domenica 30 ottobre 2016

Mamiffer ‎– Hirror Enniffer (2008)

Il tocco fatato, razionale e fragile di Faith Coloccia è l'anima di Mamiffer, progetto avviato con il compagno di vita Aaron Mr. Isis Turner e qui al debutto.
Uno stile, quello della pianista di Seattle, che è tanto elementare quanto speciale: frasi funzionali, per nulla complesse, di impatto emotivo rilevante, tendenti ad un umore medio-autunnale. Turner appoggia con chitarre ed effetti generalmente aggressivi ma che non invadono mai il campo, restandosene a volume molto più basso. Completa il quadro una saltuaria (ma necessaria per supportare certi disegni) sezione ritmica e qualche sventagliata di violoncelli. Ne esce un quadro spoglio ed avvolgente al tempo stesso, dove le splendide melodie circolari della Coloccia (da citare almeno This Land, Black Running Water, Suckling a dead litter) sono insistenti ed incisive fin quasi a raggiungere un livello di magica ipnosi che ricorda i Three Mile Pilot di Piano Plus/Piano Minus e dintorni. O che la fa immaginare come contraltare femminile di Daniel O'Sullivan.

venerdì 28 ottobre 2016

Michael Stearns ‎– Lyra Sound Constellation (1983)

Ingiustamente incasellato nella categoria dei new-agers, forse più per una congiuntura temporale, l'americano Stearns in realtà è uno sperimentatore di strumenti auto-costruiti, un elettro-acustico di tutto rilievo. Tutt'oggi attivo, col passare degli anni è diventato anche sonorizzatore per cinema e documentari.
Già discograficamente operativo da qualche anno, nei primi '80 costruì una lira gigantesca che diventò protagonista, insieme ai synth, del tenebroso ed imponente Lyra Sound Constellation. Disco che può essere considerato un anello di congiunzione fra le pagine più temibili dei Tangerine Dream e la dark-ambient che andava a nascere proprio in quegli anni con Lustmord.
Il propagarsi delle onde generate dalla lira si vanno ad impastare con i bordoni dei synth e degli audio-generators, per un composto glaciale che lascia pochissimi spazi tonali. Più che una costellazione Stearns sembra voler sonorizzare l'esplorazione di un cunicolo buio e popolato dai fantasmi più inquietanti. L'insieme è pauroso e lascia il segno.

mercoledì 26 ottobre 2016

Flying Saucer Attack ‎– Instrumentals 2015 (2015)

L'inaspettato ritorno di Dave Pearce, senza Rachel Brook, a 15 anni dall'ultimo album, Mirror. Strumentali del 2015, numero 15. Numerologie?
Cos'è successo in questi anni Pearce lo accenna in un'intervista, in cui dichiara di essere andato un po' fuori di testa, di essersi isolato, per un lungo periodo persino di aver lasciato perdere la musica. Ma parte di Instrumentals risale ad un decennio fa, quindi questo ritorno rappresenta una specie di ponte col passato, con quanto rappresentò FSA negli anni '90, quell'esserci ma sempre un po' defilati, fuori dallo shoegaze, fuori dai riflettori ma con vasta gratificazione. E con buona lungimiranza nei confronti delle tendenze sotterranee (soprattutto americane) degli anni a seguire.
Dalla psychedelia rurale però ne è passato di tempo, e questa antologia degli anni bui di Pearce testimonia comunque un cambiamento. Nessuna voce, nessun'accompagnamento, soltanto le chitarre e i pedali; del romanticismo galattico che caratterizzava i momenti più toccanti, ben poca traccia. Il Pearce di questo album è un uomo turbato, che per come lo conoscevamo oggi suona persino apocalittico. Nuvoloni neri in arrivo, tempeste dietro l'angolo, miraggi desertici, allucinazioni scultoree, e poi anche qualche melodia serena e rassicurante, di quelle che ti fanno sollevare, quasi commuovere. 
Questo il senso dei ritorni: welcome back Dave, non ci speravamo più che ricomparisse ed è bello che egli ritorni con qualcosa di diverso, che si sente che è suo ma scandisce il passare del tempo, inesorabile e forse persino un po' pessimista. Ma che strega istantaneamente.

