martedì 23 novembre 2021

Lingua Ignota ‎– Let The Evil Of His Own Lips Cover Him (2017)


Dietro il moniker italico, la performer di origine californiana Kristin Hayter, esordiente non più giovanissima con questo autoprodotto ma diventata tempo zero una delle sensazioni più forti degli ultimi anni. Le similitudini ed i richiami inevitabili a grossi nomi del passato (Nico, Diamanda Galas), aggiungerei per i tempi attuali anche Zola Jesus, lasciano tutti il tempo che trovano di fronte ad un approccio a dir poco shocking. Il suo canto, dalla tecnica impeccabile grazie agli studi intrapresi in tenera età e a varie doti naturali, ha giocoforza un ruolo centrale nei 5 pezzi dell'album, ma è il concetto generale (la violenza maschile, che ha dichiaratamente ammesso di aver subito e raccontato nelle liriche) a farla da padrone, permeando l'atmosfera generale in un pauroso, struggente blocco fuso di portata emotiva che ha ben pochi eguali.

Con delle doti così impressionanti di presenza ed una performance stellare, musicalmente alla Hayter è bastato ben poco, sia in termini di composizione che di arrangiamento. Lo strumento portante è un organo minimale, dal suono squisitamente chiesastico. Gli orpelli si possono contare sulle dita di una mano: spoken word (funzionali al racconto del concept), qualche concretismo, sparuti disturbi harsh-noise, qualche tonfo percussivo. Lo snodo centrale sta nei 15 minuti di That he may not rise again, un autentico cunicolo di orrore, in cui la Hayter si lascia andare ad una prova teatrale sovrumana.

Un intero disco di questo tenore sarebbe stato eccessivo, e qui sta la prova di saggezza. Intorno a quel monolite spaventevole, la Hayter indugia sulla sua vena eterea, si potrebbe definire sognante se non sapessimo che razza di bestialità l'ha ispirata, si potrebbe dire liturgica vista l'atmosfera. Si entra con Disease of men, lunga nenia minimalistica con spoken word di sottofondo, e la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di unico è già materializzata. La voce virtuosa non è uno strumento nè di vanità nè di lamento, è strumento a sè. Segue Suffer Forever, dallo stesso tenore ma che rilancia in termini di composizione; il tema inizia in maggiore, poi si ferma e muta in un minore rabbrividente. La meraviglia prosegue con The chosen one, che lascia spazio ad un pianoforte che più nudo non potrebbe essere (non siamo distanti dall'ultima Grouper), un mantra da pelle d'oca che al proprio termine può lasciare spazio solo al silenzio.

La chiusura (cover di un pezzo reggae degli anni '80(!), seppur servita alla sua maniera), è il punto debole di un album che quasi rinfranca, perchè stempera l'abbandono totale in un gotico marziale alla Swans. E che non inficia il valore complessivo di un capolavoro che lascia tramortiti.

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