domenica 30 aprile 2017

Scream From The List 58 - Martin Davorin Jagodic ‎– Tempo Furioso (1975)

Dalla famigerata serie Nova Musicha della Cramps, un episodio che ha molti aspetti in comune a quello del rumeno Mieranu che in lista lo precedette di un solo numero: entrambi di provenienza dall'Europa dell'Est (croato di Zagabria), trapiantati in Francia per ottenere delle cattedre, entrambi con zero titoli in discografia fino a quel momento. Per Jagodic Tempo Furioso resterà primo ed unico; le poche info reperibili parlano di un artista che ha continuato più che altro a convogliare il suo output sulla grafica e sul multimediale.
Altro punto in comune con Mieranu, il coraggio e l'ostilità della proposta, che è difficile considerare musicale: furioso è senz'altro un aggettivo programmatico di questi 43 minuti di temibile follia avanguardistica. A vederlo in foto, Jagodic sembra un mattacchione privo di diverse rotelle in testa, ed il vinile non faceva nulla per smentirlo: gli oscillatori (forse l'unico attrezzo consueto e prevedibile dell'opera) seminano il panico, i droni minacciosi squarciano il silenzio, le voci trovate ristabiliscono un flebile contatto con la realtà ma finiscono per fare quasi più paura, i found sounds da foresta equatoriale solleticano la fantasia, i marginali interventi di fiati e percussioni fanno venire la tachicardia. Il tutto permeato di un magnetismo oscuro e potente.
La dimostrazione che quando un artista è a tutto tondo, può sorprendere in qualsiasi applicazione. Quanto erano geniali quelli della Cramps.

venerdì 28 aprile 2017

Peter Jefferies ‎– Electricity (1994)

Dopo il fondamentale debutto in proprio, PJ ribadiva e santificava il suo songwriting unico in un disco che rasentava la perfezione formale in ogni sua sfaccettatura. Il primo aspetto che risalta sta nella scaletta: ben 17 tracce fra il singolo ed i 7 minuti di durata, con una saggia alternanza di stili che rende Electricity una raccolta straniante, che non perde mai il controllo neanche nei momenti più caotici, permeato di un rigore glaciale, una corazza che protegge un dna preziosissimo e per certi versi cautamente proiettato verso l'apoteosi che 4 anni dopo avrebbe lanciato il neozelandese verso l'olimpo dei grandi.
Sostanzialmente, tre tipi di pezzo: la compassata ballad pianistica a tasso melodico distaccato, la sfuriata acida a passo marziale (con l'aiuto di alcuni chitarristi ospiti fra cui il più conosciuto Bruce Russell dei Dead C) e l'incrocio di ambedue, un prototipo ferreo e gracile al tempo stesso. Difficile dire quale aspetto prevalga, perchè Electricity ha le movenze di un trapezista che passeggia su un filo sospeso nel vuoto, senza rete di protezione sotto. Fa trattenere il fiato ed emoziona, per quanto crudele e spietato sia.

mercoledì 26 aprile 2017

Oren Ambarchi ‎– Quixotism (2014)

Episodio piuttosto trascurato, considerato minore se non deludente più o meno da tutti i pareri che contano. Eppure Quixotism a mio avviso è un'altra prova di classe di una poetica, quella dell'australiano, in grado di scardinare quel confine indefinibile fra elettronica ed acustica, fra polo ed equatore, fra distacco e coinvolgimento.
Strutturato in una suite divisa in 5 movimenti, Quixotism fa sfoggio di una nutrita schiera di ospiti, di cui i più famosi sono senza dubbio O'Rourke e Brinkmann. E' un minimalismo policromatico, quello di Ambarchi, che fa dell'ipnosi il suo punto forte: la ritmica ha una componente fondamentale, specialmente quando il battito si fa incessante e metronomico, una sorta di incrocio fra un martello pneumatico soft ed una bomba ad orologeria. Mentre tutto intorno la chitarra fantasmatica produce nebbie polverose e caleidoscopi immagignifici, si susseguono i tocchi di piano, le svisate degli archi (nientemeno che l'orchestra sinfonica islandese!), le striature di synth, è tutto un gentile mulinare di suoni e colori che il disco finisce senza che ce ne accorgiamo.E lo facciamo ripartire.