lunedì 24 ottobre 2016

Vic Chesnutt ‎– West Of Rome (1992)

Cantore del malessere di vivere confinato in una sedia a rotelle, Chesnutt è stato uno di quei personaggi intensissimi che mi sono perso in un'epoca in cui avrei potuto amarlo ardentemente. Non dico che sarebbe stato all'altezza degli dei, ma di certo lo avrei consumato come un Jason Molina d'annata. Le sue canzoni meste ed ariose al tempo stesso contenevano un fuoco espressivo dal dna inconfondibilmente americano, fior di canzoni, con una voce unica, strascicata, allungata, da brividi quando si arrochiva. Pupillo di Michael Stipe che lo portò alla ribalta e gli produsse i primi due album, il secondo dei quali è West Of Rome; semplice e disarmante, con ben 22 pezzi fra acusticherie, tradizionalismi ed impennate indie, di cui una metà memorabile e l'altra semplicemente bella.
Qualche anno fa, dopo diversi tentativi, Vic ce la fece a togliersi la vita dopo diversi tentativi, povero in canna ed indebitato. Ci starebbe un film, su quella vita maledetta.

Kukan Gendai - Live In Area Sismica, 23/10/2016

Clamoroso colpo dell'Area Sismica che questa sera si era assicurata la prima performance in Italia dei Kukan Gendai, il fenomenale avant-rock-trio giapponese che avevamo conosciuto grazie alle meticolose ricerche di Savini su Blow Up.
Anzi, più che sera, tardo pomeriggio, dato che l'orario schedulato per il live era alle 18.00, piuttosto bizzarro a dir la verità ma perchè no, gradito soprattutto per chi ha famiglia; possibile soltanto di domenica, probabilmente, ma la reputo una trovata abbastanza geniale. Intorno alle 18.40 i tre (piuttosto giovani all'apparenza, nonostante le cronache datino la fondazione al 2006) salgono sul palchetto e come per magia le premesse che avevamo intuito su disco diventano realtà, visibile e soprattuto udibile.
Spettacolari. Sostituirei la parola math-rock con sci-rock, viste le geometrie impossibili, gli incastri millimetrici, le svolte spericolate che questo crudissimo avant-funk-core mette sul piatto. Tutto ruota attorno al batterista Yamada, che ineffabile e chirurgico guida le ritmiche ultra-spezzettate di quest'oretta scarsa, suonata senza prender fiato un'attimo. Viene da chiedersi quanto tempo passino a provare, vista la coesione paurosa con cui il bassista Koyano ed il chitarrista Noguchi (che si occupa persino di vocalizzi fugaci ed isterici, a seminare ancor più tensione in un suono già nervosissimo) lo francobollano e fanno singhiozzare le costruzioni impossibili dei KG. Una band così poteva uscire soltanto dal Sol Levante. Applausi a loro ed all'Area Sismica.

sabato 22 ottobre 2016

Oiseaux-Tempête ‎– ÜTOPIYA? (2015)

Progetto francese fortemente ispirato dalla geo-politica, il che già di per sè è abbastanza peculiare. ÜTOPIYA?, il loro secondo disco pubblicato dalla veterana belga Sub Rosa, ci rivela quindi una band fuori dal proprio tempo, che scruta l'Europa ed i suoi drammi contemporanei, in questa sede soprattutto focalizzati sulla Grecia. Punti di vista che ricordano i complessi impegnati di altre epoche, insomma; a noi interessa di più l'aspetto musicale, che potrà anche essere molto influenzato dagli aspetti toccati (peraltro in ottica quasi del tutto strumentale, a parte qualche recitato e voci pescate dall'etere) ma sta in piedi per conto suo. Un post-post-rock dalle venature apocalittiche, gotiche, lisergiche, che concettualmente può ricordare i Godspeed You Black Emperor; tuttavia i transalpini sanno amministrare con saggezza la materia (eccetto qualche didascalia funzionale, che si perdona a braccia aperte), e consegnano un lavoro complesso, che evoca visioni su visioni. Che fa riflettere.

