L'avventura post-Crazy World di Arthur Brown, durata soltanto lo spazio di 3 dischi in 3 anni e generalmente ricordata con relativa freddezza dalla critica. Journey fu l'ultimo prima che Brown si perdesse in una carriera solista accolta con ancor più distacco, se non ignorata. Dopo i fasti di Fire, in termini di successo, la carriera dell'istrione inglese subiva un declino inesorabile.
In realtà KC, soprattutto in Journey, era un gruppo lungimirante e piuttosto originale e ci vollero molti anni per ottenere un riconoscimento critico, su latitudini limitate ma notevoli. La novità non era certo la voce di Brown, come sempre un ruggente blues-oriented di inflessione teatrale; in primis risaltava il fatto che la line-up non comprendesse un batterista, ma una rudimentale drum-machine. Escludendo la solare (e debole, diciamocelo) Spirit Of Joy, il disco è un avventuroso percorso in cui le rasoiate di chitarra di Dalby cercano di ancorare a terra un suono destinato a partire per la stratosfera a causa del massiccio uso di synth, moog e mellotron da parte del tastierista Peraino. E' un ibrido psych'n'prog dai contorni elettronici, fascinosamente antidiluviani, che pescava dalle avanguardie tedesche conteporanee e lo sviluppava ossessivamente in un'area grigia, indubbiamente dal retroterra rock, impossibile da definire. Ad essere maliziosi, se anche Brown fosse stato un po' più avveniristico ci saremmo trovati di fronte ad un capolavoro futuristico; resta comunque un'anomalia dei seventies, rimasta fuori dal suo tempo e da ogni banale catalogazione.
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