domenica 30 settembre 2018

Scream From The List 75 - Alcatraz – Vampire State Building (1972)

Filed under le cose più accessibili della list, e pertanto destinate ad un oblio maggiorato in quanto nè innovative nè rivoluzionarie. Semplicemente jazz-rock fra Soft Machine di IV, Jethro Tull di Stand Up e Colosseum di Daughter of time, da parte di un quintetto amburghese che rischia di essere citato soltanto perchè registrò Vampire State Building nello stesso studio in cui, più o meno contemporaneamente, i Faust scrivevano la storia col loro primo.
Lo spettro coperto è notevole, partendo dall'opening soffice ed educato dell'apertura fino al tornitruante finale con tutto quello che ci poteva stare dentro, luoghi comuni o meno. Doveva esserci voluto del tempo agli Alcatraz per preparare questo album, lo registrarono in 3 soli giorni e poi restarono fermi fino al 1978. Non erano destinati a fare storia, ma erano veramente bravi e l'inclusione nella List fu un attestato di stima importante.

venerdì 28 settembre 2018

High Tide ‎– A Fierce Nature (1990)

Nel 1986 Tony Hill, dopo una quindicina d'anni di pausa, resuscitò la sigla High Tide, forse per un rinnovato interesse nei confronti del fenomenale act che aveva guidato a fine '60 nel ginepraio inglese, senza alcun successo. Inizialmente fece una cassetta con Simon House, poi ripescò due registrazioni d'archivio dei tempi, ed infine nel 1990 la tedesca World Wide Records gli permise di pubblicare ben 3 dischi, con il quale pose definitivamente la parola fine sulla storia del gruppo. Le uscite successive sono state tutte roba d'archivio, più o meno ben fatte.
Di quei 3 album inediti, A fierce nature è sicuramente il migliore, nonostante una registrazione che certo non è molto fedele, ma d'altra parte questa è stata la maledizione costante nella carriera del grande chitarrista. Ad aiutarlo in questa sede soltanto il batterista Drachen Theaker, il quale sfortunatamente soltanto due anni dopo è venuto a mancare per malattia.
Il tempo aveva ammorbidito un po' le velleità di TH, che qui si concentrava abbastanza sulla forma canzone, lasciando al modello jam soltanto un paio di tracce. L'assenza di House ovviamente lasciava il campo libero alla sei corde, ma in alcuni tratti si sentono gli echi di un passato in cui le arie autunnali e meditabonde si facevano largo, evidenziando un talento purtroppo rimasto inascoltato al mondo. Chess, Roll on e A fierce nature le migliori in questo senso, mentre il gorgo abissale di Incitement restituiva il lato più incendiario di HT. Il congedo acustico di Power and purpose invece ha il sapore di un saluto nostalgico, se non un po' amaro. Era giusto essere tornati, giusto per dire ciao, lo sapete che c'eravamo anche noi allora?

mercoledì 26 settembre 2018

New Year ‎– Snow (2017)

Imbiancati dalla neve, dai capelli e dalle barbe, i fratelli Kadane sono tornati a ben 9 anni di distanza dal precedente. 
Con un disco violento, aggressivo ed iper-veloce.
Scherzo, ovviamente. Cosa mai potrebbe cambiare? La title-track, una delicatezza di 6 minuti, sfodera un piano elettrico suonato dal buon Matt. Che torna nella stupenda filastrocca The last fall. Homebody è una florescenza con ritmo dispari che sembra prelevata di forza da What fun life was. Recent history, con la sua vigoria sembra prelevata dalla parte finale di Transaction de novo. Il nodoso valzer di Amnesia è pressochè una novità assoluta. L'altro pezzo lungo, The beast, è una stasi elettrica ad alto voltaggio che volteggia leggera leggera. Il resto della scaletta è poco più che ordinario.
Registrato da Steve Albini, Snow è arrivato quasi senza preavviso, quando ormai non pensavo più che fine avessero fatto. Continueranno a fare i soliti dischi per chissà quanto, i Kadane Bros, ed ogni volta mi stupirò di quanto siano maestri nella loro arte.

lunedì 24 settembre 2018

A.R. Kane ‎– "i" (1989)


L'estrema ambizione degli A.R. Kane si materializzò con questo doppio, appena un anno dopo lo splendido debutto. Evidentemente uno sforzo non da poco, dato che per un quinquennio ci fu uno iato e poi la dissoluzione. Il loro afro-indie-psych-shoegaze-pop si tinse di nuove suggestioni, incluse una maggiore accessibilità generale delle composizioni e qualche inserto elettronico, per uno scenario sempre più poliedrico. Un disco comunque non esente da difetti, fra cui la scarsezza generica del vocalist che emerge impietosamente (che fosse un punto caratteristico lo si era capito su 69) e l'eccessiva lunghezza, dato che tagliando 3/4 pezzi passabili (quelli un po' più danzerecci, ad esempio) si sarebbe eguagliato tranquillamente il livello precedentemente raggiunto. Resta comunque gradevolissimo.

