giovedì 31 agosto 2017

Jumbo – 1983 Violini D' Autunno (1992)

Leggendo i primi Rockerilla che compravo, ad inizio 1993, ero suggestionato dalle pubblicità della Mellow Records, dalle copertine e persino dai titoli. Violini d'autunno era uno di quelli che m'incuriosiva di più, lo trovavo molto bello ed evocativo. Soltanto anni dopo avrei ascoltato i dischi "famosi" dei Jumbo, un gruppo atipico per l'It-Prog soprattutto per la voce grassa ed imponente di Alvaro Fella, ma che non mi ha mai veramente entusiasmato. E "soltanto" 24 anni dopo ascolto Violini d'autunno, quasi per sfizio; col tempo ho imparato che Moroni della Mellow è stato molto generoso nei confronti dell'it-prog, andando a recuperare titoli rari e preziosi (ma a volte anche dispensabili, a dirla tutta); uno su tutti, il live 1977 della Locanda Delle Fate.
Invece di Violini D'autunno probabilmente non è mai fregato nulla a nessuno, soprattutto ai progsters, ed ha tutte le carte in regola per fregiarsi del titolo di brutto anatroccolo nel catalogo della fu etichetta ligure; qualità sonora piuttosto bassa, risalente al decennio per antonomasia di esilio del genere, totalmente scevro da componenti prog e quindi diversissimo da quanto realizzato in precedenza dalla band milanese.
In pratica andò che nel 1983 i Jumbo si riformarono per poco e registrarono una manciata di pezzi piuttosto lo-fi, rimasti in un cassetto per quasi diec'anni. E' facile intuire per quale motivo non potessero interessare a nessuno al tempo; si trattava di un funk-wave sanguigno e ritmico che, soprattutto in Italia, non aveva nulla a che fare con i generi in voga. Non si tratta certo di un capolavoro, ma lo trovo molto divertente e a modo suo ricercato, grazie alle ritmiche sincopate, alla chitarra torrenziale ed alla voce trascinante di Fella che a mio avviso funzionava molto meglio in questo contesto rispetto a quando scandalizzava fino alla censura il pubblico del prog nel 1972. Qui addirittura diventa dissacrante per i testi surreali, ai limiti dell'assurdo. Una gradevole curiosità.

martedì 29 agosto 2017

Scream From The List 62 - Lemon Kittens ‎– We Buy A Hammer For Daddy (1980)

Si sa, Stapleton è sempre stato uno che, per quanto fosse assurda la sua musica, ha sempre avuto un'occhio di riguardo alle faccende commerciali che lo riguardano. Logico quindi che We Buy A Hammer For Daddy, numero di catalogo 2 della sua United Dairies, facesse capolino nella List. Ma se lo ascoltiamo, allora continuiamo più o meno ingenuamente a credere alla meritocrazia perchè fu un disco che, per quanto fosse distante dalla galassia NWW, aveva dei punti in comune ed una sua peculiarità. Una specie di dada-post-punk cubista messo in piedi da due persone che innanzitutto sapevano suonare, i polistrumentisti Karl Blake e Danielle Dax, ma che facevano di tutto per dimenticarsene. Nella scaletta ci sono 16 episodi che più che pezzi definirei sketches, che passano con disinvoltura fra plumbee ossessioni alla Pil/Pop Group, vignette di cabaret teatrale, sfoggi di nonsense beefheartiani, scorie radioattive di elettronica lo-fi, collages di avanguardia e persino pause ambient. Un po' troppa carne al fuoco, sì, però tanto tanto saporita per i voraci gattini al limone.

domenica 27 agosto 2017

Grant Lee Buffalo ‎– Copperopolis (1996)

