sabato 31 ottobre 2015

Clouwbeck ‎– Wolfrahm (2009)

Uno dei 7 pseudonimi sotto i quali Richard Skelton ha rilasciato musica prima dell'incontro con la Richardson che gli ha un po' cambiato la vita. Poche, pochissime parole perchè in fondo non c'è stata molta differenza fra tutti gli output dell'inglese fra il 2006 e il 2009; a dare il via a questo meraviglioso torrente c'era soltanto una fonte di dolore interiore che andava esorcizzata, e mi piace pensare che ci sia riuscito, sia per l'incontro sopracitato che per il compimento di un ciclo che doveva avere un termine.
Per cui, Wolfrahm non si discosta molto dagli altri episodi ma mi sento di dire che è tranquillamente all'altezza di altri suoi capolavori come Landings o Crow Autumn part two, con il suo effluvio inarrestabile di archi ipnotici e di maestose contemplazioni di lande incontaminate.
Magia senza parole.

giovedì 29 ottobre 2015

Alrune Rod ‎– Alrune Rod (1969)

La preziosa ricerca nelle nazioni fuori dal giro effettuata in più puntate da Vlad ha fruttato qualche  sorpresa come questi danesi che nelle poche info recuperabili in rete sono definiti come uno dei massimi gruppi rock della piccola nazione scandinava. Essendo questo il primo che mi capita alle orecchie, non ho la controprova ma dopo aver sentito Alrune Rod sarei pronto a scommetterci.
La a più parti citata influenza dei Pink Floyd inizia con le partiture di organo e finisce col fatto che nonostante la complessa articolazione delle strutture nessuno dei componenti era un virtuoso. L'enfasi dell'interpretazione era l'aspetto più importante, il vocalist impegnatissimo a tenere banco con un cantato quasi hammilliano. Un ottimo ibrido di psychedelia e progressive, anche per via delle fasi alterne di vuoti e pieni che impressionano. Un altra perla del sacro anno 1969.
Da ricordare la traccia n. 2 (titoli in madrelingua), il capolavoro del disco.

martedì 27 ottobre 2015

Yvette - Process (2013)

Il chitarrista dei newyorkesi Yvette, Kardos-Fein, ha dichiarato in un intervista che ad un certo punto si è un po'  stancato di suonare la sei corde con i suoi pedali e si è dedicato più a suonare i pedali stessi. Insieme al batterista Daniel ha creato Process, fino ad oggi unico album del duo, che è un piccolo capolavoro di art-noise moderno di spiccata originalità.
I ritmi tornitruanti ed incessanti sono un indubbio retaggio post-punk; potrebbe esserlo anche il canto, sempre molto nitido e modulato in maniera tradizionale (forse anche un po' asettico, ma ci sta alla grande). E' proprio quella chitarra, o per meglio dire l'arsenale di pedali, a fare fuoco e fiamme, ad assestare continue scosse di adrenalina rumoristica. Ne esce questo ibrido curioso, che non è noise classico, non ha nulla di industriale nè di gotico. Tutti i pezzi durano 3-4 minuti e sono schegge micidiali. Sarà interessante seguirne il proseguio.

domenica 25 ottobre 2015

Ice - Under the skin (1993)

Progetto collaterale ai God del sassofonista inglese Kevin Martin, ma contenente un peso massimo di quei tempi quale Justin Broadrick. E come quasi tutto ciò che il Godflesh-head realizzava, era contrassegnato da una ferocia metallica e da una contaminazione difficile da immaginare prima.
Al punto che mi sembra più corretto parlare di collaborazione fra i due, perchè le pesanti chitarre hanno un ruolo portante. Erano semmai le ritmiche a differenziare Under the skin dai Godflesh, oltre che un senso della dilatazione temporale che fa sospettare che la natura dei pezzi (tutti fra i 6 e i 13 minuti) sia quasi improvvisativa. Alcuni frangenti ricordavano gli Scorn di Vae Solis.
Era comunque un esperimento molto ardito, non meno dei gruppi principali dei due. La riuscita fu leggermente inferiore, tant'è che ci fu soltanto un altro episodio cinque anni più tardi e poi più nulla. Under the skin è comunque un capitolo importante di quella stagione coraggiosa e fruttifera dell'Inghilterra più violenta che si sia mai sentita.

venerdì 23 ottobre 2015

Holy Sons ‎– Decline Of The West (2006)

