martedì 30 ottobre 2018

Scream From The List 76 - Musica Elettronica Viva ‎– Leave The City (1970)

La Audion Guide pone una postilla alla voce MEV: Although some people may quote other MEV albums, this relates most closely to NWW's own music, being more rock avant-garde. Possiamo anche trovarci d'accordo, ma come la mettiamo col fatto che Alvin Curran, il factotum dell'entità MEV (per chi non lo sapesse, raggruppamento di hippie-dropouts americani radunati a Roma a fine anni '60 per delle improvvisazioni più o meno radicali, più o meno aperte a chiunque), ha dichiarato che Leave the city è il parto di due ragazzi francesi entrati nel collettivo e poi scappati in patria a fare il loro disco "rubato"?
Certo, il concetto di gruppo aperto in questo caso fu un po' troppo frainteso oppure Ivan e Patricia Coaquette fecero una furbata dalle possibili conseguenze legali, poi non avvenute. Curran la prese con filosofia, evidentemente, e difatti l'album non compare nella discografia di Wikipedia, ad esempio. Se lo confrontiamo con il coevo, originale di appartenenza The sound pool, possiamo indubbiamente trovare delle assonanze, sia concettuali che di sonorità. Quindi facciamo finta di niente e lanciamoci nell'ascolto di queste due suite da oltre 20 minuti.
Message è una mini sinfonia hippy per percussioni, droni, flautini, campanine e coretti estatici. L'effetto ipnosi è garantito, ma forse dura un po' troppo.
Molto, ma molto meglio Cosmic Communion, un oscurissimo e rovinoso gorgo elettro-acustico, una roba da caccia alle streghe con coda sballo-acustica che sembra di sentire i Flying Saucer Attack più rurali, un quarto di secolo prima. E' questo a rendere il disco speciale, al di là di tutte le premesse e i fattacci inerenti.

domenica 28 ottobre 2018

Girls Against Boys ‎– Venus Luxure No.1 Baby (1993)

La coesione assoluta, il climax sonoro, la messa a fuoco incendiaria, questo è Venus Luxure. Dopo gli esperimenti in precariato ed il primo sorprendente album, era nell'aria che i GVSB avrebbero sfornato un capolavoro del genere, ed oggi ne celebro personalmente il venticinquennale (nella mia graduatoria del 1993, si classificò terzo). Ormai seppellite le origini hardcore, i quattro si concentravano sull'impatto frontale, con ben pochi fronzoli. Una scaletta infallibile, con le dovute pause strategicamente ben equidistanti (la torbida Satin Down, la melmosa nenia Get Down, la spettrale Bug House, il miglior finale possibile). Il focus del disco, una mitragliata di corse a rotta di collo, Go be delighted, Let Me Come Back, Learned It, Billy's one stop, e in evidenza il video-lancio Bulletprood cupid, che vidi incantato e magnetizzato per la prima volta su Indies (purtroppo ora introvabile sul tubo). L'amalgama generale e gli arrangiamenti di Janney erano i loro segreti principi, ma non posso fare a meno di segnalare Fleisig come il migliore in campo, uno dei migliori batteristi di tutti i nineties.

venerdì 26 ottobre 2018

Messthetics ‎– The Messthetics (2018)

Solletica la fantasia. Sì, facile intuirlo. Quella che forse hanno tanti in comune.
FF di Bastonate ha scritto una delle sue memorabili: Non riesco a decidere davvero se quello dei Messthetics sia un disco bellissimo o una scoreggia epica, ci sono tanti argomenti a favore dell’una e dell’altra tesi. 
Per chi non lo sapesse, Messthetics è un tech-trio, al basso c'è Joe Lally, alla batteria c'è Brandon Canty. Ma la musica che fanno non c'entra nulla coi Fugazi, davvero, perchè con loro c'è un guitar-hero, tale Anthony Pirog, che evidentemente ha rispetto ma nessun timore reverenziale nei confronti delle due eminenze grigie e fa la sua cosa, ingombrante, buzzurra, eccessiva, ma a volte anche di buon gusto. Il formato e certe arie me li fanno pensare come una versione pseudo-intellettuale dei Mermen, più calata nel presente.
Alla fine non è nè bellissimo nè una scoreggia epica. E' un disco che sarebbe potuto essere ben poco digeribile, ma se chiudiamo gli occhi e non pensiamo alle due eminenze e ci lasciamo andare, sentiamo l'onestà di fondo che trasuda e la accettiamo di buon grado.
Ah, la fantasia di cui alla prima riga....non è passata. Se fosse stato tutto un grande scherzo, una palestra, un preparativo? Chissà....