Di sfatare un mito non se ne parla, ma oggi riascoltando Copperopolis mi sono chiesto; per quale motivo non l'ho amato come Fuzzy e Mighty Joe Moon? L'ho ignorato ai tempi, ma se non ricordo male non fui l'unico. Com'era possibile che, nel periodo post-grunge, non venissero osannati nè dal pubblico nè dalla critica, al cospetto di tali dischi stratosferici?
A distanza di 20 anni, forse possiamo trovare delle risposte che abbiano un minimo di fondamento, e che stabiliscono un parallelo di ingiustizia con gli American Music Club (e scatenano la solita perchè i Rem sì e loro no?): non erano ruffiani, mettevano le canzoni ed il trasporto emotivo davanti a qualsiasi altra cosa, nei testi affrontavano temi scomodi che potevano scuotere e far riflettere. Cosa di cui forse gli americani non avevano molta voglia di fare.
Al di là di tutto questo, Copperopolis era un lavoro altamente rifinito, cesellato e soprattutto riflessivo: smaltite le urgenze espressive di Fuzzy, passate in vetrina le melanconie rurali di Mighty Joe Moon, Phillips non poteva fare altro che non ripetersi se non sfoderando altre 13 canzoni dal suo bagaglio di artigiano sopraffino. Meno rock e più folk meditabondo, Copperopolis ha solo il difetto di richiedere qualche ascolto in più per essere amato, con pochi compromessi.

venerdì 25 agosto 2017

3/4HadBeenEliminated ‎– Speak To Me (2016)

Come per magia, sono ricomparsi, quando meno me l'aspettavo. Sono tornati i 3/4HBE, seppur lontanissimi fra di loro, a 6 anni di distanza da quell'eccezionale viaggio extra-sensoriale che fu Oblivion. Questa volta Tricoli, Rocchetti e Pilia sono patrocinati da Oren Ambarchi, che ha pubblicato Speak to me per la sua etichetta; un'altro continente che li rilascia, un'altro tassello di meraviglie.
Solo due tracce, per un totale di neanche mezz'ora. Nekyia indugia su droni siderali e sul versante elettro-acustico più crudo, con inserti ritmici brevi e stranianti, per poi polverizzarsi a metà strada. Si attiva un'auto-campionamento: la fase di contrabbasso archettato ad opera di Pilia che giganteggiava sulla parte II di Oblivion, salvo una modifica pastorale sulla coda.
Più umana, per non dire armonica, I Am A Prune Cake On A Background Of Semolina che inizia come uno psych-folk con voce fragilissima e miraggi sonori. Un pattern limpido di piano interrompe brevemente, la voce si moltiplica in echi concentrici, i droni si stratificano, la chitarra di Pilia si fa tenue contemplazione fra sordi scampanellii e scie cosmiche, fino allo sfumare finale. Ancora una volta, onore e gloria a questi tre prodi connazionali sparsi per il mondo.

mercoledì 23 agosto 2017

Pluto – Shoehorse Emerging (1994)

Fra gli innumerevoli acts a nome Pluto (Discogs ne elenca una trentina..) ci fu anche questo 7-piece assemblato a mo' di supergruppo, le cui personalità più in evidenza erano i fiatisti Slusser e Carney (collaboratori rispettivamente di Tom Waits e John Zorn) ed il batterista Weinstein degli MX-80 Sound. Un progetto a due colpi, col secondo che uscì 4 anni dopo, dedito ad un post-jazz strumentale sfaccettato e senza troppo sfoggio di tecnica e/o vanagloria. Un po' di free classico ma tutto sommato controllato, un po' di swing aggiornato, un po' di RIO, qualche puntata metallica, tutto orchestrato con maestria e un senso dell'ironia più che palpabile. Devono essersi divertiti un mondo. Riservato agli amanti del settore.

lunedì 21 agosto 2017

Silent Carnival ‎– Silent Carnival (2014)

Dall'assolata Sicilia, il sorprendente debutto di un cantautore ombroso, Marco Giambrone, in possesso di un bagaglio espressivo di respiro internazionale, e non meno degli ormai gloriosi Father Murphy.
Silent Carnival è un elegia della lentezza e del rumore dell'anima. La musica di Giambrone è spoglia e con i nervi scoperti, con le vene in evidenza che scorrono. Accordi tenui pastello di chitarra riverberata si incaricano di dare il via a 10 pezzi di un cantautorato maledetto, dai toni fra il malinconico ed il plumbeo. E' lo stile altamente emotivo a determinare la grandezza di un autore che indubbiamente si rifa a diversi modelli del passato: slow-core statunitense (filiazione Drunk e Spokane, ma in certi momenti riaffiorano persino i Codeine meno elettrici), folk apocalittico (un David Tibet scevro da qualsiasi prosopopea), giganti classici dell'autunno-inverno (Black Heart Procession), digressioni dal sapore rituale che quasi stabiliscono un parallelo con gli stessi Father Murphy (almeno un paio di tracce). Paragoni ingombranti, certo, ma Giambrone sa il fatto suo ed il disco è letteralmente stupendo ed avvolgente.