lunedì 24 aprile 2017

Green River ‎– Rehab Doll (1988)

L'atto di nascita del grunge, perlomeno quello più mainstream, sotto forma di album completo. I GR avevano già pubblicato un trio di uscite brevi prima di sciogliersi nel 1987, e l'anno successivo la Sub Pop fece uscire questo testamento fulmineo. Da qui partirono due costole principali; da una parte i Pearl Jam con Gossard ed Ament, dall'altra i Mudhoney con Arm che si riunirà con Turner, già uscito dal gruppo. Superfluo constatare quale sia la mia preferita; la voce del biondo, immortalato in un carismatico primo piano sulla front cover, è la ciliegiona di un suono chiassoso e trascinante, che traeva senza dubbio linfa dall'hard-rock dei '70. Al netto di una batteria pestona e un po' prevedibile, gli 8 pezzi sono tutti pressochè irresistibili e basta non pensare che questo non è Il grunge che preferisco per apprezzarlo, al primo ascolto.

sabato 22 aprile 2017

Pleasure Forever ‎– Alter (2003)

Chiudo la discografia del grandissimo trio di San Francisco che ha lasciato un esiguo manipolo di fans come me, assetati di altro art-maudir-core che purtroppo non è mai più arrivato. Assieme al debutto ed alla raccolta di out-takes e rarità, Alter se ne sta lì nella sua lucentezza abbagliante, a farsi rimirare ed ascoltare ed ascoltare e rimirare ed ascoltare. Pitchfork gli diede un 8.4, per me è questione di decimali: un capolavoro che vale un raro 8,5.
Di tutte le 12 tracce in scaletta, non ce n'è una-che-una che faccia scendere il livello, al punto che scegliere un YT rappresentativo diventa un problema insormontabile, risolvibile soltanto con un imponente multi-traccia. Poco da aggiungere, se non che rispetto al debutto risaltavano di più le doti di Rothbard, il cui stile sempre più barocco al piano donava maggiore profondità e lirismo al tutto, portandosi dietro la chitarra di Hughes, che non rinunciava alle esplosioni ma rispondeva perfettamente al compagno. Un capolavoro da consumare fino alla noia, che i fan più aperti di Nick Cave e tutti quelli dei Black Heart Procession avrebbero dovuto ascoltare.

giovedì 20 aprile 2017

Elvish Presley ‎– Black Elf Speaks (2003)

Dietro (l'infelice, diciamocelo) monicker di Elvish Presley nei primi anni Zero si è celato Tom Hohmann, il batterista dei grandissimi Usa Is A Monster. Dopo due cd-r autoprodotti, Black Elf Speaks è stato la prima ed ultima uscita ufficiale per lui, sull'etichetta harsh-noise Bulb Records.
Se penso ai furiosi prodotti contemporanei degli UIAM, questo è sorprendente perchè anticipa in qualche modo le derive light dei loro ultimi dischi, a dimostrazione di come Hohmann ne fosse molto di più che il batterista; era già un songwriter con delle idee personali e definite. Il meltin' pot fra le cantilene d'ispirazione degli Indiani di America, il folk psichedelico americano, il suono pastoso e stonato del muro di chitarre, le ritmiche dispari, le armonie vocali raddoppiate e curate, le figure solenni di tastiere, tutto questo assumerà un peso molto più rilevante su Space Programs. Questo di sicuro non sminuisce la figura del grande Langenus, ma rende Black Elf Speaks un disco decisivo in prospettiva.

