giovedì 30 giugno 2016

Robert Calvert ‎– Captain Lockheed And The Starfighters (1974)

Un personaggio, Calvert, che fu laterale in tutti i sensi. Nato come poeta nella Swinging London, divenne un personaggio multimediale che oltre alla scrittura sci-fi ebbe una parte importante come vocalist e paroliere degli Hawkwind durante la maggior parte dei '70, conoscendo anche il successo commerciale con Silver Machine. Disturbato mentalmente, era ossessionato a tal punto dagli aerei di guerra e dal desiderio di condurli che si esibiva spesso in tenuta da pilota e riservò ad un concept sul tema il suo primo album da solista nel '74.
Realizzato con gli stessi Hawkwind di supporto, suona quasi come un disco degli stessi purgato dalle inflessioni spaziali, dai generatori audio e dalla freakitudine tipica di Brock & Co. Il suo cuore pulsante è composto dai pezzi serrati, grezzi ed ossessivi mutuati proprio da Silver Machine ed in generale a quel tipo di espressione HW, mentre la seconda parte più che altro verte su quadretti surreali e solenni (un paio di essi realizzati insieme ad Arthur Brown) che denotavano doti inaspettate da parte di uno che nelle biografie risultava aver suonato solo la tromba durante il servizio in aeronautica.
Un concept potente ed arty al tempo stesso, non minato dai numerosi intermezzi spoken-word funzionali allo svolgersi del tema portante.

martedì 28 giugno 2016

Evan Caminiti ‎– Dreamless Sleep (2012)

La metà onirica dei Barn Owl, che come già detto sta finendo per prendere il sopravvento sull'altra forse più fisica Porras, al suo primo Thrill Jockey. Dal 2009 EC ha pubblicato un disco all'anno, all'insegna di una anomala forma di new-age traslata da esperienze drone-core ormai lasciate alle spalle, ma che non impediscono impennate di energia vaporosa. Diciamo che se Klaus Schulze fosse nato in California negli anni '80 ed avesse avuto un retroterra metallaro, più o meno oggi suonerebbe così.
Certamente, non è la musica più innovativa ed eccitante al giorno d'oggi. Il retaggio tedesco continua a fare la voce grossa e chissà per quanti anni ancora. Però, è indubbio che il fascino esercitato dalle rifrazioni galattiche, dai tappeti celestiali, dalle rasoiate chitarristiche (in certi momenti persino frippiane) di questi quadretti cosmici ed hauntologici sia prossimo alla stregoneria. E che la maestria di Caminiti, la sua grazia pesante, lo renda un disco incantevole, seppur solo per intenditori.

domenica 26 giugno 2016

Air Conditioning ‎– I'm In The Mountains, I'll Call You Next Year (2003)

Un'anno prima del loro riconosciuto capolavoro Weakness, gli AC debuttarono con questo titolo un po' misogino. Avendolo trovato soltanto poco tempo fa, devo rimettere in discussione le gerarchie del fulmineo e putroppo dissolto noise-trio che, come ha brillantemente scritto Mattioli in Noisers, espelleva un dilaniato blues industriale talmente pesante da cedere sotto il suo stesso carico.
Difficile stabilire se sia più violento questo o Weakness: se quest'ultimo impressionò per il suo attacco frontale e rovinoso, I'm in the mountains vive di una maggior diversità nello scriteriato succedersi dei gorghi di rumore infernale. Il bisonte di apertura, Unravel your navel, it's Mardi Gras, si dipana su un mid-tempo cingolato con il falsetto delirante di Ciccio Jurgensen in evidenza, si prolunga per un quarto d'ora fino all'inopinato finale, in cui la bestia si ferma e fa la sua inaspettata comparsa un violino che gracchia lamentoso sullo sfondo. Hell is a solid prosegue con una iper-saturazione a ritmo strascicato, chiude Citizen's band con una serie micidiale di singulti ed un finale che sfiora la psichedelia, per quanto paradossale possa essere tale concetto nell'oceano di distorsioni e saturazioni messo in atto da questi buzzurri della Pennsylvania.
Semplicemente i migliori in assoluto dello U.S. Noise, di poco sopra Sightings e Hair Police.

venerdì 24 giugno 2016

Giardini Di Mirò ‎– Rapsodia Satanica (2014)

