martedì 30 gennaio 2018

Roger Eno ‎– Voices (1985)

Sublime, incantevole piano music nel debutto di Eno jr. Una carriera, la sua, votata in maggior parte a collaborazioni con nomi più o meno illustri. Due anni prima il fratellone Brian lo aveva chiamato a partecipare ad Apollo, per introdurlo alla discografia: evento che non si ripeterà più. Mi interrogherei piuttosto su come non si sia mai materializzata una joint venture col grande Harold Budd, che almeno su Voices sembra essere il nume tutelare principale (si è fatto anche il nome di Satie, ma a mio avviso solo per le strutture compositive più che per le atmosfere). Il pianismo placido di Eno, proveniente direttamente dall'anima, si dipana meravigliosamente attraverso 11 tracce fra l'introspettivo, il melanconico ed il paradisiaco, eseguito su un elettrico sintetizzato coi riverberi incorporati; non mi verrebbe da dire che su un acustico sarebbe venuto meglio, perchè non lo credo, in fondo. Quando c'è un cuore così, il mezzo espressivo è solo un dettaglio.

domenica 28 gennaio 2018

Gnac ‎– The Arrival Of The Fog (2007)

Deliziosa musica cinematica ad opera dell'inglese Mark Tranmer, con un progetto dal nome rilevato direttamente da un libro di Italo Calvino. Strumentali delicati, autunnali, melanconici ed eterei che hanno l'unico limite di essere eseguiti in gran parte al computer o con strumenti sintetici: per composizioni così umilmente umane sarebbero stati molto più calzanti degli arrangiamenti acustici, con un quartetto d'archi magari; ne sarebbe uscita una fantastica soundtrack da camera. Evidentemente Tranmer non ha avuto i mezzi necessari oppure se n'è semplicemente fregato, chi può dirlo. Ci teniamo The arrival of the fog così com'è, con questi quadretti impressionistici dalle strutture circolari che possono ricordare più di una volta le partiture più leggere di Morricone. Un calo nel finale non impedisce comunque di innamorarsi di squisitezze come Nautical Episodes, Vetchinksy Backdrop, Vertical Features, Horizontal Happiness.

venerdì 26 gennaio 2018

Perigeo ‎– Genealogia (1974)

Eccellente, brillante, elegante jazz-rock da parte di un complesso che restò abbastanza allineato sui suoi binari, con una coerenza indubitabile. Il loro successo popolare infatti coincise con il periodo in cui il jazz era diventato quasi una moda presso la gioventù italica, almeno quella che si identificava politicamente a sinistra. Sia stata fortuna, coincidenza temporale o furbizia non ha molta importanza, dopo più di 40 anni questa musica porta benissimo il suo tempo anche se non fu per nulla avanguardistica come quella degli Area, tanto per citare esimi contemporanei. Raccogliendo soprattutto l'eredità importante dei Soft Machine, ma anche dei Weather Report, con Genealogia i Perigeo realizzarono un disco di virtuosismi al servizio di una musica asciutta, funambolica ma anche capace di bei squarci melodici. Astenersi free-jazzers incalliti, superfluo dire.

mercoledì 24 gennaio 2018

Le Capre A Sonagli ‎– Il Fauno (2015)

Simpatico (fin dal nome) gruppo bergamasco dallo stile originale e ricercato nonostante l'evidente ironia che pervade questo eclettico Il Fauno. Inizialmente il punto di riferimento sembrano essere i Jennifer Gentle, se non addirittura Samuel Katarro, ma lo psycho-pop si dilata velocemente verso quadretti surreali, sardonici, quando non apertamente ispidi. L'utilizzo di un linguaggio incomprensibile espresso da una voce beffarda non fa altro che spingere Le Capre verso un inquadramento freak, ma si capisce che se proprio di freaks dobbiamo parlare, sono moderni, sono ragazzi calati nella realtà odierna, strappano sorrisi ed il brano dopo sono melanconici ed introspettivi (la splendida ballad Slow mi ha fatto venire in mente i Kriptasthesie di Shaken at the sun). Degni di nota Celtic, Giù, Uahh!, Joe. Non faranno miracoli, ma alzano la media nazionale; meritato l'approdo alla Woodworm.

lunedì 22 gennaio 2018

Thinking Fellers Union Local 282 ‎– Mother Of All Saints (1992)