sabato 19 agosto 2017

Twink – Think Pink (1970)

Poteva passare alla storia come uno di quegli spostati outsiders reduci dalla seconda metà dei sixties approdati ad un disco solista destinato ad essere ricordato, come Peter Green, Skip Spence, Bruce Palmer ed altri. E così sarebbe stato se John Adler non si fosse rifatto vivo dopo una ventina d'anni, seppur sempre nell'ambito di operazioni nostalgiche. Poco male, perchè Think Pink resta comunque un piccolo gioiello di psichedelia britannica variopinta e neanche troppo eccentrica. Dietro la bella copertina che immortalava il batterista / songwriter nel mezzo di un bosco autunnale si celavano dieci pezzi quasi tutti di diversa fattura, dall'esperimento spettrale (The coming of the one, i Godz in elettronica), la ballad elettrificata solenne e malinconica (Ten thousand words, Tiptoe on the highest hill, Suicide), lo strumentale lisergico (la superba Fluid), sarabande tribali deliranti (Mexican Grass War, Three Little Piggies), il mid tempo hard-rock demenziale (The sparrow is a sign). Alla fine è molto più il disco di un gruppo piuttosto che di un solista, vista anche la presenza quasi al completo dei Pink Fairies + altri ospiti di rilievo per l'epoca. A metà fra il viscerale e lo svanito, Think Pink resta il gagliardo reperto di un epoca magica.

giovedì 17 agosto 2017

Boredoms ‎– Vision Creation Newsun (1999)

Fra i prime-movers del movimento japa-noise, i Boredoms dimostrarono di essere una band poliedrica nel corso degli anni '90, introducendo col passare del tempo elementi sempre più musicali in un contesto comunque nipponicamente folle, riscuotendo anche un insperato successo negli Stati Uniti. Al tramonto del millennio Vision Creation Newsun sublimò la loro felice progressione in un vorticoso space-rock, incessante e tornitruante. Come in uno scontro galattico fra Can (le galoppate metronomiche, la voce cantilentante di Eye) e Chrome (le distorsioni maniacali chitarristiche, gli stordimenti sonici), i nove titoli in elenco scorrono ininterrotti, partendo a razzo all'inizio e stemperando il ritmo e le atmosfere col passare del tempo. L'effetto, complice anche la produzione professionale, è quello di un viaggio extra-sensoriale, un esplosione di effetti e colori che sostanzialmente ha un nome vecchio come il cucco: psichedelia.
Avvincente.

martedì 15 agosto 2017

David Thomas & The Pedestrians – Variations On A Theme (1983)

Nell'immediato post-scioglimento dei Pere Ubu, Thomas fece la spola fra Cleveland e Londra, realizzando una manciata di dischi illuminata dal suo folle genio ma inevitabilmente dipendenti dai musicisti di cui si contornava. La contaminazione fece in modo che il suo suono si facesse più europeo, e la sigla The Pedestrians vedeva in organico si glì americani Fier (ex-Pere Ubu), Jones (futuro Pere Ubu) ma anche illustri britannici come il chitarrista inglese Thompson, i prestigiosi Cutler e la Cooper, ad instillare preziose identità RIO in alcuni pezzi; un'unione quasi inevitabile che sublima in tracce irresistibili come Who is it e The semaphore.
Date le capacità tecniche dei musicisti, Variations è un album fra i più rifiniti dell'intera carriera dell'omaccione, per non dire elegante come i primi dischi della reunion PU di fine anni '80. Per questo potrà anche non essere fra i preferiti dei suoi fans (infatti curiosamente non è mai stato ristampato), ma la classe genialoide è sempre indiscutibile.

domenica 13 agosto 2017

Cagna Schiumante ‎– Cagna Schiumante (2014)