martedì 18 aprile 2017

Fudge Tunnel ‎– Creep Diets (1992)

Tuffo nel passato, ai tempi di Rumore 2 la Vendetta su Planet Rock e di Indies, quella trasmissione su VideoMusic condotta da un tipo hipster-punk-metallaro che trasmetteva tante belle cose. Era da allora che non ascoltavo i Fudge Tunnel, trio di Nottingham che rilasciò 3 album nei primi '90 su Earache, nella cui scuderia erano un po' un anomalia in quanto molto più accessibili della media in catalogo.
Dico ciò perche fin dai primi due pezzi, Grey e Tipper Gore, che stimolano la mia memoria perchè legate alle due sopracitate: del primo ricordo un clip, del secondo di quanto la apprezzavo. Sono abbastanza rappresentativi del disco, in quanto manifesti espressivi dei FT: una specie di sludge-grunge atipico pur senza avere connotati innovativi nè destinati ad essere particolarmente ricordati. I chitarroni di Newport ed i ritmi boombastici sono chiaro simbolo di metallo rovente, mentre l'immediatezza epidermica dei pezzi richiamava la voga di Seattle, seppur ricoperti da una coltre di distorsioni incessanti. Il limite di Creep diets sta nell'essere parecchio monocromo (un paio di tracce addirittura assomigliano a delle precedenti), ma è di quella monotonia che, per dire, animava anche Meantime degli Helmet, che col tempo ho rivalutato. E, come quello, è invecchiato sicuramente molto meglio di altri limitrofi, nonchè del catalogo medio della Earache.

domenica 16 aprile 2017

Panda Bear ‎– Panda Bear Meets The Grim Reaper (2015)

Avevo lasciato Lennox all'uscita di Tomboy restantone un filo contrariato, pensando che i fasti di Person Pitch fossero irripetibili. Così solo con enorme ritardo ho ascoltato Meets the grim reaper, sorprendendomi del pronto riscatto che caratterizza un'altra coloratissima raccolta di irresistibili filastrocche.
Una decisa iniezione di elettronica caratterizza il nuovo corso del panda; i ritmi sintetici dominano ed i synth scorrazzano indisturbati, ma la sostanza non cambia. Lennox sa ancora perfettamente creare i suoi acquarelli di sapore estivo, così immediati che basta un ascolto per innamorarsene: almeno Sequential Circuits, Crosswords, Selfish Gene dovrebbero stare in un ipotetico greatest hits. Interessantissime anche le deviazioni, come la Tropic Of Cancer in cui fornisce una sua curiosa re-interpretazione dello Scott Walker sinfonico di fine '60, e la tenue e pianistica Lonely Wanderer, di una bellezza sconfinata.

venerdì 14 aprile 2017

Tank Of Danzig ‎– Not Trendy (1982)

Se non fosse stato allegato ad un Blow Up di un paio d'anni fa, Not Trendy probabilmente non l'avrei mai conosciuto. Leggendo soltanto recensioni, non mi ci sarei avvicinato. Invece l'italianissima Music 'A La Coque si è incaricata di recuperare questo valido prodotto della new-wave tedesca, un filone che in tutta sincerità non ho mai pensato di esplorare.
Ad ascoltarli a scatola chiusa, i TOD li diresti inglesissimi; un funk bianchissimo che si snoda di riflesso ai nomi più influenti nati pochi anni prima: Gang Of Four e A Certain Ratio (ritmi sostenuti, chitarra squillante e costante sugli accordi alti, basso zigzagante in primo piano), ma anche Contortions (l'uso di un sax starnazzante e quasi sempre atonale) ed il Pop Group più tradizionalista (o scevro di qualsiasi avanguardia). La particolarità principale del gruppo, paradossalmente, sta nella voce; il chitarrista Schengel infatti era in possesso di un rauco declamare il cui timbro ricorda abbastanza Henry Rollins, forse retaggio di un passato punk. A prescindere da questo, Not Trendy non è certo un capolavoro ma resta un'alternativa gradevolissima ai giganti inglesi del genere.