sabato 22 settembre 2018

Tim Hecker ‎– Love Streams (2016)

Il prestigioso approdo di Hecker alla 4AD, coronamento di una carriera sempre più personale ed importante. Registrato in Islanda, con Ben Frost alla registrazione e l'ausilio del coro nazionale locale. Mentre il fenomeno hauntology sembra ormai essere scemato, il buon canadese se ne esce col suo disco più ipnagogico. Questo si chiama dare una lezione di architettura sonora, perchè TH estrae dal cappello un fascinosissimo, lussureggiante e poliedrico album dal filo conduttore comune, labirintico come da matrice ma dai suoni che così nitidi per lui non sono mai stati. Le voci vengono trattate e tritate ai macchinari e restituite come emissioni aliene al servizio di musiche squisistamente algide, con movimenti dinamici intelligentissimi, che sanno tanto di contemplazione (in Islanda, è ovvio, ce n'è una certa) e che giurerei essere la colonna sonora ideale per l'aurora boreale. Splendido.

giovedì 20 settembre 2018

Manuel Göttsching ‎– Inventions For Electric Guitar (1975)

Con un titolo così altisonante, magari ai tempi l'avranno anche preso per vanitoso. Invece Gottsching era un visionario, e anche di quelli seri. Ed il tempo l'avrebbe dimostrato appieno, non soltanto per questo ma soprattutto per quella pietra miliare di E2-E4 che realizzò qualche anno dopo, inventando la techno-trance di sana pianta.
C'era stata la grande esperienza Ash Ra Tempel che si era appena conclusa, ed il buon Manuel in solitudine si creò questo trip colossale in 3 pezzi: la cavalcata marziale di Echo Waves, l'ambient purissima distillata in Quasarsphere, il docile polleggio di Pluralis. Tutto rigorosamente fatto con la sei corde, dilatata e poi stirata, stratificata, messa in loop e poi immersa in acido, a creare quello che prima di tutto è un meraviglioso stato d'animo. Forse il connazionale Schickert l'aveva anticipato di un anno nel mettere in pratica certi suoni, ma le invenzioni di Gottsching restano una stella luminosissima nelle costellazioni germaniche.

martedì 18 settembre 2018

Stooges ‎– Telluric Chaos (2005)

Tellurico live degli Stooges a Tokyo nel 2004. Paradossalmente molto meglio del dvd Live in Detroit dell'anno precedente, nonostante una relativa bassa fedeltà di registrazione, che lo rende paragonabile ad un bootleg di ottimo livello.
Poco da dire sullo stato di forma della line-up, torrenziale e trascinante; viene suonato tutto Funhouse (ad eccezione di L.A. Blues, ma in tutta onestà non so se l'abbiano mai eseguita su un palco, e preferisco pensare di no), i pezzi del debutto acquisiscono nuova vigoria (ho sempre pensato che la produzione di Cale abbia rovinato un disco fondamentale), e sorpresa sorpresa, letteralmente irresistibili i 3 brani che sancirono di fatto la reunion sul disco solista di Iggy Pop Skull Ring; altro che roba da sessantenni. Immane ed immenso Ron Asheton. A Detroit si è fatta la storia ed a Tokyo si è riscritta, sul fuoco.

domenica 16 settembre 2018

Friction - Friction (1980)

Irresistibile art-punk-wave da parte di un trio giapponese che esordì dopo una scorribanda a New York, in cui fece in tempo a partecipare al fuoco della No Wave. Tornati a Tokyo, fecero tesoro di quell'esperienza generando dieci tracce ai limiti di un avant-punk che li potrebbe far fregiare del titolo di Pere Ubu nipponici. Pensiero che viene spontaneo ascoltando le deviazioni deliranti di Out e i singulti dementi di No Thrill in primis, ma è solo una faccia del disco, che si dibatte fra funk bianco ed assalti punk in piena regola, con la voce beffarda del bassista Reck a far quadrare il cerchio alla perfezione. Un delitto averlo scoperto soltanto adesso, come d'altra parte è destino di tanti artisti giapponesi. Automatic Fru., Cool Fool, A-Gas sono quasi ai livelli di Non-Alignemt Pact, Thomas e Ravenstine esclusi.

venerdì 14 settembre 2018

Red House Painters ‎– Old Ramon (2001)