Quando leggo che gli ultimi Afterhours sono anche sperimentali, mi viene da ridere. Al contempo però cerco anche di mettermi nei panni di Pilia e Iriondo che in qualche modo devono sbarcare il lunario, quindi a loro va il massimo rispetto, a maggior ragione alla luce di progetti come Cagna Schiumante, con la quale danno la libera stura alle loro vene di ricerca e si confermano come chitarristi di livello superbo, se ce ne fosse stato bisogno.
Con loro, nel trio canino, un eminenza grigia (in tutti i sensi) dell'art-noise italico, il batterista degli Starfuckers Chicco Bertacchini, che per l'occasione dà di matto e si impossessa anche del microfono, srotolando uno spoken-word beffardo, isterico, naif, cubista.
La prima discendenza della CS che appare evidente è quella del free-rock che Iriondo percorre da tanti anni soprattutto in progetti come A Short Apnea, Uncode Duello, con le sue chitarre spigolose, irsute ed atonali. Pilia, dal canto suo, cerca di controbilanciare coi suoi armonici espansi ed il suo arcobaleno di effettistica, facendo venire più di un bel ricordo 3/4Hadbeeneliminated. Bertacchini, oltre a declamare nella maniera più sgraziata possibile, contribuisce a dare false cadenze con la sua batteria, ultra-fratturata come ai tempi dei migliori Starfuckers.
A volte coi supergruppi può succedere che avvenga esattamente ciò che ci si aspetta, ed in questo caso si va persino oltre. Oggi, realizzare che lo spirito di Captain Beefheart riesca ancora ad insinuarsi come l'acqua nei contesti più svariati  e possa stregarci in questo modo, riconcilia con la musica e respinge la minaccia della stanchezza.

venerdì 11 agosto 2017

Alessandro Alessandroni ‎– Industrial (1976)

Grazie alla fascinazione dei Demdike Stare ed Andy Votel ed alla loro etichetta Dead Cert Home Entertainment, nel 2015 è stato riesumato questo concept-library del maestro Alessandroni originalmente registrato nel 1976, esattamente quando i Throbbing Gristle stavano progettando e preparando l'avvento della musica cosiddetta industriale.
E' scontato che i concetti e le premesse di partenza per il Fischio fossero ben diversi rispetto a quelli degli inglesi, ma quanta avanguardia in questo vinile....Nella tematica dell'industria fu un vero specialista, infatti nella sua discografia appaiono ben tre titoli di sonorizzazione inerenti all'alienazione da lavoro. Programmatica anche la cover, con un picchio intento a lavorarsi la colonna portante di una croce di legno; 16 numeri da 2-3 minuti, comune denominatore il nervosismo, l'ossessività dei motivi, la maestria nel saper convertire frasi in partenza melodiche (piano, synth e chitarra) in grumi viscosi di tensione, con l'aggiunta di percussioni ed elettronica che restano generalmente sul sottofondo ma risultano fondamentali (e lungimiranti) nell'assieme. Un titolo su tutti, Asicronia con quel ritmo strascicato che anticipa il trip-hop di circa una ventina d'anni.

mercoledì 9 agosto 2017

David Grubbs ‎– An Optimist Notes The Dusk (2008)

Dopo i fasti degli anni '80 e '90, la carriera di Grubbs sembra aver imboccato il vicolo semi-cieco della vecchiaia, con la stampa che diventa progressivamente più fredda nei suoi confronti. Vero è che non ci sono sviluppi notabili nel suo stile, e persino lo stesso Grubbs sembra rendersene conto dato che negli ultimi 10 anni le collaborazioni con terzi straboccano, ma vogliamo discutere sulla portata e sulle capacità del personaggio?
An optimist notes the dusk è soltanto un'altra prova convincente della sua formula, apparentemente così semplice ma sempre profonda nella sua asciuttezza. Le stabili e stentoree tessiture della chitarra semi-acustica, la sua voce flebile ed incerta, atmosfere asettiche e prive di riverbero come una sala operatoria; nessun trucco e nessun inganno di produzione, questa la sua costante. Un filo di tromba, un pezzo con batteria (la trascinante Holy Fool Music), un esperimento silente alla Oren Ambarchi (The not-so-distant, 12 minuti di meditazione inquietante) sono le varianti alle sue digressioni post-folk un po' malinconiche e distaccate che continuo ad apprezzare, con poche riserve e grande rispetto.

lunedì 7 agosto 2017

Roy Harper ‎– Lifemask (1973)