E' uno di quei dischi in cui non ci capisco niente; lo ascolto, lo riascolto e sono sempre più disorientato.
Attivi dalla fine degli '80 e la metà dei '90, i trapiantati californiani TFUL furono autentici freaks della tradizione americana e non solo: ricordo che il primo pezzo che sentii di loro era una cover di Morricone, su un 7 pollici del 1995 che mi capitò in mano non so in quale modo. La massima sintesi della loro musica l'ha espressa alla grande PS; dei Sonic Youth in versione da cabaret.
Una surreale vena pop ammanta tutto il disco, che si dispiega anche su lidi beefheartiani, folk, rumorismi e numeri più strettamente alternative (in linea col debutto coevo dei Trumans Water). Insomma, c'è davvero poco da capire ed è un bene. E' uno di quei dischi di cui è difficile innamorarsi, ma che non si può fare a meno di stimare.

sabato 20 gennaio 2018

Minor Victories ‎– Minor Victories (2016)

Inizialmente, la diffidenza. Non bastava la reunion degli Slowdive, la Rachel doveva anche mettersi a cantare in un supergruppo con Stuart dei Mogwai, il chitarrista degli Editors ed un regista. E come per la reunion dei migliori shoegazers della storia, anche in questo caso l'apprezzamento parte dopo diversi ascolti, dopo aver metabolizzato i passi falsi (che qui comunque sono non più di un paio), dopo aver realizzato che sì, questo è un disco in cui Rachel canta da sola e forse non avevamo mai apprezzato la sua voce in questa lampante esposizione, così ordinaria in senso melodico.
Il disco sembra tutto fuorchè un'esperienza secondaria; la coesione è forse il punto forte, in una scaletta che filtra le diverse esperienze dei componenti (al punto che potresti facilmente indovinare chi ha composto cosa o comunque dato la linea guida) con saggezza e lucidità. E poi io amo i dischi che crescono verso la fine; Out to sea, The Thief e Higher Hopes chiudono e sono le migliori. E la diffidenza si sciolse come neve al sole.

giovedì 18 gennaio 2018

Jethro Tull ‎– Bursting Out (1978)

Ogni tempo immemore, finisco sempre per rispolverare i JT.
Come avvenne per i Black Sabbath, anche loro pubblicarono curiosamente il loro primo live dopo 10 anni di successi, sia artistici che commerciali. Si sa che nei '70 le major avevano un potere immenso, fra cui anche decidere di attendere un calo delle vendite per rilasciare un live. Nel 1978, in pieno punk, i JT se ne uscivano col bellissimo Heavy Horses (peccato, qui manca la title-track che è il mio pezzo preferito in assoluto) e le loro azioni erano in calo a dispetto di una forma crescente, dopo qualche passo falso fra il 1975 ed il 1977. Storia a parte, il live Bursting Out fu la meritata celebrazione del decennio, ancor più apprezzabile per l'immediatezza e la genuinità; di certo la scaletta si potrebbe discutere (4 pezzi su 20 del repertorio fino al 1971 sono un po' pochi...), ma le esecuzioni sono impeccabili, ad opera del sestetto a doppio tastierista, con un infuocato Martin Barre in grande evidenza. Dinosauri di pregio assoluto.

martedì 16 gennaio 2018

Wolf Eyes ‎– I Am A Problem: Mind In Pieces (2015)

Ritenevo molto improbabile che i Wolf Eyes potessero avere una crescita musicale significativa, e non per presunta imperizia; dopo quasi un ventennio di uscite, mi sembrava arduo pensare che potessero almeno in parte reinventarsi, dopo aver fatto una tabula rasa sonora di quelle fattezze. Ed invece sorpresa; si vede che a forza di incidere (ad oggi sfioriamo i 300, una cosa da guinness) il trio è maturato a livello strumentale e I am a problem: Mind in pieces è un disco che se fosse stato realizzato da esordienti, si sarebbe scritto "un nome da seguire". Non che sia nulla di rivoluzionario, ma è fatto dannatamente bene: a partire dall'ipnotica intro Catching the rich train (con tanto di piano elettrico e clarinetto...), si tratta di un animale strano, sgusciante come una vipera e schiumante come un lupo affamato, proseguendo con lo stentoreo marziale di Twister nightfall, l'electro-doom-punk di T.O.D.D., le scansioni orrorifiche di Asbestos Youth, il cyber-hardcore di Enemy ladder, e concludendo con l'escursione lunare di Cynthia Vortex. Difficile stabilire se sia il loro disco più accessibile, bisognerebbe aver ascoltato tutti gli "ufficiali"; di sicuro segna una maturità inaspettata.