giovedì 20 ottobre 2016

Stephan Micus ‎– Implosions (1977)

Autentico missionario delle musiche tradizionali mondiali, il tedesco Micus conduce da 40 anni un documentario sugli strumenti provenienti dalle regioni più remote del globo, di cui si impossessa e con cui crea musiche avventurose sotto l'egida dell'elitarissima Ecm.
Un aspetto molto autorevole di questo personaggio è che si tratta forse dell'unico ad aver fatto parecchi dischi senza prendere neanche un'insufficienza da PS. Implosions vedeva un Micus ancora piuttosto giovane (24 anni) ma già pienamente intraprendente, a far bella mostra nella cover interna degli strumenti utilizzati con relativa ed esauriente didascalia sulle origini. Poco da dire sul contenuto, uno splendido viaggio pregno di misticismo in cui spadroneggia la monumentale As I crossed a bridge of dreams, 21 minuti di pura estasi intimista per chitarra acustica, sitar e voce evocativa; ma di poco inferiore è la facciata B, che semmai accentua il titanico, immancabile e fatal spirito teutonico, non affrancabile neanche da contesti così export. Bellissimo.

martedì 18 ottobre 2016

Eric Chenaux ‎– Skullsplitter (2015)

Cantautore canadese che da anni gioca in casa Constellation, ma rifugge facili classificazioni. Per la verità attivo fin dalla fine degli anni '80, in cui faceva parte di una band di alternative-grunge (Phleg Camp), oggi Chenaux è fautore di un raffinatissimo e sbilenco croonering in cui languide composizioni in odore di soft-jazz vengono trasfigurate in virtù di un chitarrismo manipolato, nonchè scandite da un falsetto educato ed espressivo. In fondo in fondo sarebbe pop perchè le melodie sono molto cristalline e lineari, ma il modo in cui la chitarra viene piegata e ritorta contribuisce a creare uno stile parecchio originale, che per certi versi ricorda concettualmente il Robert Wyatt più sereno e disteso. Con un unica eccezione, la splendida title-track che si affida ad un sottofondo simile ad un assortimento di fiati per creare un'aria struggente ed evocativa.

domenica 16 ottobre 2016

Goblin ‎– Roller (1976)

Più che il celeberrimo Profondo Rosso, Roller fu l'attestazione dei Goblin a band di eccellenza di quella fase post-progressive che riservò visibilità a ben pochi acts italici, nonchè gesto di affrancamento dall'ingombrante soundtrack che li aveva portati alla ribalta. Da notare inoltre che un paio d'anni dopo ci avrebbero riprovato innestando anche il cantato sul Bagarozzo Mark, che nonostante il lodevole proposito non raggiunse risultati significativi.
Invece Roller svariava fra temi cupi e liquidi, parentesi pinkfloydiane, girandole funk, pastoralità inattese, giravolte jazz-rock con una coesione mirabile. Con la ciliegina del lungo Goblin, una sorta di dichiarazione d'intenti auto-omonima, splendido viaggio multiforme dagli orizzonti ampi, con ogni probabilità la cosa migliore che abbiano mai realizzato.

venerdì 14 ottobre 2016

Donato Epiro ‎– Fiume Nero (2014)

Raccolta di tracce provenienti da due uscite nel biennio 2009/10 sulla Stunned di Phil Giacchi di Magic Lantern / Super Minerals. Epiro, che abbiamo già conosciuto nelle fila del temibile duo occult-psych Cannibal Movie, da quasi un decennio pubblica la propria musica nelle maniere più undeground possibili: cassette, vinili limitatissimi, split, compilations, tutto spezzettato in modo che sia difficile dare un giudizio ben focalizzato. Prendendo in considerazione Fiume Nero come se fosse un disco a sè stante, però, si rivela un talento visionario come pochi nel maneggiare materiali così caldi (per non dire tropicali, viste le atmosfere da giungla ricorrenti). Tribalismi, saghe esoteriche, sballi da magia nera, immersioni hauntologiche, allucinazioni galattiche; Epiro è uno stregone moderno con capacità magnetiche notevolissime.