Il sesto album di Harper, successivo al suo capolavoro barocco che tanto ha influenzato generazioni di alt-cantautori/cantautrici a distanza di decenni. Ma a forza di parlare di Stormcock, si rischia seriamente di perdersi il grosso della sua produzione dei '70, e non si renderebbe giustizia a questo grande e sopraffino cantautore acustico.
Su Lifemaks il formato lungo del precedente veniva rilanciato dalla suite presente sulla facciata B, The Lord's Prayer, orchestrata in maniera più sobria ma non per questo non eccelsa. Sulla facciata A, cinque "brevi" pezzi di purissimo concentrato harperiano fra cui le memorabili South Africa e Bank Of The Dead, quest'ultima propulsa anche da un Jimmy Page funzionale e non invadente. Il mood generale, escludendo alcune levitazioni spirituali della suite, era terreno, fisico, in your face se così si può definire; dimostrazione di classe cristallina, di come un uomo solo, armato solo della propria voce, del suo fingerpicking e del suo lirismo, potesse essere così grande e potente.

sabato 5 agosto 2017

Library Tapes ‎– Escapism (2016)

Dopo una pausa di 4 anni, una vera eternità per questa tipologia di autori, David Wenngren è tornato l'anno scorso con 3 pubblicazioni: una raccolta di outtakes e rarità uscita solo su cassetta, la colonna sonora di un documentario e questo album vero e proprio, realizzato insieme a Julia Kent al violoncello. Abbandonata ormai qualsiasi tendenza al concretismo che aveva contraddistinto le sue prime produzioni, lo svedese si abbandona completamente ad un'immacolato florilegio di paesaggi malinconici ed evocativi, guidati dal suo stile pianistico compassato e gentilissimo. Un disco spoglio e disadorno come forse mai aveva realizzato in precedenza. Poco da dire, la magia cinematica si ricrea di nuovo, in un'area più vicina che mai a Stray Ghost, se non fosse per il cello che si insinua discretamente dappertutto. 
Di una delicatezza enorme.

giovedì 3 agosto 2017

Kingdom Come ‎– Journey (1973)

L'avventura post-Crazy World di Arthur Brown, durata soltanto lo spazio di 3 dischi in 3 anni e generalmente ricordata con relativa freddezza dalla critica. Journey fu l'ultimo prima che Brown si perdesse in una carriera solista accolta con ancor più distacco, se non ignorata. Dopo i fasti di Fire, in termini di successo, la carriera dell'istrione inglese subiva un declino inesorabile.
In realtà KC, soprattutto in Journey, era un gruppo lungimirante e piuttosto originale e ci vollero molti anni per ottenere un riconoscimento critico, su latitudini limitate ma notevoli. La novità non era certo la voce di Brown, come sempre un ruggente blues-oriented di inflessione teatrale; in primis risaltava il fatto che la line-up non comprendesse un batterista, ma una rudimentale drum-machine. Escludendo la solare (e debole, diciamocelo) Spirit Of Joy, il disco è un avventuroso percorso in cui le rasoiate di chitarra di Dalby cercano di ancorare a terra un suono destinato a partire per la stratosfera a causa del massiccio uso di synth, moog e mellotron da parte del tastierista Peraino. E' un ibrido psych'n'prog dai contorni elettronici, fascinosamente antidiluviani, che pescava dalle avanguardie tedesche conteporanee e lo sviluppava ossessivamente in un'area grigia, indubbiamente dal retroterra rock, impossibile da definire. Ad essere maliziosi, se anche Brown fosse stato un po' più avveniristico ci saremmo trovati di fronte ad un capolavoro futuristico; resta comunque un'anomalia dei seventies, rimasta fuori dal suo tempo e da ogni banale catalogazione.

martedì 1 agosto 2017

True Widow ‎– Avvolgere (2016)

Al tempo di Circumnambulation, il terzo disco del trio texano, mi interrogavo sul loro futuro e sulle loro capacità di andare avanti. L'essere approdati su Relapse, la grossa indie dedita solitamente a musiche pesanti ed affini, deve averli rinvigoriti ed incoraggiati a proseguire con ammirevole testardaggine nel loro indie-stoner un po' novantiano, dalle trame semplici semplici eppure sempre evocativo ed epidermico.
Quasi impercettibili le differenze rispetto al back-catalogue; potrei dire che in più c'è un po' di vigore, velocità e qualche decimo di pedale fuzz. Tornano semmai in buon numero i grandi pezzi che forse difettavano nel precedente, anche se non sono tornati ai livelli del loro capolavoro. Theurgist, Entheogen, FWTS:LTM, Sante i migliori. Insomma, di cambiare non ce n'è, e va alla grande così.