martedì 30 maggio 2017

Scream From The List 59 - Ghédalia Tazartès ‎– Tazartès' Transports (1980)

Uno di quei personaggi non laterali, ma proprio spostati. Di una creatività debordante, forse derivata anche dal melting pot delle origini di questo artista nato in Francia, ma anche turco, ladino ed ebraico. In un intervista racconta che il mix di linguaggi a cui fu sottoposto negli anni della crescita lo portò a crearsene uno tutto suo, traslandolo successivamente sulle musiche che ha realizzato per suo puro piacere, e non per lavoro; a quello ci hanno pensato le sonorizzazioni per il teatro ed i balletti.
Tazartès' Transports è un disco delirante. Anzi, è dire poco. Un'informe ammasso di etnico-industrial-minimalistico, in cui arie medio-orientali vanno a cozzare rovinosamente su ritmi meccanici, su grezze spirali di oscillatori, su sui concretismi, su clangori secchi di rumore bianco. A complicare le cose, la grande enfasi riposta sulle voci, sia parlate che modulate in una gamma sterminata di timbri, tonalità ed umori.
In due parole; qualcosa di mai sentito prima.

domenica 28 maggio 2017

Church ‎– Further/Deeper (2014)

Ovvero la ricetta dell'eterna giovinezza.
Ventiquattresimo album dei Church, dopo un terremoto: lo svanire nel nulla del chitarrista storico Wilson-Piper, localizzato in Svezia ma vanamente contattato da Kilbey (per 6 mesi, a suo dire) senza ottenere alcuna risposta. In cambio, la band ha assoldato un sostituto connazionale, Ian Haug, di una decina d'anni più giovane ma di comprovata esperienza (chiedo venia, non conosco i Powderfinger), e come per miracolo non ce ne accorgiamo perchè Further/Deeper è l'ennesimo colpo di classe cristallina degli australiani, perchè Haug si cala alla perfezione nell'oscuro meccanismo magico che consente loro di resistere al corrodere del tempo. Il buon vino invecchiato in salsa lisergica: Miami, Vanishing Man, Delirious, Pride before a fall, Toy head. Un disco più energico del pur splendido precedente, persino lungo oltre un'ora. Lo zoccolo duro ne ha da godere.

venerdì 26 maggio 2017

Massimo Volume ‎– Aspettando I Barbari (2013)

Il vero ritorno in forma dei MV, molto più che il mediocre Cattive abitudini che interruppe il decennale azzeramento del Volume. Merito non soltanto di un'ispirazione ritrovata, ma anche di un interplay amalgamato fra Sommacal e Pilia che fanno brulicare le chitarre incessantemente con un lavorio impeccabile. Il Clementi adulto non può fare altro che continuare a snocciolare le sue storie di vita quotidiana sotto un ottica sempre più incupita, aspetto che si associa in piena simbiosi con le musiche, a tratti persino catastrofiche. In sostanza sono sempre i soliti MV, ma con un pugno di pezzi in più da registrare in un ipotetico best of: la title-track ed i suoi spazi aperti, la distorta Compound, la deviante Vic Chesnutt, la drammatica Dymaxion song. Non possiamo aspettarci rivoluzioni, ma soltanto una sana oretta di ritorno ai '90, come fosse il prendere atto dell'invecchiamento con un pizzico di amarezza e nostalgia.

mercoledì 24 maggio 2017

Metamorfosi ‎– …E Fu Il Sesto Giorno (1972)

Predecente di soltanto un'anno al capolavoro assoluto, il debutto dei Metamorfosi ne è talmente distante da faticare ad essere inserito nel filone progressive. Eppure le anticamere ci sono, se ne possono sentire i germogli maturare a poco a poco, legati più che altro all'autorevolezza del già potentissimo Spitaleri ed a certe tempestose tessiture d'organo di Oliveri. Nel suo complesso però E fu il sesto giorno segnava uno strano, forse unico ponte di passaggio fra il beat più vigoroso ed il prog più legato alla forma canzone. Proprio per questo gli amanti viscerali di Inferno probabilmente tendono a snobbarlo, a ridimensionarne la portata, a dargli importanza soltanto come episodio di maturazione.
Eppure, su 7 pezzi in scaletta, ce ne sono almeno 3 splendidi, che portano benissimo tutti gli anni che hanno sul groppone; la title-track, i 9 minuti di Crepuscolo ed Hiroshima, già articolate ed orchestrate in maniera avvincente, e delle quali posso tralasciare volentieri le tematiche dei testi, un po' troppo cattoliche per un ateo incorruttibile come me. Oltre ai due leader, ottime anche le prestazioni della sezione ritmica e del chitarrista-meteora Tamburro, protagonista di interventi isolati ma incisivi.

lunedì 22 maggio 2017

Cyclobe ‎– The Visitors (2001)