mercoledì 24 ottobre 2018

Sophia – Fixed Water (1996)

Gennaio 1997, Fixed Water arriva nel mio negozio di fiducia a due mesi di distanza dall'uscita, album n. 4 della Flower Shop di Robin Proper Sheppard. Mi ero messo il cuore in pace con la fine dei God Machine, due anni e mezzo prima, e le già viste recensioni parlavano di una conversione al cantautorato semi-acustico, a suoni placidi e quieti. Il Pig mette su il cd e partono le note fragili, lente e ben scandite di Is It Any Wonder.
Qualche anno dopo, quando Robin capitò a suonare dalle mie parti, me lo sono fatto autografare.
E' un sabato pomeriggio freddo e nebbioso, e manca pochissimo alla mia partenza per il servizio militare. Fixed Water scorre tranquillamente, come fosse un raccoglimento semi-malinconico alla memoria di Jimmy Fernandez. Trovavo curiosa e non appropriata la scelta di un monicker così anonimo, Sophia. Era forse ella una donna così importante da meritarselo?
Una svolta dolorosa, una catarsi silente, una specie di purificazione. In tutta sincerità, Fixed Water non è stato il suo album migliore: a posteriori, i brani veramente memorabili sono soltanto 3 su 8: So slow, When you're sad e The death of a salesman, che oggi chissà perchè mi fa venire in mente Kurt Cobain, immaginandomela in versione grunge. Sarebbe stato un anthem perfetto per i Nirvana.
Questo è un caso in cui il valore affettivo supera quello intrinseco. Dopo pochi giorni, le note di quei 3 pezzi mi risuonavano in testa continuamente, le avevo già mandate a memoria indissolubile. Era il debutto di Robin Proper Sheppard; volevo bene a questo artista.

lunedì 22 ottobre 2018

Volcano The Bear ‎– Egg And Two Books (2006)

Live dei VTB giocato in casa in quel di Leicester, registrato nel giugno del 2006. Droni incessanti, fanfare dissonanti, voce straziata e disgraziata, chitarre acustiche stentoree, batteria tonfante sullo sfondo, piani suonati senza pietà, per un concerto che paradossalmente, rinunciando agli studio-tricks o alle sovraincisioni, costringe i quattro a giocare all'essenziale finendo così per evitare le lungaggini che hanno quasi sempre minato i dischi in studio. Si trattava comunque di un periodo di grazia, dato che dello stesso anno è il loro capolavoro riconosciuto. Difficile dire se si tratti di un disco per completisti, vista la peculiarità del loro marchio: di sicuro è uno dei migliori.

sabato 20 ottobre 2018

Mick Karn Featuring David Sylvian ‎– Buoy EP (1986)

Solitamente non mi soffermo sugli EPs singoli, ma in questo caso occorre fare un'eccezione perchè questo 12" segnò una importante, seppur isolata, riappacificazione fra Sylvian e Karn, a 3 anni dallo scioglimento dei Japan, il cui motivo era il logoramento dovuto alla ben nota tensione fra i due. Il pezzo che intitola il vinile, fra l'altro, è un autentico gioiello; atmosfera notturna, ritmica decisa ma raffinata, grande enfasi sul clarinetto e sul basso di Karn, il valore aggiunto della voce di DS. Un passo in avanti rispetto alle ultime prove dei Japan, una deviazione per entrambi che avrebbe meritato più spazio, peccato non si siano spinti oltre. I restanti due sono strumentali per soli fiati (Dreams of reason) ed una specie di soundtrack dal sapore etnico (Language of ritual), sicuramente marginali ma comunque gradevoli, in quanto in linea con la produzione contemporanea del grande bassista.

giovedì 18 ottobre 2018

Wraiths ‎– Oriflamme (2006)

Atto d'esordio del duo più temibile delle brughiere scozzesi, ovviamente autoprodotto, stampato in 50 cd-r e poi riedito in vinile dalla Aurora Borealis un paio d'anni dopo. Come il successore, il terrificante Plaguebearer, è un incubo industrial-noise di stampo ritualistico diviso in due tracce da 20 minuti, ed è un efficacissimo anti-stress: scie galattiche, sbuffi metallici, abissi di perdizione, vortici sterminati, droni ispidi ed irsuti. Leggermente inferiore al sopracitato, ma soltanto perchè più monocromatico; mancano gli spunti percussivi, che forse hanno costituito il punto di forza. Ma restano molto ma molto superiori alla media dell'harsh-noise degli anni Zero.

