Quindi Ruins non era una parentesi, no. Quelle delicate e riverberate composizioni per piano e voce non erano lo sfogo di un periodo limitato, di un soggiorno in Portogallo; rappresentavano il debutto di un nuovo corso, che trova la sua sublimazione (e speriamo non il proprio termine) in Grid Of Points, spostando il baricentro di un personale massimalismo un po' più in là.
22 minuti appena, che sembrano ridursi sempre più man mano che gli ascolti si susseguono; Liz Harris è divina. Prolifica e puntuale per il suo primo decennio di carriera, questa volta ha aspettato 4 anni per realizzare 7 pezzi di stellare intimismo; durante la lavorazione si ammalò e fu costretta ad interrompere, ma non tornò sul materiale e consegnò il master alla Kranky, rifiutandosi di allungarne il contenuto. Liz Harris è saggia e le sue 7 nudissime ed estatiche songs risuonano come se provenissero dalla stanza di fianco. Sono di un calore e di un umanità che ha dell'irreale, che azzera totalmente lo stile espanso-stratificato che l'aveva fatta conoscere al mondo, e che aveva indiscutibilmente rivelato un talento fuori dal comune: con questo ritorno alla terra e ad una semplicità che più spartana non si può, Liz Harris compie una metamorfosi che forse non è piaciuta a molti. Essenziale, allo stato straordinario, per me.
Nessun commento:
Posta un commento