A 5 anni dal Fuoco, i GDM sono tornati sui loro passi con una seconda sonorizzazione per film muto di circa un secolo fa. La sequenza temporale delle loro pubblicazioni si ripete: un disco rappresentativo delle loro tendenze con tanto di brani cantati (il discutibile Dividing Opinions nel '07 ed il pessimo Good Luck nel '12), alternato ad una colonna sonora (il meraviglioso Il Fuoco nel '09 e Rapsodia satanica per ultimo). Tanto è chiaro come la penso; in queste ultime i reggiani fanno ciò che riesce loro meglio, che d'altra parte è ciò che ha procurato loro la maggior parte dei consensi; un post-rock strumentale di grande respiro, con un equilibrio ricercato fra raffinatezze e malinconie, negli ultimi tempi più godspeediano che mogwaiano,
Emblematica una intervista che Reverberi ha rilasciato in occasione di Rapsodia: non se la sentirono di tornare a diventare un gruppo solo strumentale dopo l'abbandono di Raina, quindi si rimisero in discussione e decisero di mettersi a cantare lui e Nuccini. Ma alla fine si torna sempre a casa, al caro vecchio formato che è una garanzia e pazienza se non si bissa i livelli de Il Fuoco: le atmosfere sono sempre suggestive e struggenti, e una grossa caduta di tono (XVII) non ci impedisce di volere ancora bene ai Giardini.

mercoledì 22 giugno 2016

Jack Ruby – Hit And Run (1974/77)

Fossero riusciti a pubblicare qualcosa in vita, un posto nella NWW List ai newyorkesi Jack Ruby non gliel'avrebbe tolto proprio nessuno, vicino a quelli più affini come Stooges e Debris'. Ma la loro storia incarna la figura dei losers più incalliti, di una band che perde il controllo del proprio output, della propria formazione e così facendo resta inconcludente. Il batterista/leader Cohen occupa per intero il secondo cd di questa raccolta molto lo-fi, pieno di deliri rumoristici/schizoidi al synth auto-costruito registrato nel 1974, poi guida il gruppo nello stesso anno a sputare un avant-punk sghembo, precario e devastato, in linea perfetta con le intuizioni coetanee dei Pere Ubu, ma anche brutalmente in anticipo sulla No-Wave. Passano 3 anni e il gruppo si riforma con soltanto il chitarrista Gray in comune, nel segno di un punk meno avanguardistico (anche perchè trattasi di evidente presa diretta) ma di quello genuino e trascinante, fiero di esserlo.
Roba che scotta ancora adesso, e che è rimasta sottoterra per troppo tempo (primo recupero nel 2011, questo è del 2014). Il rimpianto resta, perchè con una minima produzione alle spalle chissà cosa avrebbero potuto combinare questi matti.

lunedì 20 giugno 2016

Bill Callahan ‎– Have Fun With God (2014)

Capita, che un vecchio idolo col tempo ti piace sempre meno perchè sostanzialmente finisce per fare semi-cover di sè stesso oppure cerca di reinventarsi goffamente. Così è capitato a me con BC e Have fun with god si è rivelata una mossa davvero sorprendente, di quelle che ti fanno rivalutare il personaggio.
E' andata che BC nell'estate del '13 pubblica un 12" contenente due rivisitazioni in chiave dub di pezzi estratti dall'appena uscito Dream River. La cosa lo prende parecchio e neanche 6 mesi dopo doppia tutte le 8 tracce della scaletta con altrettanti remix.
Il motivo per cui amo tanto questo disco, forse, è perchè non ho mai ascoltato Dream River. Perchè forse quel disco mi avrebbe stancato dal primo all'ultimo minuto ed allora l'idea di sorbirmene una versione dub non l'avrei neanche presa in considerazione. Che poi, che cosa c'entra BC col dub? Ne ha mai avuto a che fare?
Da questo imprevedibile gemellaggio ne esce un flusso magico in cui la poetica statica e l'eleganza formale di BC se ne restano sullo sfondo mentre tutto attorno c'è uno stop & go ultra-riverberato di percussioni caracollanti, basso sinuoso in rilievo, flauti, la voce in delay, una chitarra che sa alla perfezione quando entrare e quando uscire. Un contrasto di quelli che li ami o li odi (ho visto fra le recensioni addirittura un 3/10), il songwriting lucidissimo e composto con le stonature, gli echi incontaminati e la profondità di un dub bianco che entra gentile in un campo inedito e non ha paura di giocarsela. E vince.
Relax carismatico.

sabato 18 giugno 2016

Mogwai ‎– Come On Die Young (1999) (Deluxe Edition 2014)