mercoledì 12 ottobre 2016

Bongwater ‎– Double Bummer (1988)

E' così dannatamente lungo che al primo ascolto l'ho snobbato: mi ci sono voluti 3 viaggi lavorativi. Ma già al secondo emerge la dissacrante, surreale vena che Kramer e la Magnuson infondono ed il loro senso dell'assurdo psichedelico. E soprattutto al terzo, le gag passano in secondo piano e resta la musica: un miscuglio ridondante di cristallini jingle-jangle, di stoner fangosi, di cover irrispettose, di collage indefinibili.
E' un opera rock nel suo senso più autentico, diretta erede degli eccessi dadaisti degli anni '60/70 ma con una visione a metà fra il nichilismo e il ludico. Alla fine del terzo ascolto, penso di averne capito un po' di più ma poi, scegliendo a caso fra una delle 38 tracce, mi ritiro dalla sfida. Double bummer è un mattone che può lasciare interdetti, ma riserva sorprese ad ogni angolo.

lunedì 10 ottobre 2016

Tera Melos ‎– Untitled (2005)

Poteva esistere una versione pop degli Hella? Ce l'ha fatta questo gruppo californiano che in occasione del debutto omonimo sfoderava un math-rock irradiato da riffs chitarristici a tratti persino accattivanti.
Con un bagaglio tecnico di prim'ordine come si conviene ad ogni math-rocker, i TM si rivelavano pirotecnici ed acrobatici, ma non fini a sè stessi. Influenzati dal post-rock, dai Don Caballero e dal post-hardcore, sapevano tirar fuori piccoli capolavori di girandole come Melody 2 e Melody 5 che contagiano all'istante e domandano un riascolto quasi immediato. Peccato soltanto per Melody 8, una lungaggine (29 minuti!) di caos effettato che decisamente non li metteva in luce come illuminati improvvisatori.
Comunque parecchio consigliato per i fan dei gruppi citati, anche se affini soltanto per intenti.

sabato 8 ottobre 2016

Totsuzen Danball - Yokushi Oto Chikara (1991)

Diec'anni dopo il simpaticissimo debutto, e le collaborazioni con Frith e Coxhill, i TD che tornavano in pista con alle spalle un lunghissimo silenzio erano una band decisamente migliorata sotto il punto di vista tecnico, per non dire professionale. La produzione pulita ma non troppo di Yokushi Oto Chikara denotava comunque un suono ancora una volta indefinibile nella sua semplicità, straniante ed accessibile al tempo stesso. Restava immutato lo spirito giocherellone del trio, alle prese con 10 pezzi di rock humour-cartoonistico (mia personalissima impressione, vista la totale impossibilità di apprendere info in merito) con qualche vaga reminescenza new-wave; elementi peculiari il vocalist, monotonale e spassoso (qualcuno si ricorda Mai Dire Banzai, che fra l'altro andava in onda proprio in quegli anni?) e questo tintinnio-effetto chorus costante, dall'inizio alla fine, che assume i tratti della lobotomia dissacrante. Simpatia al potere.

giovedì 6 ottobre 2016

Clinic ‎– Visitations (2006)