La parte più nascosta di un artista a volte è proprio la sua inclinazione naturale. Emil Amos, che abbiamo conosciuto nella veste di uno dei migliori batteristi in circolazione (Om e Grails), in realtà è un cantautore prima ancora di entrare in questi gruppi, e fin dall'adolescenza. Non ero a conoscenza del moniker Holy Sons, con il quale incide da 15 anni.
Decline of the west mette in scena un cantautorato fuori dai generis, nonchè un interprete di piacevole originalità; forse assimilabile soltanto a Phil Elvrum se dovessi proprio tirare fuori un nome, ma con una musicalità messa più a fuoco. L'ovvietà folk sembrerebbe sempre dietro l'angolo ma lì ci resta, in favore di un ancestralità diffusa (come d'altra parte avviene da sempre nei Grails). L'attitudine un po' slacker ed inquietamente rilassata potrebbe rimandare addirittura a certe pagine di Neil Young. Ciò che conta alla fine sono sempre le songs, e qui ce ne sono di ottime; riprova è che Amos utilizza una spartana drum machine anzichè mettersi ai tamburi, come a voler dare enfasi ai contenuti.
Da approfondire.

mercoledì 21 ottobre 2015

Jon Hassell ‎– Vernal Equinox (1977)

Hassell è il prototipo del musicista di enorme talento che rifugge la storia in gioventù e ci rientra uomo da una porta laterale, con umiltà e dedizione. L'aneddoto chiave fu il suo rifiuto di entrare nei Can, esempio di come si possa fallire l'appuntamento, ma con la ferrea consapevolezza di voler pervenire a qualcosa di proprio. Oppure il lungo apprendistato al raga indiano con Pran Nath, che formò indelebilmente il suo modo di suonare la tromba.
E' quasi impossibile descrivere il senso di rilassatezza e di ambientazione che viene ricreato su Vernal Equinox. Lo strumento magico di Hassell disegnava scenari panoramici senza aderire a nessuna forma canonica, col solo supporto di percussioni (congas, tablas, shakers), unico scheletro ritmico di un flusso onirico incessante anche se diviso in tracce. Con la title track a primeggiare, per ben 22 minuti di astrazione naturale. Un suono caldo, un insieme indefinibile, proveniente dal mondo (perchè di world music si trattava, senza dubbi), ma impermeabile ad ogni costume corrente. Unico.

lunedì 19 ottobre 2015

Emeralds ‎– Solar Bridge (2008)

Trio di Cleveland, Ohio, che ottenne una piccola visibilità in quell'area dell'underground americano attigua alla No Fun ed al suo festival, all'hypnagogia ed al noise estremo. Possiamo osservare, dopo qualche anno, che si è tutto sciolto come neve al sole: si tratta di corsi e ricorsi storici come ne abbiamo visti tanti, di coincidenze di gusti e tendenze sociali. Dopodichè, passato il ciclone, si fa pulizia e restano soltanto i più forti (che non sono necessariamente i migliori).
Nello specifico, gli Emeralds erano piuttosto sostenuti da SIB e Mattioli che ne decantavano le gesta in un bel servizio sulla moaning wave di quel tempo. Sofferenti come tanti di incontinenza produttiva, hanno rarefatto le uscite fino a sciogliersi l'anno scorso. A riascoltarlo adesso, credo che Solar Bridge resti un ottimo prodotto nella media dell'ambient più dronica e minimalista; uscisse oggi non varrebbe un granchè.
I tre (due synth ed una chitarra, piuttosto trattata) indugiavano su bordoni di chiara origine cosmic-deutsch, con le consuete stratificazioni ma senza saturare. Due tracce per soltanto 27 minuti; molto bella The quaking mess, con più soluzioni ed una progressione affascinante.

sabato 17 ottobre 2015

Antlers - Familiars (2014)

Peter Silberman, cantautore di fatto ma nascosto sotto il nome di un gruppo, è un songwriter moderno che più vintage non si può. Funziona così, ormai, col pop: non avendo nè un presente nè un futuro, quello buono suona con gli strumenti e i timbri degli anni '60/70.
Palace, il pezzo che apre il suo ultimo disco, cresce con un wall of sound di tastiere e trombe che fanno innamorare pressochè subito. Ho pensato è il solito trucco per attirare l'attenzione, di mettere il pezzo bello al numero uno della scaletta. Invece no. Familiars è un capolavoro di artigianato.
Immerso in un mare di riverbero generale, l'impianto contribuisce ad esaltare le riflessive e compassate composizioni di Silberman: su tutti la sua voce acuta (il cui timbro può ricordare vagamente Jeff Buckley) ed una tromba onnipresente e laconica. Non c'è un pezzo che non sia bello. E soprattutto non c'è ombra di folk, questo è il merito più grande di Silberman, il marchio a fuoco personale che lo innalza.
Da affiancare a Beach House, Clientele e Dark Dark Dark nel rinascimento art-pop.

giovedì 15 ottobre 2015

Daniela Casa ‎– Sovrapposizione Di Immagini (2014)

La nazional signora Library giustamente tributata dalla label inglese di settore Finders Keepers con una compilations uscita l'anno scorso, su vinile. Diciassette tracce pescate da 4 album diversi, fra cui quello che ci aveva introdotto alle sue mirabili musiche di servizio.
Se da un lato non posso che gioire per il meritevole recupero, dall'altro mi auguro che si possano ristampare anche gli altri tre. La Casa non aveva molto da invidiare ai colleghi maschi più rinomati, anzi: la sua grazia femminile sapeva emergere nelle tracce più melodiche con brillantezza, come negli estratti da Ricordi d'infanzia. A meno che non ci fosse da avventurarsi nell'elettronica dissonante e nei concretismi di quelli di Arte moderna o inscenare hard-rock saturi di fuzz in Grosse cilindrate (da Lo sport vol. 1).
Attendiamo fiduciosi altre ristampe.

martedì 13 ottobre 2015

Denseland ‎– Like Likes Like (2013)

Trio composto da sezione ritmica tedesca di inclinazione avant-electro (il batterista è anche produttore e label-owner) + l'americano David Moss, percussionista classe 1949 di estrazione contemporanea reinventatosi vocalist fuori dai generi.
Nessuno di loro è un giovanotto, e il sospetto che fosse una marpionata era forte fin dai primi minuti. In realtà dopo qualche ascolto Like likes like cresce inesorabile; le sonorità sono elettroniche e mutanti, dal retaggio più radical-wave con reminescenze di white-funk caustico immerso in ritmi fratturati. Il vociare di Moss, poi, fa veramente la differenza, passando dall'alieno catatonico al colloquiare confidenziale con tutto quello che ci sta nel mezzo, senza mai perdere le staffe e con un carisma immutato. Nella sua progettazione, un disco perfetto anche nei suoni: non suona datato nè troppo sofisticato.

domenica 11 ottobre 2015

T'ien Lai ‎– Da’at (2013)

Suonano incappucciati e con vestiti dai colori sgargianti, sono due polacchi ed inevitabilmente uno dei due è il solito Ziolek; per fortuna che nel 2014 si è fermato altrimenti il rischio svalutazione sarebbe diventato alto. L'altro si chiama Jedrzejczak e suona anch'egli in altri gruppi, ha collaborato con Ziolek in Stara Rzeka. Il punto di contatto con quest'ultimo progetto e Alameda 3 sta sempre nel porre un enfasi esagerata su tutto, persino in questo drone-cosmic-folk che non inventa pressochè nulla.
Tuttavia Ziolek riesce a trovare ancora una volta la chiave d'accesso per lo scrigno del mistero: non ci si stanca neanche qui. In particolare quando i due sfoderano qualche influenza mediorientale o indiana, infilata fra corrierismi orbitanti e super-droni di ruvidezze spettrali. Preso nel suo complesso, Da'at è un viaggio denso di sensazioni che si fa rispettare, nel suo ambito.

venerdì 9 ottobre 2015

Screams From The List 11 - Art Bears ‎– Hopes And Fears (1978)

Dallo scisma degli Henry Cow, gli Art Bears emersero come unità eloquente e ben inquadrata: la Krause, forse stanca di poter cantare poco, poteva esprimersi in libertà e con tutto il suo rigore filo-teutonico. Frith e Cutler, liberi dalle pastoie di Hodkingson, asservivano la vocalist in tutta la sua verbosità ed in qualche modo rinnovarono il RIO, che giunto agli anni del punk effettivamente aveva bisogno di un rimescolamento.
Ma, per carità, non si parli di maggiore accessibilità, anzi. Hopes and fears suonava, a mio avviso, ancor più ostico degli Henry Cow: l'approccio teatrale era disturbato, mai scontato ed asservito alla voglia di rinnovarsi di Frith e Cutler, che con la maturità seppero creare una musica deforme, inquietante, polimorfa. Difficile, molto difficile. Da ascoltare parecchie volte, prima di poterne dare un giudizio profondo.

mercoledì 7 ottobre 2015

Talibam! ‎– Puff Up The Volume (2012)