Ormai Kozelek ci ha abituato alle stranezze più imprevedibili che non mi stupirei se un domani mettesse in cantiere persino la reunion dei RHP. I puristi come me si offenderebbero, eppure sembra che, una volta arrivati alla mezza età, la nostalgia della giovinezza porti a compiere dei gesti inauditi ed assolutamente insospettabili. Lo dimostra la caterva di bands storiche che si sono auto-resuscitate, di ogni genere e tipologia.
Certo, i fuochi della post-adolescenza sono svaniti ed al loro posto c'è una stravaganza che l'ha fatto diventare un personaggio praticamente unico. Se poi, nel mezzo del mucchio informe di dischi che pubblica da diversi anni a questa parte, compare qualche bel pezzo di quelli che solo lui sa scrivere, è solo un guadagno. Ma se oggi riformasse RHP, cosa potrebbe proporre? Ma cosa vado ad immaginare....no, sarebbe meglio una di quelle reunion solo live, solo classici, con la formazione originale, ma andrebbe bene anche con Carney, che oggi Mack fa l'agente immobiliare, e chissà se suona ancora la chitarra.
Old Ramon fu il loro addio, e neanche annunciato. Fu un parto talmente travagliato che evidentemente lo split ne fu conseguenza inevitabile. Avevo odiato così tanto Songs for a blue guitar ed i suoi sbrodolamenti che non mi aspettavo nulla di buono quando all'improvviso nel 2001 uscì, su Sub Pop. Eppure fu una boccata d'aria fresca, era un piccolo ritorno a casa, il meglio l'avevano già dato ma era comunque bello. Void un esercizio rilassato con break commovente, Between days un fragoroso circolo cantilenato, River la migliore ed infatti era già un classico dal vivo fin dal 1996, Smokey il passo di lumaca col feedback, Michigan il country con le slide che non ti aspetti che sulle prime sembra una bruttura ma poi ti accorgi che è puro MK-mark.
Purtroppo, il resto non è che fosse proprio esaltante, ispirato o particolarmente brillante, e poi una palla gigantesca come Cruiser fa letteralmente cascare le braccia, ma era prendere o skippare, il catalogo era tutto qui. In sostanza, un epilogo che faceva rinascere la speranza, ma Sun Kil Moon e la Caldo Verde erano già dietro l'angolo, una nuova vita aspettava Mark.

mercoledì 12 settembre 2018

Second Layer ‎– Flesh As Property E.P. (1979) + State Of Emergency E.P. (1980)

I due 7'' introduttivi a quell'album che sancirà la parola fine a questa breve joint-venture interna ai Sound, e che forse lasciò pochi rimpianti alle proprie spalle visto il successo temporaneamente a loro arriso nell'immediato domani. Ad abbondanti posteriori, invece, resta l'interrogativo: ma se la buonanima di Borland avesse voluto approfondire con l'elettronica ispida di State Of Emergency, ad esempio, il cui incedere alla Suicide è l'highlight del lotto? Ci saremmo persi un bel po' di belle canzoni classiche dei Sound, forse, ma magari prima o poi col necessario ammorbidimento Borland avrebbe riscosso un bel po' di successo e magari avrebbe evitato quella depressione che l'ha portato al suicidio. Tutte congetture fantasiose. Qui restano un totale di 6 pezzi per neanche 20 minuti, con un gelido post-punk curiosamente affine ai Cure coevi (Courts or wars), glitch e sussurri androidi (Metal Sheet), nebulose elettriche marziali (Germany), distorsioni alla Chrome in moviola (I need noise), robotizzazioni ipercinetiche con Bailey in risalto (The cutting motion). Alla fine, il rapporto materiale pubblicato / qualità dei Second Layer, al netto di produzioni lo-fi, resta da capogiro.

lunedì 10 settembre 2018

Harold Budd ‎– In The Mist (2011)

Il Budd della terza età, dei 3/4 di secolo, in un disco diviso in 3 parti. Non ho approfondito le ultime appendici della sua discografia, ma sono convinto che la vecchiaia possa essere una stagione dorata per lui: d'altra parte, in giovane età la sua compostezza formale fu sempre all'insegna di un lavoro con lentezza e con educazione.
In the mist mi è sembrato un disco abbastanza feldmaniano, a più riprese. I primi 5 pezzi, per piano ovattato, probabilmente microfonato a distanza, sono intrisi di quel falso, apparente minimalismo interlacciato con le sue arie melanconiche. Quasi hauntologico. Spicca il tributo a Mika Vainio, dall'incipit quasi basinskiano. I seguenti 3, ovvero il secondo blocco, interlocutori, come a stabilire un ponte con il terzo ed ultimo, in cui entra in scena un quartetto d'archi. E qui sta il piatto forte, con 5 brevi arie impressionistiche, per l'appunto reminescenti di Feldman, per ondate metronomiche di corde e sfregamenti.
Comunque lo si veda, un set d'eleganza che non si discute.

sabato 8 settembre 2018

Van Der Graaf Generator ‎– After The Flood - At The BBC 1968-1977 (2015)