martedì 16 ottobre 2018

Motorpsycho ‎– Timothy's Monster (1994)

Un passo importante di carriera: dopo i riconoscimenti internazionali per Demon Box, l'approdo su major fu pressochè inevitabile. Ciò che stupiva era che, passato neanche un anno da quel mastodonte, i ragazzi di Trondheim se ne tornavano con un doppio cd. La prolificità resterà una costante nel proseguio del loro cammino, a volte anche a scapito della qualità.
Forse proprio per questo motivo al tempo vidi Timothy's Monster come una mezza delusione: rispetto a Demon Box mancava la giusta follia, era un album meditato, dilatato e con alcune lungaggini che potevano renderlo un ottimo singolo. La formula indie-psych-hard restava esaltante, ma le debolezze insite in questo paio d'ore abbassavano la media con le perle incastonate: Trapdoor, Wearing Yr Smell, Leave it like that sul versante squisitamente Dinosaur Jr, On my pillow splendida ballad slacker-lisergica, i 17 minuti della possente ed evocativa The Wheel, i 13 della celestiale esplosione The Golden Core.
In ogni caso, riascoltandolo oggi dopo oltre 20 anni, Timothy's Monster riacquista un certo valore anche nei momenti meno esaltanti. D'altra parte, la bravura dei Motorpsycho era quella di saper mutuare con evidenza mediando con la grandeur scandinava e quel senso dell'eccesso tutto loro. Oppure sarà soltanto il ricordo dell'adolescenza.

domenica 14 ottobre 2018

Xiu Xiu ‎– Knife Play (2002)

Lo spiazzante e sorprendente album di debutto di Jamie Stewart, un po' prima che il moniker lo identificasse in maniera radicata e pressochè solista. Nel pieno del revival della new-wave se ne usciva alla guida di un quartetto che riusciva nell'impresa di creare un ibrido fra Mark Hollis, David Thomas e il synth-pop. Sarà il primo di una lunga serie che continua tutt'oggi, un po' abusata a dire la verità, ma comunque espressione di un output artistico sincero ed eclettico, con una sensibilità che ha ben poco di americano. Knife Play ne era la pistola fumante, ed ebbe un riscontro di critica immediato ed unanime: più che di coltelli, un gioco di ombre e luci, vuoti e pieni, schizofrenia e sentimento. Per almeno 3/4 anni, Xiu Xiu resterà una garanzia.

venerdì 12 ottobre 2018

Birthday Party ‎– Junkyard (1982)

Serviva una replica ancor più violenta del debutto Prayers On Fire per aggiudicarsi probabilmente la palma di disco più crudo e cruento di tutta la storia della 4AD. Un vero e proprio abisso separava l'art-dark-punk dei primi artisti che pubblicarono sull'etichetta di Ivo (Bauhaus, Modern English, Colin Newman) dai primi due album degli australiani; macelleria noise-blues destinata ad avere un'influenza gigantesca che si espanderà anche in tutto il nordamerica, ben oltre il decennio di appartenenza. Un Nick Cave animalesco ed esagitato ma dopotutto ancora abbastanza basso nel mixing era il valore aggiunto di una produzione un po' compressa; un teatro degli orrori forse non invecchiato benissimo, ma che fa ancora il suo cattivo effetto.

mercoledì 10 ottobre 2018

Yowie ‎– Synchromysticism (2017)

Math-rock acrobatico ed ultra-compresso da parte di un trio statunitense che tiene alto il vessillo ultra-ventennale della Skin Graft e che tramite essa ha rilasciato soltanto 3 album in 13 anni, si dice a causa di una pignoleria oltre i limiti del maniacale. Batteria ad orologeria sincopata, chitarra scurissima e chirurgica ma soprattutto un basso pauroso e rombante....che un basso non è, scopro alla fine, bensì di una chitarra baritona. Una coesione che ha dell'elettronico, dell'ingegneristico, e la strategica durata di mezz'ora (vista la monocromaticità, una scelta davvero intelligente) per un disco che incute timore ed ansia. Curioso il fatto che molte recensioni l'abbiano accostato al progressive; a me sembra un po' astruso, ma capisco che siamo di fronte ad una musica davvero peculiare.

lunedì 8 ottobre 2018

Insides ‎– Euphoria (1993)