Il quindicennale è stata l'occasione propizia per riprendere possesso di un disco alla sua uscita amato e consumato fino alla saturazione. Sembrano passati 15 giorni e le sensazioni restano immutate, il respiro di quei tempi, l'eccitazione per una grande band che sprigionava ciò che cercavamo e volevamo udire.
E così ecco che la Chemikal apre i cassetti e ci regala un intero cd di versioni alternative e rarità che ci rallegrano. Inutile e superfluo dilungarsi su Cody, che forniva una conferma chilometrica quasi insperata dopo la bomba di Young Team. Soltano una manciata di citazioni per la monumentale Kappa, per la confidenziale e caldissima title-track e per l'atmosfera di May nothing but happiness...
Il cd bonus include un paio di estratti da compilations dell'epoca (di cui scrissi qui), alternate-takes registrate prima delle sessions definitive in maggior parte piuttosto notevoli, l'intero EP Travels in constants e due inediti assoluti che testimoniavano uno stato di grazia stellare: la brevissima elegia di Satchel Panzer e la tensione spasmodica rimasta inesplosa di Spoon test. Ristampa più che meritoria.

giovedì 16 giugno 2016

Sleaford Mods ‎– Divide And Exit (2014)

Una delle bands più chiacchierate degli ultimi 2 anni, il duo di Nottingham, è sostanzialmente una truffa. Lo dicono non soltanto i fatti, ma soprattutto le cronache live, in cui il verboso Williamson srotola tutte le sue invettive mentre il compare Fearn schiaccia il tastino del playback facendo partire le basi e poi se ne sta a lato con una bottiglia di birra in mano, facendo su e giù con la testa.
Ma se si ignora quest'aspetto tutto sommato secondario, i due dischi rilasciati negli ultimi 2 anni sono fra le cose più irresistibili nell'ambito intrattenimento di questi tempi. In un certo senso è la classica scoperta dell'acqua calda, che premia la semplicità prima di tutto. Difficile definirlo hip-hop. Williamson è il tipico over-40enne incazzato che non è riuscito a sfondare nel mondo della musica, non certamente un rapper, Fearn un dj alternativo che srotola basi minimali di basso e batteria di squisita matrice post-punk. Il primo pensiero complessivo cade sui Fall, ma certe tracce fanno pensare addirittura ai grooves scurissimi dei Joy Division quando non a Metal Box, con una buona dose di bpm in più. Se si considera l'effetto simpatetico del pesante accento cockney di Williamson, succede che questa roba dà dipendenza pressochè immediata. Poi magari fra un anno o due la rivedrò come spazzatura, ma chi se ne frega. Forse la natura della truffa è proprio questa, di stregare e bruciare rapidamente come fece il miglior punk.

martedì 14 giugno 2016

These New Puritans ‎– Field Of Reeds (2013)

In decisa progressione rispetto al precedente, i Puritani ridotti a trio dopo la defezione della tastierista sono pervenuti ad un lavoro ancor più serioso grazie all'utilizzo ancor più massiccio di elementi orchestrali, grazie ad una brusca frenata dei ritmi, con il songwriting di Barnett sempre più focalizzato su una stasi sinfonica.
Si alternano aggraziate figure pop ed arie drammatiche come se nulla fosse, in un contesto che procede con estrema lentezza per dare la giusta enfasi. Con intelligenza ed estro Barnett ha saputo evitare il pericoloso scivolone che facilmente l'avrebbe potuto portare nel fossato ambient-rock; non nego che certi tratteggi (soprattutto il capolavoro del disco, i 9 minuti di V - Island Song) facciano nominare la quasi innominabile parola prog, ma a braccia aperte mi sento di dire che è il loro miglior disco. E il percorso stilistico potenziale rimane aperto a chissà quali altre suggestioni....

domenica 12 giugno 2016

Ennio Morricone ‎– 4 Mosche Di Velluto Grigio (1971)

La data di realizzazione del film di Argento reca 1971, ma ci vollero quasi 30 anni perchè questa magnifica soundtrack vedesse la luce in forma autonoma. Da allora le ristampe si sono ripetute quasi a pioggia.
Poco da dire su una delle tantissime prove di classe del Maestro, che sbrigava le formalità di servizio con la sigla accattivante e grintosa per rock-band con organo in bella mostra e l'intimismo sinfonico per i vocalizzi eterei della Dell'Orso, posti in questa ristampa all'inizio ed alla fine della scaletta.
Ciò che rendeva speciale la sonorizzazione (e con ogni probabilità anche il film, che non conosco) era il cuore pulsante della suite omonima divisa in 6 capitoli, che spazia fra una splendida marcetta per organo, un soul-funk gigioneggiante, allucinazioni sinfoniche come altre ne farà, divagazioni atonali ispirate al lavoro fatto col Gruppo di I.N.C., jazz sfatto e sfibrato di ogni costrutto, suoni concreti, astrattismi pianistici. 
Horror, Maestro, please....

venerdì 10 giugno 2016

Architeuthis Rex ‎– Dark As The Sea (2010)