domenica 14 gennaio 2018

Legendary Pink Dots ‎– Any Day Now (1987)

Con la discografia abissale che hanno accumulato in 35 anni (parliamo di 150 titoli fra originali e miscellanea), si è scoraggiati ad indagare sulla carriera dei LPD, ed è un peccato perchè analizzando Any Day Now si ha una conferma, almeno qui, della bontà della loro proposta, molto ma molto arty. L'idea futuristica che sovviene spontanea è; questa è la musica che avrebbe potuto ideare negli anni '80 un Syd Barrett completamente ripulito, cresciuto musicalmente e magari trasferitosi in Francia o in Olanda (dove peraltro migrarono i LPD a metà decennio), e non soltanto per la somiglianza del tono vocale da parte del cantante Ka-Spel. Un gotico psichedelico raffinatissimo, impressionista, elegante ma che non rifiuta le stranezze, il cui unico difetto è la presenza di una fredda batteria elettronica. Pressochè bellissimi tutti i pezzi, con preferenze per Neon Marines, Laguna Beach, Waiting for the cloud, Cloud Zero. Un disco che mixa mitteleuropeo e melanconia british con risultati meravigliosi.

venerdì 12 gennaio 2018

Elegi ‎– Bånsull (2017)

Ormai mi ero quasi dimenticato di Tommy Jansen, autore di due stupendi dischi di dark-chamber-acoustic-ambient-library sul finire degli anni Zero. Il suo stile peculiare mi aveva colpito non poco, senonchè dal 2009 in poi non sono più giunte sue notizie. Così, quando nel Febbraio scorso è comparso dal nulla Bånsull sulla label russa Dronarium sono stato molto contento di sapere che era ritornato. Jansen stesso, però, ha subito messo le mani avanti: queste sono registrazioni vecchie, e con una certa ironia (tipicamente scandinava?) ha dichiarato che aveva scritto il materiale ad uso di ninne nanne per la figlia, col risultato di averle causato incubi ed insonnia per anni (!).
Saranno anche scarti, ma il risultato non è meno impressionista di Sistereis e Varde: il campionario è semmai più surreale ed affianca ai foschi scenari dark-ambient (a volte versioni colte di Caretaker) brevi temi reminescenti la vintage-library più orrorifica, sgocciolii di piano, bordoni e rintocchi raggelanti di cello, qualche apertura pseudo sinfonica appena appena più serena. Insomma, il terzo tocco da maestro per questo autore che vorrei continuasse a stregarmi con questa abilità. Sperando che la figlia abbia superato quei problemi....

mercoledì 10 gennaio 2018

Jon Spencer Blues Explosion ‎– Orange (1994)

Il disco della gloria per la Blues Explosion, del successo internazionale. Come ho già scritto per descrivere il loro grezzissimo esordio, all'epoca non li sopportavo. Dopo più di vent'anni, invece, li trovo divertenti, travolgenti e trascinanti. Caratterizzato da un'appropriata produzione più professionale, Orange viene definito in genere il loro apice e mi accodo al coro; qualche novità in sede di arrangiamento (un'organino, qualche sezione d'archi, un basso in qualche pezzo) lo rese irresistibile, così come lo sono quasi tutti i pezzi, istintivi, beffardi, rotolanti. Un'arancia febbrile.

lunedì 8 gennaio 2018

Anthony Pateras & Erkki Veltheim ‎– Entertainment = Control (2015)

Pateras, pianista e compositore d'avanguardia australiano trapiantato a Berlino, e Veltheim, violinista finlandese trapiantato in Australia. Nomi di cui non so praticamente nulla, ed un disco che mi ha convinto ad ascoltare SIB quando, scrivendone la recensione, è riuscito a concretizzare in parole la forza magnetica che sprigiona questo duetto di 50 minuti.
Da intenditore molto superficiale delle aree in cui agiscono, cito nomi che probabilmente ai due faranno rabbrividire: lo strumming pianistico di Charlemagne Palestine e i droni lamentosi di Richard Skelton. E' fin troppo ovvio che Pateras e Veltheim hanno cognizioni tecniche superiori, e si sente, però con questa tempestosa suite riescono a trovare un equilibrio maestoso, creando un clima sospeso di saliscendi emotivi ed i conseguenti armonici che, per quanto abusati possano essere, trasformano il flusso in un suono tridimensionale. Fascino e mistero.

sabato 6 gennaio 2018

Hugh Hopper ‎– Hopper Tunity Box (1977)

Secondo disco del bass-master, tre anni dopo il monumentale 1984: non fu fortunato, perchè rilasciato da una etichetta norvegese (! ma era possibile che nessun inglese volesse pubblicarlo?) dall'etica, stando a quanto disse Hopper stesso, dilettantistica. Tant'è che poco tempo dopo, fallì.
Erano comunque tempi duri, si erano dimenticati tutti dei gloriosi giorni Soft Machine; mentre una strana entità con quella ragione sociale ma senza nessun membro fondatore continuava indifferentemente a pubblicare dischi, Wyatt aveva virato a 360° con Rock Bottom, Ratledge si era dileguato, Hopper faticava a farsi sentire. Su Hopper Tunity Box sono comunque della partita Dean, Windo e Charig, i fiatisti di 3, perchè il baffo aveva abbandonato gli audaci esperimenti di 1984 in favore di un ritorno al jazz-rock più stentoreo e dinamico. Delusione? Ma anche no; nell'anno 1977, se aveva ancora un senso fare questo genere, Hopper era l'oscuro condottiero in grado di traghettare sincopi e controbalzi con l'eleganza di un feroce felino.

giovedì 4 gennaio 2018

Venezia - Venezia (2007)

Una decina d'anni fa, una domenica mattina stavo quasi casualmente leggendo l'inserto locale del principale quotidiano della mia regione ed un defilato trafiletto catturò la mia attenzione; la foto ritraeva questo ragazzo col collo del giubbotto tirato su fino a sotto al naso, mentre sotto si parlava di una band di giovanissimi forlivesi che si rendevano protagonisti di un inusitato rock moderno, che guardava oltre oceano con personalità e spavalderia. La curiosità era tanta, ma non riuscii mai a recuperare l'autoprodotto e finì nel mio dimenticatoio.
Poco tempo fa invece, sfogliando un Blow Up del tempo, ho notato una sua buona recensione e così ho posto fine alla curiosità sospesa. Dei Venezia poi non se ne fece più nulla (un nome del genere ed un omonimo in effetti non erano molto validi per farsi notare), ed il chitarrista successivamente entrò nei famosi Raein. Un peccato, perchè per essere un gruppo di provenienza abbastanza provinciale le cose erano piuttosto interessanti, per quanto perfettibili: un math-rock arzigogolato, fragoroso ma mai chiassoso, in parte debitore di autorevoli espressioni americane '90 (Slint, June Of '44) ma anche in anticipo su alcune derive epic-instru (soprattutto in campo melodico) che, per quanto a tratti deprecabili, hanno contraddistinto una certa invasione di band abbastanza tecniche negli anni a venire. Magari con qualche sviluppo sarebbero pervenuti a qualcosa di più arioso e maturo, ma a quello ci hanno pensato poi i bravissimi concittadini Neil On Impression.

martedì 2 gennaio 2018

Harold Budd, Ruben Garcia, Daniel Lentz ‎– Music For 3 Pianos (1992)

Una delle vette più significative dell'altalenante carriera di Budd si è verificata con questa uscita minore, peraltro a 6 mani. Sei pezzi, poco più di venti minuti, registrato in un solo giorno, il 2 Marzo del 1992.
Non conosco nulla dei due compari per l'occasione: Lentz un militante dell'avanguardia e della contemporanea statunitense fin dagli anni '60, Garcia un devoto dello stile buddiano, di fatto al debutto. Tre pianoforti; facendo molta attenzione (l'avrò ascoltato decine e decine di volte) non suonano mai in simultanea, al massimo due. Il loro suono è eccezionale, con il riverbero perfetto che si compete a quanto eseguito, allo strumento perfetto. Il migliore.
Le composizioni variano: folate passeggere di minimalismo (Pulse Pause Repeat), ombrosi e lenti avviluppi di folgorante bellezza (La Muchacha De Los Sueсos Dorados), quadretti invernali elegiaci di struggimento indicibile (Somos Tres, The messenger), estasi accademica che più Budd non si può (Iris, La casa bruja). Cosa porti chi non ha molta importanza, anche se a scatola chiusa si direbbe un disco solo del losangeleno; terminati questi 20 minuti, si recrimina che non ce ne siano altri 20 o 30, ma facendo ripartire la scaletta il rimpianto si dissolve rapidamente. Capolavoro assoluto.