In tema degli inglesi Clinic, è quasi inevitabile stilare un parallelo con i Clientele; coetanei di fondazione, esordienti nello stesso anno, dotati di un dna profondissimamente britannico e soprattutto vintagisti in termini di ispirazione. Però entrambi capaci di crearsi un appeal tutto personale e di scrivere piccoli-grandi pezzi.
Se però la band di Macclean ha sempre prediletto atmosfere notturne ed autunnali, i Clinic hanno sempre rappresentato l'estate; sound frizzantissimo, passo sostenuto, flower-garage-power. Uno stile di cui non me ne sarebbe fregato un granchè se non fosse che Visitations è una raccolta di pezzi irresistibili, e poco importa se alla fine si assomigliano abbastanza. Un ponte ideale fra gli anni '60 e il 2000, degnamente arrangiato, con una voce atipica che sembra un ghigno, i riff di chitarra spigolosi, le cornici di farfisa che fanno tanto psichedelia: è un trionfo della semplicità.

martedì 4 ottobre 2016

Screams From The List 51 - Semool ‎– Essais (1971)

Trio francese di molto probabili non-musicisti o comunque alle prime armi, che rappresentarono un'influenza capitale sui primi NWW per quanto riguarda l'approccio più nichilista nel senso cerebrale del termine. In rete ho letto un mini-dibattito che discuteva se nel caso di Essais sia lecito parlare del labile confine fra genio e laziness (svogliatezza, ma forse anche inettitudine generale); quel che è certo, non lascia indifferenti. Ma il dubbio di questo confine, dopotutto, non è stato forse una caratteristica costante anche dell'intera carriera di NWW?
Ciò che registrarono (letterale, nella metropolitana parigina Rue Saint Maur, ma che sia una presa in giro?) fra il '69 e il '71 è un assortimento di bizzarrie che definire sperimentazione sembra un po' arduo. Da notare che, incredibile ma vero controsenso, fu ristampato per la prima volta nel 2000 dalla prog-label italiana Mellow e in vinile appena l'anno scorso dalla francese Soufflecontinu, specializzata in recuperi proprio della List.
Innanzitutto la facciata A mi ha fatto venire un colpo, perchè presenta lunghi e spastici soliloqui di chitarra acustica sbilenca conditi da qualche effetto che dopotutto assomigliano abbastanza a quanto realizzammo io e il mio amico Berto in registrazioni casalinghe  una trentina d'anni abbondanti dopo, incluse le citazioni concrete di Pink Floyd e Black Sabbath (!). Ma in tutta sincerità le cose più interessanti arrivano a partire dal saggio n. 5, in cui i Semool iniziano a fare sul serio con i nonsense; assurdità di ogni, pianoforti usati come percussioni, sonagli, triangoli, anticipi industrial, nastri al contrario, sarabande affini ai Red Krayola delle Free form freak out, languide ed improvvise improvvisazioni più musicali, e nel finale un'altra citazione demenziale dei BS, con l'assolo inascoltabile di Paranoid.
Intendiamoci, ci vuole del fegato per ascoltare Essais, ma l'ha detta bene Vlad: i più sbarazzini di noi non potranno sottrarsi all'ascolto.

domenica 2 ottobre 2016

Suishou No Fune - Prayer for Chibi (2008)

La serie è "figli illegittimi di Keiji Haino"; nel caso di questo duo di Tokyo, il maestro viene concettualmente tributato in una versione light, altrettanto spirituale ma più misurata e raccolta.
Uomo e donna, due chitarre, due voci che si alternano, due ore piene per 8 pezzi. L'estremismo giapponese è sempre presente, in qualsiasi contenitore lo si voglia sistemare. Quello degli SNF è il massimalismo dell'anima, con chilometriche divagazioni che nuotano nella psichedelia più antica e consunta, con le chitarre arpeggiate delicatamente o con le corde allungate, diluite ed attorcigliate. Le voci, attonite, sognanti e stonate, a rincorrere le visioni e i miraggi. Niente batteria, niente ritmi.
Prayer for Chibi è in larga parte molto tranquillo e rilassato, ma quando si accendono i distorsori (i 16 minuti di Resurrection Night) appare ancora più marcatamente lo spirito dissennato di KH, soltanto in un formato meno scomposto. Questo per non distogliere comunque dal vero nucleo pulsante degli SNF, che resta l'universo onirico e lucidamente visionario di Pirako e Kageo, due viaggiatori extra-sensoriali.