mercoledì 12 aprile 2017

Dévics ‎– My Beautiful Sinking Ship (2001)

Quando uscì My Beautiful Sinking Ship, consigliatomi dall'amico Pig, i Black Heart Procession erano all'apice di un non certo vastissimo ma consistente seguito nell'ambito alternativo. E la comparsa di questo gruppo losangeleno dall'impronta così europea, che dopo due dischi autoprodotti atterrava nel vecchio continente su Bella Union, fece sensazione: sembrava una versione del duo Jenkins/Nathaniel virato in rosa, con la bionda vocalist Sara Lov ad ingraziare le musiche composte dal deus-ex machina Dustin O'Halloran.
Proprio come nel caso dei BHP, si stabilì un rapporto speciale, seppur sotterraneo, fra i Devics e l'Italia. Tant'è che oggi O'Halloran risiede da noi (anzi, a pochissimi km da qui). Tornando al disco, è uno squisito campionario di melodie decadenti, a volte elegantemente incupite, a volte pigramente autunnali, a volte sognanti, spesso guidate da un pianoforte essenziale, di tanto in tanto impreziosite da qualche arco. Unico limite, il numero eccessivo di tracce, 15, di cui qualcuna dal sapore del riempitivo. Nulla a che vedere con lo shoegaze secondo me (come ho letto più volte); il paragone coi BHP dopotutto non era così oppressivo e ci poteva stare, per questo croonering al femminile di sublime gusto e fattura.

lunedì 10 aprile 2017

Unsane ‎– Unsane (1991)

Lo storico debutto del bloody noise-trio, un concentrato di terrore e ferocia allo stato puro. A distanza di un quarto di secolo, non mette meno paura che all'epoca.
Il suono denso, lavico e truculento della chitarra di Spencer (nonchè il suo grido cruento), il rombo ispido del basso di Shore, l'apocalisse tambureggiante senza soste di Ondras, in 12 tracce che in gran parte simulano bulldozer impietosi, ma anche varianti molto interessanti come spietate mattanze post-core-blues (Slag, Aza-2000) ed il pezzo finale, White Hand, che stabiliva un curioso ibrido da macelleria gotica.
Una violenza che resterà ineguagliata, insieme alla raccolta-necrologio per il defunto Ondras. Nei dischi successivi Spencer affinerà la barbarie con nuovi compari ed una maggiore professionalità, raggiungendo risultati notevoli fino al 1998.

sabato 8 aprile 2017

Ulver ‎– Perdition City (2000)

Tassello cruciale di una carriera sfaccettatissima, almeno quanto lo è stato il gioiello ambient-rock del 2007. A sentire Perdition city, davvero si stenta a credere che sia lo stesso gruppo che 4-5 anni prima proponeva una formula di black-metal che, per quanto personale fosse, era pur sempre black-metal. Definirlo un disco trip-hop sarebbe comunque riduttivo: come spesso accade ai musicisti sopra la media di approcciare a gamba tesa un genere assai distante dalle loro radici, il risultato è mal che vada peculiare.
Le ritmiche stentoree di quella tendenza ancora molto in onda ai tempi sono soltanto un accessorio, in fondo: Perdition city è un concept notturno, lascivo e misterioso in cui splendono le soluzioni melodiche più aperte (Porn Piece Or The Scars Of Cold Kisses, Nowehere/Catastrophe), gli strumentali drammatici ( Hallways Of Always, Tomorrow never knows) e gli esperimenti più oppressivi (We are the dead, Dead city Entries). Sopra tutto questo, l'iniziale e memorabile perla di Lost in moments. Ai tempi lo scansai del tutto, ma avrà diviso non poco le opinioni e continua a farlo (Pitchfork addirittura lo derise in maniera sguaiata). Io credo sia giusto che col tempo vada annoverato come un capolavoro di electro-art.

