Tre anni dopo lo splendido debutto che ci aveva fatto scoprire il talento di Faith Coloccia, lei e Turner tornavano con un secondo più ambizioso, più enfatico e magniloquente. Pezzi lunghissimi, uno stuolo interminabile di musicisti assoldati alle orchestrazioni, composizioni dilatate, fasi quasi prossime al silenzio. Sembra che Turner abbia preso campo nella progettazione (molte più chitarre, seppur sostanzialmente educate), e non è un bene; il primo pezzo, As Freedom Rings, si sviluppa su un giro pachidermico di vaga reminescenza Isisiana che tedia non poco (e non è per nulla attinente al mood generico della Coloccia). Per fortuna, a partire dai 20 minuti di We Speak in the dark la signora riprende in mano la situazione e le sue lente, ipnotiche partiture pianistiche tornano a farsi centrali, a sfiorare una musica da camera elettrificata ad alto impatto drammaturgico. Eating our bodies e Iron Water concludono il disco in grande bellezza, ristabilendo l'equilibrio imponente di questa artista dalla personalità impareggiabile.
sabato 6 ottobre 2018
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento