martedì 27 novembre 2012

Hawkwind - Warrior On The Edge Of Time (1975)

Proprio ultimamente mi è capitato di assistere allo spot televisivo di una casa automobilistica con un sottofondo rude di chitarra ed un ritmo trascinato: nientemeno che un frangente di Master of the universe degli Hawkwind. Come sia venuto in mente agli ideatori di pescarlo, è davvero curioso.
Detto questo, Warrior è stato l'ultimo disco dell'epoca d'oro di Brock & co., poco ma sicuro. Con un Simon House orfano degli High Tide e pienamente integrato nella line-up, a distribuire finezze strumentali col suo violino e le sue tastiere, ed a contribuire con lo splendido strumentale Spiral Galaxy.
Con Brock ad imbroccare alcune fra le sue migliori songs, come l'iniziale, grande Assault and battery e  Magnu, destinate a diventare fra le preferite dal vivo.
Per non parlare di Turner che svolazzava coi fiati a modo suo in lungo ed in largo, e componendo la tesissima Dying Seas. Quindi, un disco in cui le prodezze dei singoli teneva alta la qualità, a dispetto della produzione che colpevolmente lasciava un po' in disparte la sezione ritmica, forse per l'innesto di un secondo batterista in aggiunta a King. Messo un po' all'angolo, Lemmy Kilminster iniziava a dare segni d'insofferenza (non suonava neanche in tutti i pezzi) e l'anno dopo verrà estromesso dal gruppo a causa dell'arresto in Canada per possesso di droghe.
Appare giusto quindi che l'edizione in cd si chiuda con la bonus track di Motorhead, peraltro in una versione resa irresisistibile dal lungo assolo di violino...

domenica 25 novembre 2012

Have A Nice Life - Live at The Stone NYC 2010

Nel febbraio del 2010 gli HANL suonarono il loro primo live in assoluto, in un piccolissimo club di New York chiamato The Stone, per un centinaio di persone (info tratte dal blog di un loro grande fan). In seguito avrebbero fatto un'altra manciata di concerti, peraltro di supporto a tale Alcest, e poi più nulla.
Le cose funzionano così: probabilmente se venissero a suonare a Bologna al Locomotiv, di gente ce ne sarebbe un po' di più. Ma il progetto, come loro stessi hanno dichiarato, è nato di studio. Pare che ora ci sia un nuovo album in arrivo e mi piacerebbe che potessero attraversare l'oceano. Chissà.
Il concerto qui immortalato vedeva il duo allargato a quartetto, con la batteria elettronica. Nel complesso si risente di una certa precarietà acustica, dovuta immagino alla piccolezza del locale: la registrazione è quella che è, con i bassi deboli. Vien da chiedersi anche se per caso ci fossero le spie, vista la non eccelsa resa delle parti vocali. Un peccato.
Le premessi quindi non sono molto incoraggianti, ma quando si srotolano pezzi come Hunter, Waiting for black metal records, Earthmover, Deep la resa ha un valore aggiunto che salta ogni ostacolo. C'è persino un inedito, I'm doctor House, appartenente al loro filone lento-stentoreo.
Solo per fans di stretta osservanza, di quelli che hanno consumato avidamente Deathconsciousness.

giovedì 22 novembre 2012

Hasegawa-Shizuo - I Know A Chord Buried Into The Ground And A Tongue On A Cloud (2008)

Come ha ben scritto Savini su Blow Up, questi due non hanno paura di nulla. Hasegawa è il leader-mente-screamer degli Aburadako, Shizuo è un bassista avant-rock di lunga esperienza e dalle numerose collaborazioni, fra cui cito soltanto Keiji Haino.
Per il primo, assolutamente nulla che abbia a che fare con i grandissimi decani math-rockers di provienienza. Questa storia dell'accordo sepolto si potrebbe, con un po' di sufficienza, piazzare sotto l'aggettivo esoterico vista l'estrema difficoltà di ascolto e certe parentele industrial-cerimoniali.
Ma come spesso accade per i più grandi artisti giapponesi, il filtro natale impone e riceve attenzione. Shizuo si occupa probabilmente delle parti elettroniche, chè qua di bassi non se ne sentono. Hasegawa si dedica a degli strumenti tradizionali (principalmente fiati striduli e non esattamente gradevoli) ed immagino alle percussioni che si odono rimbombare in sottofondo.
La componente dronica ha grande rilevanza, ma le atmosfere sono mutevoli ed ogni singolo episodio vive di esistenza propria: in questo senso I know a chord è un campionario a mio avviso molto ostico ma ricco di soluzioni che sfuggono qualsiasi banalità in ambito impro-avant. 
E qui il pedigree garantisce.

mercoledì 21 novembre 2012

PJ Harvey - Stories From The City, Stories From The Sea (2000)

Il disco newyorkese di Polly, e l'inaugurazione del decennio che a mio avviso la ha vista produrre le sue cose più emotivamente coinvolgenti, non posso dire le migliori perchè è una vita che non ascolto più i primi dischi ma non ne sento neanche il bisogno.
Il lungo soggiorno nella grande mela fa scaturire i frutti più crudi come Big Exit, The Whores Hustle And The Hustlers Whore, Kamikaze, tutti e tre molto diversi fra loro ma centri perfetti di quella grinta femminea che l'ha resa grande.
A metà stile stanno la rampa di lancio This is love, One line e Good fortune. Tutto il resto della lista viaggia su coordinate prevalentemente tranquille quando non meditative (Beautiful feeling, blues spettrale in punta di dita, Horses in my dreams, la cartolina britannica fino al midollo di A place called home).
A vincere il premio però sono This mess we're in, non tanto per la preziosa presenza di Yorke ma per la meraviglia di song che è, e la chiusura luminescente di We float.
Il disco non è fra i più amati dai fans di Polly. Per me invece è da podio.

martedì 20 novembre 2012

Roy Harper - Stormcock (1971)

Nemmeno ai tempi in cui idolatravo i Led Zeppelin mi occupai minimamente di Roy Harper, e pensare che l'ultimo pezzo di LZ III tirava testualmente giù il cappello al cospetto del cantautore di Manchester. E pensare che nel '75 fu cantante speciale su Have a cigar dei Pink Floyd. Voglio dire, come ho fatto a non interessarmi? Mica era un caso se era capitato in quei posti.
Soltanto di recente, ascoltando quasi per caso la raccolta Songs of love and loss, che colleziona perle sparse nell'arco di 25 anni di carriera, ho appurato la classe cristallina, in particolare nel suo capolavoro riconosciuto più o meno da tutti, Stormcock.
Abilissimo chitarrista acustico, cantante sopraffino, ambizioso compositore che si muoveva in perfetta solitudine in un ambiente folk intriso di blues dolente e paesaggi ancestrali, in questo capitolo si librava in 4 lunghi pezzi articolati che definire suite forse non rende l'idea. Ma se non altro i 13 minuti di Me and my woman, impreziositi da piano, fiati ed archi, sono commoventi, da accapponare la pelle.
Sfuggiva a qualsiasi paragone, Harper. L'uso assiduo della 12 corde e il lieve misticismo potevano allinearlo per principio alla musicalità di Tim Buckley, ma è una forzatura. L'altra gemma di Stormcock è rappresentata dai 12 minuti di The same old rock, classicamente asciutta nello stile ma con una fase di espansione vocale da brividi.
Le altre due, Hors d'oeuvres e One man rock and roll band, non è che si possano definire folk songs ordinarie. Il cappello è rimasto giù ancora oggi.

lunedì 19 novembre 2012

Hangedup - Hangedup (2001)

Prova di discreta originalità per un duo canadese formato da una violista ed un batterista, un assetto a mia conoscenza mai esistito in ambito sub-rock. Quest'ultimo milita nei Silver Mt. Zion, mentre la prima proviene dagli slow-corers Sackville.
La partenza lenta di Winternational sembra una versione ancor più scarna dei Dirty Three, ma in realtà è solo un apparenza. La viola viene effettata spesso e volentieri, e non di rado assume atonalità ed asperità ai limiti del feedback. La batteria fa la sua grossa parte nell'economia del disco, poliritmica e spesso frenetica, ai limiti del tribale professionale. Gli spunti creativi sono notevoli e lodevoli: si finisce spesso in zone post-rock versante più sperimentale, complice un'insistita frastagliatura di temi.
Ecco, forse l'eccessivo dispendio di questi ultimi rappresenta il limite degli Hangedup: ci si concentra un po' troppo sull'esecuzione e si esce dal seminato, complice forse la componente improvvisativa che intuisco far parte della metodologia del duo.
Ma nel complesso molto originale.

domenica 18 novembre 2012

Hammock - Maybe They Will Sing for Us Tomorrow (2008)

Sarò io che ho una prospettiva tutta mia dell'ambient...ma questo lavoro degli Hammock mi dà le sensazioni contrastanti già vissute con svariati nomi: suoni bellissimi, ultra-evocativi, progressioni minimal-armoniche di grande effetto e....poi alla fine in mano rimane ben poco se non un po' di noia. A prescindere dal minutaggio.
La differenza fra gli Hammock e, per dire i primi due nomi che mi vengono in mente, Eluvium e Leyland Kirby, sta nella sostanza. Che poi è un termine improprio quando si maneggiano materiali cosi pulverulenti, ma ce lo insegnò Brian Eno stesso che occorre sempre tenere almeno un piede a terra.
Oggi ho ascoltato questo disco 3 volte, e mi ha provocato ben poche impennate emotive. Che sia stata infusa troppa professionalità in questi solchi?

sabato 17 novembre 2012

Peter Hammill - Consequences (2012)

Si può dire che è un PH diverso dal solito?
Non lo so, la sua musica non ha sentenze al di fuori dei dati oggettivi. Di sicuro Consequences rispolvera tensioni che si erano allentate negli ultimi album solisti, da quanto il generatore è stato riacceso. Ma anzichè andare a fondo con ossessività, qui ci si ferma a mezz'aria, sospesi in un limbo che disorienta.
Non è tanto diverso perchè l'impianto è il solito, con le corali marcate, senza percussioni (a parte New Penpal, che mi verrebbe da definire pezzo malizioso ed ambiguo), semmai c'è una maggior presenza del basso a pulsare denso, ma discreto. Per questo non ha senso stare a scomodare il passato: ciascuna di queste conseguenze può evocare tutto o niente.
Fra gli episodi migliori, la ballad pianistica Close to me, l'articolato disincanto di A perfect pose, le malinconiche A run of luck e All the tiredness.
A proposito di stanchezza, nel suo blog personale di recente ha scritto che al rientro da un intenso tour personale si sente molto stanco ed ha deciso di sotterrare per sempre alcune vecchie canzoni che non eseguirà mai più. 
E fra i commenti dei fans risaltava un laconico Don't die, Peter.

venerdì 16 novembre 2012

Peter Hammill - Clutch (2002)

Totalmente acustico ed incentrato su cristalline tessiture di corde di nylon, Clutch è leggero come una nuvola. Ma come tale, sa essere anche plumbeo e carico di scure pennellate impressionistiche.
Jackson starnazza in qua e in là, qualche arco sbuca dalle pieghe più pastorali dello svolgimento. I labirinti psicologici memori di un trentennio prima (This is the fall, diretta discendente da Chameleon, l'agitatissima Barenuckle trade) sono la sorpresa più gradita da parte dell'uomo di mezza età ancora in preda ai suoi fantasmi interiori.
Ma mi sento di spezzare più lance nei confronti dell'uomo semi-pacificato che invece trova arie lineari e carismatiche come We are written, Driven, Once you called me, The ice hotel. Non è folk, non è cantautorato, nulla di categorizzabile. 
E' commovente, e nient'altro.

giovedì 15 novembre 2012

Peter Hammill - Out of water (1989)

Sebbene non del tutto esente da certi timbri sonori tipicamente '80, Out of water è uno dei dischi più barocchi e lussureggianti. E, cosa graditissima, contiene almeno un paio di quei pezzi che restano nel firmamento più alto; le malinconiche Our oyster e A way out, che non a caso finiranno entrambe in Typical.
PH fa l'equilibrista: tendenzialmente melodico, cammina sul filo strettissimo che divide stucchevolezza e arte. A dispetto della tensione atmosferica d'apertura di Evidently Goldfish, l'ambiente è raffinato e gli arrangiamenti sono belli spessi, anche a livello corale. Ci si stende negli arazzi di No moon on the water, ci si rotola per i campi di Not the man, ci si energizza con Green Fingers, si torna in teatro per On the surface.
Non epocale, ma di media piuttosto alta.

lunedì 12 novembre 2012

Peter Hammill - A Black Box (1980)

Sulla spinta emozionale causatami dal recente ascolto del box di 7 cd Pno Gtr Vox Box, mastodontico live solista, mi decido a riprendere in maniera un po' più marcata lo studio della sterminata discografia del mio eroe, su cui cronicamente ho delle lacune non indifferenti.
Pertanto passo sotto esame 4 suoi dischi indicati da più fonti come importanti tasselli, e significativamente posti a cavallo degli ultimi 4 decenni. La scatola nera in questione è uno spartiacque significativo: l'addio ai seventies, celebrato simbolicamente con la suite di 20 minuti Flight, e l'avvio agli eighties che sarà un decennio pregno di soddisfazioni e altissimi risultati artistici.
Il lato A è variopinto ed eccellente: si parte il fragoroso chitarrismo di Golden promises, replicato più tardi dalla power-ballad The spirit; si tratta di due pezzi fra i più accessibili e lineari del catalogo fino ad allora, fatti di un melodismo fresco e memorabile. Losing faith in words cresce con una progressione rabbiosa aritmica ed il fuzz vocale ruggente.
Ci si immerge in una nebbia inquietante con Fogwalking, a passi felpati fra drones minacciosi, e si esce con la solennità rabbrividente di In slow time, memorabile. Completa il quadro un paio di sperimentazioni fra le più ardite: The Jargon King è una selva di percussioni sintetiche in cui PH si muove incerto fra sdoppiamenti vocali e rasoiate chitarristiche. The wipe insiste sui battiti incessanti e sbatte su pulsioni cosmiche.
Su Flight c'è poco da dire: un po' depresso alla Over, un po' romantico alla A louse is not a home, un po' caotico alla Pawn Hearts, fa la felicità di chi ama il lato più teatrale e labirintico del Nostro.
Dall'anno successivo, con Sitting targets, la scrittura si fece più asciutta ed essenziale.


domenica 11 novembre 2012

Halifax Pier - Halifax Pier (1999)

Non tutti i gruppi della prima fase di vita della Temporary Residence hanno avuto una pari esposizione, a prescindere dalle qualità o meno. Io, ad esempio, che stavo discretamente attento al catalogo una decina d'anni fa, sono venuto a conoscenza dell'esistenza degli Halifax Pier soltanto perchè vi proviene Greg Burns, il talentuoso bassista dei Red Sparowes.
Difficile immaginare qualcosa di più diverso; la proposta del sestetto in questione era un folk-spleen-rock dai toni autunnali, con una partecipazione attiva di violino e violoncello, presumo suonati con grazia dalle due ragazze che si vedono in foto.
Intendiamoci, non sono stati nulla d'imprescindibile: questi 6 pezzi componenti l'album di esordio, a cui ne seguirà soltanto un altro simile un paio d'anni dopo, hanno il passo leggero e malinconico di un genere ai tempi molto in voga, il semi-acustico dimesso. Nei momenti migliori s'intravedono memorie lontane dei gloriosi ed ormai remoti Rex, ma senza qualità particolari di songwriting che eviti agli HP di restare confinati in una lega abbastanza inferiore.

sabato 10 novembre 2012

Hallogallo 2010 - Blinkgurtel 7'' (2010)

Singoletto promozionale a corredo del tour del 2010 (ahimè, soltanto una data nella capitale) con cui un Michael Rother in formissima performava la musica dei Neu! dopo una vita, col batterista dei Sonic Youth e un a me sconosciuto bassista di una a me sconosciuta band.
Trattasi di due pezzi abbastanza disomogenei fra di loro: Blinkgürtel è un lento e cadenzato pezzo cosmico, con Rother a ruota libera abbastanza dura. Drone Schlager invece si potrebbe dire una outtake da Neu '72, con il giro circolare e monocromatico di chitarra, con la differenza che invece del motorik di Dinger c'è una batteria decisamente più affinata, per non dire educata (e ciò non può esser considerato un bene, anzi...).
Insomma, nessuno di certo si aspettava che il 60enne Rother sconvolgesse un'altra volta la storia della musica.

venerdì 9 novembre 2012

Hair Police - The Empty Quarter (2007)

E' lecito definire un'episodio degli Hair Police riflessivo?
Sarà per l'impercettibilità del drum-kit, che ad un ascolto attento direi essere assente per la maggior parte del tempo, sarà per una maggior propensione dronica generale, ma The empty quarter mi è sembrato tale. Al posto degli attacchi subdoli a cui ci hanno abituato, qua c'è una minaccia costante che, a parte la deflagrazione dell'iniziale A dead bell, resta latente, in penombra, psicologicamente ancor più disturbante.
Potrei dire che è stato il loro disco aufgehobeniano, con tutti gli scarti del caso. Ma non è il caso di aggiungere altro, tanto chi sa, sa a cosa va incontro.

giovedì 8 novembre 2012

Gun Club - Death Party (1983)