A testimonianza di come la seconda vita dei VDGG abbia avuto importante risonanza internazionale, la major che ne detiene i diritti ha assemblato questa antologia comprendente una decina di BBC Sessions durante il decennio della fase storica. Per noi cultori del generatore la domanda è sorta immediata, ma che fine hanno fatto tutte le altre? La risposta è: nastri andati distrutti.
Oh mamma mia, sbigottimento. Puro. Com'è possibile? Delusione dipinta in volto. Fra l'altro 8 pezzi sui 22 ivi contenuti già li conoscevamo, dato che erano già stati editi su quel Maida Vale nel 1994 che avevamo sì gradito, ma d'altra parte era solo un contentino. Ed altri 8 stavano sul Box del 2000. E' vero che un documento riepilogativo che faccia ordine non dispiace, però la faccia di operazione commerciale After the flood ce l'ha, e alla grande. Finisce così che le tracce inedite alla fine sono soltanto 5, e a parte una scarna Vision presa in prestito da Fools Mate, le altre non sono poi così dissimili da altre versioni già conosciute su bootlegs vari. Allora, riponiamo tutte le nostre aspettative sul discorso rimasterizzazione, e dopotutto ne usciamo moderatamante soddisfatti.
Bene, accantoniamo tutti questi discorsi, facciamo finta di dimenticare l'aberrante faccenda dei nastri persi e tuffiamoci in questa maratona vandegraafiana con immenso piacere, dedizione e devozione assoluta. Erano i più grandi in assoluto, e non ci servivano ulteriori conferme.

giovedì 6 settembre 2018

Zelienople ‎– Pajama Avenue (2002)

Il gruppo madre di quel Matt Christensen che abbiamo scoperto e molto apprezzato con Honeymoons, nel primo di una lunga serie di dischi (una dozzina in 15 anni, neanche tantissimi se ci si pensa). Sono di Chicago ma prendono il nome da un piccolo paese della Pennsylvania, e qui facevano una forma di psichedelia letargica, spiritata, svanita, una specie di mix fra Velvet Underground, Spacemen 3, Low, Flying Saucer Attack e l'asse Drunk/Spokane, con un latente retaggio slow-folk a stelle e strisce. E' uno di quei dischi di cui alla fine non ricordi neanche un pezzo su 10, ma che ti viene voglia di riascoltare perchè in fondo fa il nobile servizio di farti ammantare da una nebbia sottile, accomodante e a modo suo persino rassicurante, perchè in Pajama Avenue di fatto non succede praticamente nulla: le voci sono distanti e sussurrate, le chitarre cullano, i synth vaporizzano, le ritmiche sono moviole precarie, e le composizioni sono monocromatiche. In pratica è quasi ambient, ma dell'inedita stoffa a quadretti stile camicie di flanella.

martedì 4 settembre 2018

Chameleons ‎– What Does Anything Mean? Basically (1985)

Chiamati a dare una conferma a quello splendido esordio che li aveva rivelati come rivelazione tardiva della new-wave, i Chameleons se ne uscirono con un disco altamente energetico, omogeneo fino all'ossessività, forse privo di quelle inflessioni melanconiche che impreziosivano. La produzione tornitruante (alla Lillywhite, tanto per dire) forniva il giusto supporto, con la coppia di chitarre sempre più espanse, muri di synth atmosferici. Quindi, meno Echo & The Bunnymen e più Sound, tanto per dare una direttiva, ma con le giuste composizioni al centro dell'attenzione: Intrigue in Tangiers, Singing Rule Britannia, One Flesh, In Shreds quelle migliori, per un album che non replicava in toto la magia dell'esordio, ma sapeva ribadire un'autonomia artistica forte e determinata. Solita copertina progressive, tanto per disorientare.

domenica 2 settembre 2018

GoGoGo Airheart ‎– Out Every Window The Snap Of Envy & Greed (2000)

Omaggiati di un revival da parte di SIB in un Blow Up di qualche mese fa, in quanto meritevoli di un riascolto a distanza. Fra le prove ancora acerbe degli inizi e quelle un po' incerte verso la fine stava il meglio dei californiani, con questo album che inquadrava alla perfezione lo stile precario ma al tempo stesso esuberante e sprizzante di energia. In poche parole, meno Fall e meno Gang Of Four, bensì il loro autentico tributo al Pop Group (con le dovute proporzioni, ovviamente), fra l'altro esplicitamente citato con Trap, in un mix anglo-statunitense che lo riuniva al feeling sardonico dei primi Pere Ubu. Esplosioni al calor del funk bianco, litanie demenziali, dub spettrali da camicia di forza, c'è il meglio di una band a modo suo difficile da inserire in una catalogazione ben precisa, viste anche le influenze, e rimasta inchiodata in un limbo chiamato dimenticatoio.