Non ho mai sopportato l'hip-hop, ma nel momento in cui i Talibam! lo sottopongono alla sedia elettrica e realizzano questo spassosissimo campionario scatta l'eccezione regina.
Provare per credere: chi ha amato le precedenti e non meno folli prove di Shea & Mottel potrà anche esserne rimasto contrariato. Io stesso pensavo che i due MC in azione fossero altri prestati alla situazione, ma da profano in materia mi sbagliavo. Sono loro stessi che sproloquiano in lungo ed in largo, non ho avuto il tempo di leggere i testi (in caso fossero disponibili), ma il mio presentimento è che si tratti di una gigantesca presa in giro al genere, persino musicalmente. Shea rinuncia parzialmente al suo talento irregolare per mettersi al servizio di groove storti, Mottel ha modo di giganteggiare distorcendo anche certi luoghi comuni del genere. Sembra anche un po' concept, con quel Jimmy che viene evocato dall'inizio alla fine.
Irresistibile.

lunedì 5 ottobre 2015

Nijiumu ‎– Era Of Sad Wings (1993)

Il progetto dark-etereo di Haino Keiji, durato soltanto questo disco e la partecipazione ad un cofanetto con avanguardisti da ogni parte del pianeta nel 1997, ovvero quando il settore lo stava ancora scoprendo e si meravigliava.
E' un Keiji molto diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere: si avvicina di più a quello estatico-levitante nel senso che in Era of sad wings non ci sono esplosioni di nessun tipo, ma i presagi sono tutt'altro che rassicuranti. Inizialmente e per larga parte è pura dark-ambient da caverna, con i vocalizzi dimessi e all'apparenza impauriti fino agli ultimi 10-15 minuti in cui i fantasmi lo rapiscono senza riserve, e allora sono dolori. Fuorvianti i credits che indicano guitars/vocals; appare chiaro che Keiji si dedica ad emissioni di suono di classico stampo industriale, con i bordoni angoscianti e tutto il necessario ad incupire al massimo.
Non credo che sarebbe necessario essere fan del mito per poter apprezzare Era of sad wings; è parecchio lungo e tortuoso, ma gli estimatori della dark-ambient-industrial potranno convenire che si tratta, con ogni probabilità, di una pietra miliare dell'area. A maggior ragione perchè Mr. Keiji è un intruso della materia.

sabato 3 ottobre 2015

Giles Corey - Giles Corey (2011)

Dan Barrett degli Have A Nice Life in veste cantautoriale. Suona un po' strano, no? D'accordo, ma se ci penso Deathconsciousness aveva anche delle splendide ed indimenticabili canzoni, e colui che ne è stato principale cantore è andato in solitaria, dando la stura ad un ambizioso eclettismo (forse un po' castrato nel contesto HANL?) che rende disorientante l'ascolto, difficile l'assimilazione e la memorizzazione dei punti salienti.
Sbrigata la critica, ci riprovo ed al 4° ascolto inizia a dare soddisfazioni. Barrett passa di palo in frasca; litanie di prigionieri incatenati, estasiate cantilene acustiche, ambientazioni dark-ipnagogiche, depresse introspezioni, torch songs enfatiche, esplosioni di coralità in un improbabile ibrido gospel dei fantasmi interiori. Gli slanci di positività sorprendono, in un contesto che sembrerebbe inesorabilmente depresso. E forse sono proprio il punto di forza del disco.
Se ci sarà un seguito, è già molto promettente.

giovedì 1 ottobre 2015

Helmet - Betty (1994)

Celebrato l'anno scorso col tour del ventennale, Betty fu il disco più vario della fase gloriosa degli Helmet, di certo non ai livelli dell'insuperabile Strap it on ma superiore al secondo, il monocorde In the meantime. Forse fu proprio quest'ultimo a spingere Hamilton a mescolare le carte, anche sull'onda del successo commerciale del gruppo il quale richiedeva una dose di melodie orecchiabili, qui ben presenti (erano pur sempre gli anni del post-grunge). Era anche la produzione a diversificare: i vecchi panzer cingolati scemavano sempre più il loro impatto e si faceva strada un senso del groove per certi versi irresistibile, grazie al lavoro unico della sezione ritmica (non ci si stanchi mai di ammettere la grandezza di Stanier e Bogdan, prego).
Ricordo che all'epoca stupìrono non poco il bluesaccio acustico di Sam Hell, il jazz-noise di Beautiful love e l'ibrido stranissimo fra Captain Beefheart e Pil di The silver hawaiaan). Grazie anche a questi, anche se non rappresentativi del contesto, la signorina in copertina Betty invecchia bene e fa ancora bella figura; ormai gli Helmet erano alternative a tutti gli effetti e non più noise-rock, ma lo facevano dannatamente bene.
L'edizione limitata dell'epoca comprendeva anche 5 pezzi live di ottima valenza, fra cui il prezioso recupero di Sinatra, dal primo album.