters ‎– Is This The Life We Really Want? (2017)

Chi è invecchiato meglio dei Pink Floyd? I bolsi Gilmour e Mason, protagonisti di un tonfo clamoroso di senilità con The Endless river oppure il buon vecchio Ruggero Acque, tornato l'anno scorso dopo un silenzio discografico di un quarto di secolo? E qualcuno ancora si sarebbe aspettato una reunion, dopo il live 8 del 2005?
Il fatto è che Is this the life rischia di essere il suo miglior disco solista, ed è tutto un dire. Prima di ascoltarlo, non mi aspettavo minimamente che a 75 primavere Waters potesse ancora dare una prova così che non solo non è il diavolo, ma è il miglior disco dei Pink Floyd degli ultimi 40 anni. Che tirasse fuori una cosa di carattere non avevo dubbi, e la materia prima non gli mancava di sicuro: navigare nel torbido di un mondo sempre più in declino, degradato, barbaro ed insensibile non potrebbe esser stata miglior fonte d'ispirazione. La sorpresa è che musicalmente è la miglior sintesi possibile del Waters storico; indubbiamente il tempo impiegato (che non sarà stato certo 25 anni, ma almeno 10 potrei sostenerlo con serenità) ha giocato a favore, ma il merito maggiore in realtà potrebbe essere imputato a Nigel Radiohead Godrich, il famoso produttore che non soltanto ha svolto il suo lavoro con il giusto distacco e reverenza, ma pare che abbia convinto il suo creatore a tagliare, a condensare il materiale in modo da renderlo più compatto e concentrato. Conoscendo l'ego di Waters, dev'essere stata un impresa titanica.
Poco da dire sul contenuto; i fans storici dei PF troveranno il giusto godimento, perchè la retrospettiva è pressochè totale, a volte ai limiti dell'autoplagio (Smell the roses ad esempio, che è una ripresa di Have a cigar, come negarlo?), ma stiamo parlando di un istituzione che col tempo non perde il proprio valore. Un po' di Wall ce n'è, ma la fonte più attinta a mio avviso è quel gran disco, poco citato nei libri di storia, che fu Animals. Monumento.

mercoledì 7 novembre 2018

Iceburn ‎– Hephaestus (1993)

Un'anno dopo il debutto Firon, il power-trio originale degli Iceburn spaccò la mela in due con questo concept (almeno a livello musicale, non so nei contenuti lirici) di oltre 70 minuti. Testimonianza di una progressione alla velocità della luce, tant'è che l'anno succesivo amplieranno la line-up col terzo Poetry Of Fire. Spezzettato in 28 tracce perlopiù inferiori ai due minuti di durata ma difatto una soluzione unica, Hephaestus è un concentrato di jazz-hardcore con qualche punta psichedelica, in cui la tecnica non prevarica mai le strutture o la compattezza. Un disco difficile ma avvincente, che rappresenta una delle massime evoluzioni di quanto fecero gli ultimi Black Flag.

lunedì 5 novembre 2018

Shipping News ‎– Very Soon, And In Pleasant Company (2001)

Nel momento in cui uscì, il secondo album degli Shipping News si portava dietro delle grosse aspettative, e non solo in casa Quarterstick: per Jeff Mueller era diventato il gruppo principale all'indomani dello split dei June Of '44 e i Rachel's di Jason Noble non attiravano più le stesse attenzioni del 1995/96. Dopo il buon esordio con Save Everything di quello che sulle prime sembrava più che altro un progetto secondario, Very soon.... li pose in rilievo come i più accreditati eredi del post-slintianesimo. E' un album praticamente perfetto, nonchè il seguito più credibile al mitico Rusty dei Rodan. C'è tutto il necessario: le fasi sincopate e graffianti, quelle sognanti e delicate, le atmosfere sospese, i tonfi ed i deliqui, e poi ci sono le canzoni; convincenti, ben scritte ed eseguite, cantate esclusivamente da Noble e quindi più sbilanciate verso la melodia. Produzione perfetta e non va escluso dai credits il batterista Crabtree, poco meno che fondamentale. Memorabili l'articolatissima Quiet Victories e l'iniziale The March Song.

sabato 3 novembre 2018

Oronzo De Filippi ‎– Meccanizzazione (1969/71)

Nel suo manifesto Blowuppiano sulla Library (#158/9), Valerio Mattioli data Meccanizzazione anno 1969 contro il 1971 di Discogs. Sottigliezze? Può darsi, in confronto all'opinione del grande giornalista romano; scrive egli infatti che più che rievocare i ritmi dell'industria, il disco fa pensare più a Capri.
L'oscuro Oronzo De Filippi è accreditato in pochissime pubblicazioni dell'epoca e soprattutto non si sa nulla di lui. Googlando il suo nome escono più che altro pagine in inglese, e peraltro tutte entusiastiche. Non potendo ricavare altre info, giocoforza ci rilassiamo all'ascolto di questa mezz'oretta scarsa di godevolissima jazz-lounge-bossa che trasudano italianità da tutti i pori. Poi è chiaro che viene in mente più la costiera amalfitana che una fabbrica, ma dev'essere questo necessariamente un limite?

giovedì 1 novembre 2018

Leafcutter John ‎– Tunis (2010)

E' un po' che non abbiamo più notizie di John Burton, per cui retrospettiva su questo pseudo-live dal concetto fascinoso: invitato ad un festival a Tunisi, gli è stato imposto di eseguire il suo concerto con l'ausilio anche di materiali registrati nei dintorni. Col nastro poi è tornato a casa ed ha assemblato il disco finale, risultato in un meltin' pot ambizioso di influenze locali, un po' di acustica ed electro-ambient polverosa, misticheggiante, da miraggio desertico. Fra canti di muezzin, strumming, droni estatici, ipnosi e tribalismi, Burton è riuscito a non farsi prendere la mano ed ha fatto centro, e che si tratti di un live ce ne accorgiamo solo negli ultimi secondi, quando un caloroso applauso si leva dal pubblico.