Sestetto londinese che come una scheggia realizzò due album su Vertigo e poi si sciolse. Una congiunzione astrale come solo in quegli anni poteva accadere: suono jazzato in mano a musicisti bravi ma non tecnico/virtuosi, composizioni dilatate in forma di jam ma ben organizzate, per poco meno di 40 minuti di pura magia la cui unica lacuna è quella di avere i pezzi sfumati allo
stesso minutaggio (A1 è tagliato esattamente come B1 e stessa cosa per i
n. 2, ma di sicuro fu una scelta manageriale ed in quegli anni i
responsabili facevano più danni della grandine).
Certe alchimie dei Settanta ebbero il tocco dell'immortalità. Rispetto al primo album, più esuberante nelle orchestrazioni, la formazione era cambiata per metà ma la leadership era sempre in mano al sassofonista Calvert ed al chitarrista Wilson; il primo marchiava a fuoco con le sue frasi languide, il secondo saliva in cattedra in punta di piedi ma con uno stile memorabile. Strumentisti discreti, strateghi tattici, mai sopra le righe, mai un passo più lungo della gamba, il gusto sopraffino al comando; la cantante Meek una sirena fascinosa e carica di mistero (sembrerà un parallelo improbabile, ma io ci sento le inflessioni più free di PJ Harvey).
Nè jazz, nè Canterbury, nè psichedelia, nè prog, Changes è un istantanea che la storia non dovrebbe mai ignorare: si provi ad ascoltare It could only happen to me e si troveranno certe soluzioni che l'anno successivo i Pink Floyd fecero proprie in The dark side of the moon.
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