giovedì 6 aprile 2017

Bullet Lavolta ‎– The Gift (1989)

(2) Nel primo Rockerilla che comprai, Gennaio 1993, c'era un ampio servizio dedicato ai bostoniani Bullet Lavolta, che era di fatto un necrologio; la band si era sciolta da pochi mesi, dopo un secondo disco su major ed aver potenzialmente mancato il grande successo. Nel settembre 1991 avevano diviso un palco coi Nirvana il giorno prima dell'uscita di Nevermind, e la stagione era di quelle buone sul serio, ma non se ne fece nulla e l'oblio se li inghiottii.
Quasi ogni gruppo di cui lessi in quel mensile così rivelatorio per me solleticava l'appetito di musica nuova, ma passai oltre anch'io. Così, a distanza di 24 anni, me li ascolto per la prima volta e nonostante i pre-dubbi vengo piacevolmente assalito da un infuocato hard-grunge-stradaiolo che teoricamente mi dovrebbe esser quasi indigesto. Invece The gift, che fu il loro debutto, denota una freschezza invidiabile per l'anno di uscita e soprattutto una produzione bella piena e corposa che sarà così decisiva nel grunge di successo (Nevermind a parte, infatti). Coppia di chitarre fragorosissime, cantante invasato ma con criterio, pezzi assatanati di derivazione punk e heavy-metal, qualche punta melodica che fa pensare addirittura ai Cheap Trick; insomma gli ingredienti per discrete masse c'erano, ma la fortuna soffiava su altri lidi e Boston era già toccata ad altri.

martedì 4 aprile 2017

Bancale ‎– Ep (2008)

Gli amanti dei primi (comunque contemporanei a questa uscita) Bachi Da Pietra avranno tratto un sommario compiacimento nei confronti di questo trio bergamasco che se ne uscì col Cdr autoprodotto al quale è seguito un solo album vero e proprio nel 2011, Frontiera, e poi più nulla.
Difficile disquisire sulle possibilità di un evoluzione o di un cambiamento nella brillante formula dei Bancale; l'assetto richiama(va) decisamente quello del duo Succi/Dorella: niente basso, batteria minimale con assenza dei piatti, una chitarra meno tecnica e più concentrata sul feeling, un recitato filtrato indolente e strascicato ad opera del frontman Barachetti, impegnato a snocciolare paranoie ed alienazioni della vita moderna impregnata di frustrazioni lavorative e consumismo, e forse non a caso da una delle zone più produttive dell'Italia intera. 
Solo 5 tracce, che sanno di blues malato e di slow-core notturno; un suono fumoso e maledetto, la dis-eleganza di un croonering artigianale e, a modo suo, unico. Un gioiello, fin troppo breve.

domenica 2 aprile 2017

Scream From The List 57 - Pataphonie ‎– Pataphonie (1975)

Ennesimo grido francese, reso ancor più affascinante dall'aurea di mistero che ammanta la storia del gruppo. Esiste solo una bio dei Pataphonie, che parla in sostanza di una band di amici che se ne fregava (come tantissimi altri nei '70) dell'indigeribilità della proposta, una specie di deformità avant-jazz-rumoristica che manda letteralmente in pappa il cervello. Non si può parlare di astrattismo, di cerebralità o di concetti del genere: questi due lunghi pezzi, di certo improvvisati e registrati dal vivo, sputano il linguaggio dell'assurdo di un quartetto di gente che aveva senz'altro delle doti tecniche, che affiorano in tratti insospettabili e a più riprese. Ma dopo svariati ascolti, l'aggettivo è sconcertante, quello che impressiona per il coraggio. Non saprei neanche dire se e chi abbia influenzato. Per chi si vuole disorientarsi e sconvolgersi per una quarantina di minuti. Un esperienza terminale.