Edizione ristampata nel 2004 ed ampliata con l'aggiunta di una registrazione live dell'epoca effettuata a Ginevra nello studio di una stazione jazz. Che cosa c'entrassero i GC col jazz poi mi resta ancora da capire, però è tutto molto affascinante. (E d'altra parte anche i Talk Talk se ci penso, fecero uno dei loro ultimi live al Montreaux Jazz Festival, per cui non c'è da stupirsi più di tanto).
L'EP originale era una bomba grazie soprattutto alle sfuriate di The Lie e The light of the world, con Pierce ancora al massimo della forma, demonio posseduto dall'impeto punk-blues. Poco sotto queste due la title-track e Come Back Jim, mentre un grazioso soffio melodico ammantava la bellissima The house on Highland Avenue, con lo spirito di Jim Morrison materializzatosi in salsa new-wave.
Il live in studio invece ovviamente è l'equivalente di una mandria di bisonti in corsa. Death Party, già velocizzata di suo, raggiunge i 10 minuti di durata, ma un po' tutti i pezzi mostrano un tiro pazzesco e un sound veramente crudo.
La curiosità sta all'inizio, con lo strano esperimento di Strange Fruit. Pierce, trovatosi in uno studio jazz seduto ad un piano invitante, evidentemente pensò bene di dirigere il gruppo verso un improvvisata, selvaggia e spiritata jam-session in cui tutti fecero più o meno quello che gli pareva, l'importante era seminare il panico. Effetto straniante è dire nulla; prendendo l'esperimento un po' più sul serio credo che ne sarebbero successe delle belle, ma la storia è andata bene così lo stesso.

mercoledì 7 novembre 2012

Guapo - Elixirs (2008)

Si è parlato di ammorbidimento, per Elixirs. E' chiaro che le sonorità non sono più spigolose come in passato, come nel capolavoro Five Suns, ma vogliamo dare il diritto ad una band di provare a cambiare le carte in tavola dopo aver raggiunto il proprio vertice o no?
Aggiunta in pianta stabile una chitarra direi di ottimo gusto, i Guapo hanno sfornato un prodotto più nobil-prog e meno Magma-tico, ricco di sfaccettature per loro inedite. Ok, si perde un po' del tremebondo impatto che avevano, ma ciò si scorge già dalla suite iniziale Jewelled Turtle, una magia sepolcrale di tredici minuti con un violino in libertà a svolazzare e temi squisitamente medio-orientali nel crescendo finale.
L'arzigogolìo avvincente di Arthur, Elsie and Francis porta ad uno dei fraseggi più memorabili; l'interplay fra i 4 ha del miracoloso e le sovrapposizioni chitarristiche si pongono in primo piano.
Il jazz alla moviola di Twisted Stems - The Heliotrope, con la novità di un canto ipnotico-catatonico, è sorprendentemente rilassata, mentre la sua scura contraltare Twisted Stems - The Selenotrope vede una presenza femminile muoversi come sirena disorientata in acque nebbiose.
Chiude alla grande l'epico quarto d'ora di King Lindorm, emozionante escursione ricca di partenze,  meditazioni, accelerazioni e qualche reminescenza crimsoniana.
Ehi, ma sono passati 4 anni e di loro più nessuna notizia....

martedì 6 novembre 2012

David Grubbs - The thicket (1998)

Ce ne fosse stato bisogno all'epoca, questa era la rivincita di Grubbs sull'ex-amico O'Rourke. Camofleur era uscito poco tempo prima, ma con The thicket (che non era il vero esordio solista, bensì il secondo) divenne chiaro un po' a tutti di che stoffa compositiva era dotato il louisvilliano.
Disco curatissimo e ricco di sfaccettature, conciso ma quanto mai efficace. Quanto è divertito il country sbarazzino di Orange disaster, tanto serioso e avanguardistico è il droning affilato di 40 words on workship. Ma fra questi due estremi ci stanno tante altre cose, con un gusto melodico e di ricerca che hanno del sublime, come il frammento per piano e tromba di Swami Vivekananda Way, lo slow-core d'autore di Buried In The Wall, la raffinatezza in puro stile GDS Two Shades Of Blue.
Col corredo di ospiti degnissimi quando non esclusivi, come il guru minimalista Tony Conrad e l'amico di sempre McEntire solo per citare i più famosi.

lunedì 5 novembre 2012

Grouper - A | A - Alien Observer (2011)

A partire dalla nebulosa copertina, la seconda e recente parte di A | A introduce alla grande il mondo etereo della Harris.
Mondo relativamente nuovo, perchè gli esordi di qualche anno fa erano segnati da una natura folk dura a morire anche se le atmosfere lasciavano intuire che la voglia della cantautrice di andare un po' più in là era pressante e sarebbe tardata poco ad emergere.
Riponendo parzialmente la chitarra nell'apposita custodia rigida, la Harris siede al piano elettrico, alza i riverberi a manetta e libera la propria voce confidenziale per una manciata di perle di cantautorato ambient-dronico.
Ciò che mi prende positivamente nella sua musica è la spontaneità disarmante, nonchè l'effettiva bravura compositiva, sentire Alien Observer e She loves me that way (quest'ultima suona come se i migliori Slowdive si fossero liberati della sezione ritmica, da brividi) per credere.
E' un modello di grazia e leggiadria onirica.