Passo d'esordio di un duo misto italiano dedito ad un drone-noise che per certi versi potrei definire mediterraneo, nel senso più nobile ed inedito.
L'immaginario è chiaramente fangoso ed ottenebrante, ma anche molto dinamico grazie all'utilizzo di percussioni: Gallucci fornisce strati e loops di chitarra che spesso debordano in un terreno psichedelico, per non dire shoegaze-metallico. La Marongiu rilancia con tappeti di organo e synth funzionali, per la verità non sempre udibili ma molto importanti alla causa. A differenza di entità simili provenienti da paesi anglosassoni, generalmente più feroci ed intimidatori, ciò che rende mediterraneo il suono di AR è questa sensibilità fra il misticheggiante ed il trasognato che spesso affiora fra le muraglie innalzate. Avvincente.

mercoledì 8 giugno 2016

Red House Painters ‎– Ocean Beach (1995)

E' giunto il momento di ricongiungermi con un disco col quale ho sempre avuto un rapporto conflittuale: lo acquistai al momento dell'uscita, tutto trepidante ed ansioso di gustarmi una replica dell'Ottovolante e/o del Ponticello. Ed all'ascolto non dico che restai deluso, ma soltanto un po' raffreddato, nell'ingenuità della tarda adolescenza che spesso fa cadere dall'alto quando si hanno aspettative troppo alte.
In tutta verità Kozelek, al di là del materiale portato in dote, fece la scelta giusta e produsse un disco dai tratti distesi e rilassati, quasi del tutto privo degli sconquassi emotivi che l'avevano reso un dio dello spleen. Poche le scosse elettriche, anzi soltanto una, il finale acido di Moments. A parecchi anni dal mio ultimo di Ocean beach, mi commuovo quasi all'ascolto di Summer Dress, Red Carpet, al break per archi di San Geronimo, al chorus di Over my head e ad altri  piccoli momenti che lasciano nel dimenticatoio quelli di noia (non li cito, in fondo a cosa serve?). Affetto, sempre.

lunedì 6 giugno 2016

Screams From The List 47 - Jean Cohen-Solal ‎– Captain Tarthopom (1973)

Per chi vuol farsi affascinare ed in un certo senso anche rapire dai suoni ancestrali del flauto (traverso, dolce, flautino), i due dischi fatti uscire dal francese Cohen-Solal nel '72/'73 sono una piccola meraviglia. Soprattutto perchè il transalpino non era soltanto un semplice flautista, ma anche compositore, pianista e contrabbassista e prima di diventare un session man di servizio, ebbe l'ambizione di realizzare questo particolare mix di progressive, psichedelia e jazz-rock con l'ausilio di una band alle spalle di tutto rispetto. Nella scaletta di Captain Tarthopom spiccano la title-track, una marcetta che ricorda curiosamente l'inizio di No Harm dei Faust, il fuzz-jazz scuro di Ludions e la piece d'avanguardia di 10 minuti Memories d'un ventricule, che ricorda la A Saucerful of secrets di Ummagumma memoria, col flauto al posto della chitarra. Per nulla scontata ed apprezzabile via d'incontro fra sperimentazione e melodie arcaiche.

sabato 4 giugno 2016

P16.D4 ‎– Distruct (1984)

Successore del magnifico Kuhe in 1/2 trauer, ingiustamente considerato inferiore ad esso, Distruct fu semplicemente un progetto diverso. In pratica i tedeschi si fecero inviare del materiale da progetti artisticamente affini (NWW, Nocturnal Emissions, persino Merzbow, ed altri) e lo manipolarono, in un'ottica piuttosto lungimirante di collaborazione a distanza.
Ne uscì un contenitore surreale oltre misura, ovviamente frammentatissimo ma talmente ribollente ed assurdo da trovare la conferma della genialità dei P16.D4; d'altra parte la fase di lavorazione durò oltre un anno e questi frastagliati collage dadaisti non furono frutto del caso. Dopo diversi ascolti, lo sviluppo è sempre una sorpresa.

giovedì 2 giugno 2016

Neptune – Gong Lake (2008)

Il disco più ordinario dei Neptune, voluto fortemente dalla Table Of The Elements che richiese loro più rock come dichiarato in un intervista a Blow Up, è anche quello forse meno rappresentativo ma se qualche nostalgico cerca cattive vibrazioni da noise-rock anni '90 con un ottica più arty qui trova soddisfazione.
A dimostrazione di un talento intrinesco che trascende le sonorità bizzarre degli strumenti autocostruiti, già evidente in Intimate Lightning, in Gong Lake il power-trio guidato da Sanford elabora 10 pezzi contorti, sincopati, per farla breve come se gli Shellac jammassero coi Faust, oppure come se i Cop Shoot Cop jammassero con gli Einsturzende Neubauten, con grande enfasi sul suono di batteria classico alla Albini che è sempre valore aggiunto. Micidiale, e non è certo inferiore agli altri loro dischi perchè meno colto.