Preludio a quel sublime trionfo che fu Clear Skin, questo fu il debutto della coppia Tardo/Yates, nove pezzi di dream-pop a base di elettronica raffinata. La voce suadente e delicata della seconda sopra le basi e le chitarre cristalline del primo, per un assieme di bellezza assoluta. Semplicistico in confronto al loro capolavoro, ma assolutamente paradiasiaco. Per gli amanti dei Seefeel potrà sembrare un po' troppo pulitino, per quelli dei Cocteau Twins potrà sembrare poco sviluppato in termini di arrangiamenti; certo è che la loro voce personale l'avevano trovata, e vien da chiedersi come mai la 4AD non se li fosse accaparrati.

sabato 6 ottobre 2018

Mamiffer ‎– Mare Decendrii (2011)

Tre anni dopo lo splendido debutto che ci aveva fatto scoprire il talento di Faith Coloccia, lei e Turner tornavano con un secondo più ambizioso, più enfatico e magniloquente. Pezzi lunghissimi, uno stuolo interminabile di musicisti assoldati alle orchestrazioni, composizioni dilatate, fasi quasi prossime al silenzio. Sembra che Turner abbia preso campo nella progettazione (molte più chitarre, seppur sostanzialmente educate), e non è un bene; il primo pezzo, As Freedom Rings, si sviluppa su un giro pachidermico di vaga reminescenza Isisiana che tedia non poco (e non è per nulla attinente al mood generico della Coloccia). Per fortuna, a partire dai 20 minuti di We Speak in the dark la signora riprende in mano la situazione e le sue lente, ipnotiche partiture pianistiche tornano a farsi centrali, a sfiorare una musica da camera elettrificata ad alto impatto drammaturgico. Eating our bodies e Iron Water concludono il disco in grande bellezza, ristabilendo l'equilibrio imponente di questa artista dalla personalità impareggiabile.

giovedì 4 ottobre 2018

Ash Ra Tempel ‎– Schwingungen (1972)

ART atto secondo, Klaus Schulze se ne è già andato per lidi cosmici e viene rimpiazzato da Wolfgang Muller. Il bassista Hermut Enke gioca a fare il Roger Waters della situazione, prende in mano il gruppo e firma in totale solitaria i 3 titoli.
Ma cosa c'era mai da comporre, in sostanza sono 3 jams diluite: Light: Look at your sun, un blues acido e compassato. Darkness: Flowers must die una cavalcata semi-tribale. Suche & Liebe una suite elaborata in pieno stile floydiano alla Saucerful of Secrets, con tanto di finale estasiato. Ad un primo esame superficiale, sarebbe stato un disco passabilissimo, eppure entra dentro gentilmente, con il giovane master Gottsching che aleggia e galleggia sopra di tutto eludendo la forza di gravità, come solo lui sapeva fare.

martedì 2 ottobre 2018

Idaho ‎– People Like Us Didn't Stop (Live, Radio & Rehearsal Vol. 2) (2017)

Ci sono voluti solo 17 anni per dare un seguito a quel diamante grezzo e confuso che fu il volume 1 della (presunta) serie. Il nostro Jeff continua a dare in pasto ai suoi pochi ed affezionati fans materiale d'archivio, con la solita flemma, durante la lavorazione del seguito al balbettante You were a dick. Seguendo il filo del discorso cronologico, riprende una ventina di estratti dal vivo a partire dal 1994 (la sempre magnifica Drive It) per spingersi fino alle registrazioni del 2008 in Francia, da sempre terra europea di massima stima nei confronti del nostro.
Nel mezzo, vengono citati pressochè tutti gli albums che hanno segnato la sua saga: il quartetto del 1996 di Three Sheets to the wind (da brividi Get You Back), la fase successiva di Forbidden, Hearts Of Palm, Alas e Levitate con almeno un estratto cadauno, dopodichè giustamente più spazio al tour europeo dell'autunno 2002 che vide un cambio significativo e fu documentato sul grande bootleg di Gleis, a santificare discograficamente per la prima volta tracce come Up For Living e la sismica Bailout. Infine il salto al 2008, con le White Sessions di Parigi, un inedito registrato in Belgio (Purple, abbastanza ordinaria), To Be The One e Lately presenze obbligatorie, una curiosa versione accelerata di Social Studies e la pastorale baldanzosa Ready to go di cui ci mancava soltanto il titolo.
Come doveroso, il tutto dedicato alla memoria di John Barry.