Atto secondo di questo fenomenale duo che come pochi altri al mondo elabora autentico illusionismo sonoro, scandaglia le oscurità delle galassie più remote, riemerge dalle foschie delle brughiere britanniche, prepara intrugli di magia nera in laboratorio. Forse il loro più rappresentativo insieme al più musicale Wounded Galaxies, The visitors è programmaticamente un disco dai suoni alieni e di maggior derivazione ambient-industriale, ma non disdegna stridenti digressioni nella musica da camera in almeno tre episodi. La ristampa del 2014, rilanciata in occasione di alcune (rarissime) date dal vivo, ha incluso un pezzo contemporaneo curiosamente minimal-pastorale, che posto a fine scaletta interrompe straniando lo stato di ipnosi auto-generatosi.

sabato 20 maggio 2017

Vittorio Gelmetti ‎– Musiche Aleatorie ‐ Collage ‐ Memorie (1971)

Sperimentatore atipico, fuori dal gruppo e dalle cerchie, Gelmetti rappresentava un'anomalia già per le sue origini: si era dato alla musica tardi, dopo essere diventato geometra (!). Nonostante gli ostracismi che incontrò lungo il suo percorso (come raccontato da Mattioli nel suo illuminante Superonda), si distinse per la sua determinazione e arrivò a traguardi ragguardevoli, lavorando a lungo col teatro, con la Rai e ripetutamente anche in giro per l'Europa. Per me, relativo profano di queste sperimentazioni, il nome di Gelmetti resta indissolubilmente legato a Deserto rosso, il capolavoro di Antonioni al quale eglì fornì una colonna sonora allucinante. Il suo rapporto col cinema restò comunque marginale, e come tanti altri sperimentatori del dopo guerra sono state poche le sue testimonianze discografiche; questo suo primo vinile su CAM del 1971 penso che sia un buon bignami delle sue composizioni, fra sinfonismi dell'assurdo, suoni concreti, vocalismi spauriti, tonfi nel buio e partiture circospette. Un passo fuori dalle sonorizzazioni, un'altro fuori dalla library più convenzionale, due passi dentro il circolo dei compositori "formulari".

giovedì 18 maggio 2017

Sunn O))) & Ulver ‎– Terrestrials (2014)

Frutto di alcune jams in casa Ulver nel 2008 ma pubblicato solo 6 anni dopo, Terrestrials è quel che si dice un prodotto della pura e semplice vanità. Lo scrivo senza malizia: due bands moderne di calibro mondiale che si incontrano, si stimano, condividono addirittura un componente (indovina chi, l'onnipresente O'Sullivan), era inevitabile che finissero per fare un disco insieme. Che poi sia stato snobbato pressochè da tutta la critica, è poco rilevante.
Anzi. In casa Sunn O))), queste potrebbero esser state prove propedeutiche alla realizzazione del loro capolavoro arty Monoliths and dimensions, che sancì una (momentanea e brillante) tregua dal drone-metal. Lo sostengono Let there be more light e Western Horn, monoliti possenti che attenuano l'impatto delle chitarre a favore di suoni stratificati, espansi (la tromba onnipresente a solcare), grevi come consueto ma che disegnano panorami sconfinati. Scandinavi, direi.
Dopo esser stati più o meno a guardare, gli Ulver si prendono la loro fetta con la splendida Eternal Return, 14 minuti spezzati in due fasi; la prima ribollente calderone per chitarre lancinanti, piano elettrico e violino, la seconda drammatica e passionale, con Rygg che fa capolino con la sua voce calda e chiude in bellezza un esperimento a mio avviso un po' sottovalutato.

martedì 16 maggio 2017

White Heaven ‎– Out (1991)

Splendido recupero psichedelico avvenuto in tempi non sospetti e nella landa del Sol Levante, ad opera di un quartetto che arrivò a questo esordio (immancabilmente su PSF) dopo già diversi anni di attività. Guidati dal cantante/chitarrista/autore You Ishihara e da un chitarrista solista che faceva scintille (Michio Kurihara, che dopo lo split confluirà nei ben più noti Ghost), i WH sembravano atterrati in quell'epoca direttamente dal 1968/69, con uno stile ben diviso in due reparti: da una parte la sfuriata acida retaggio dei Blue Cheer di Vincebus Eruptum, dall'altra la ballad elettrica solenne e trasognata, cantata con grande trasporto emotivo, memore a mio parere dei Doors nei frangenti in cui era Krieger a dare lo spunto. Sono queste ultime le perle memorabili di Out; Dull Hands, Fallin' Stars End, la title-track. Qualche memoria sparsa anche di Velvet Underground e Quicksilver MS completavano un quadro che, per quanto vintagistico e derivativo fosse, poteva solo far esultare gli appassionati. E che faceva a pezzi i connazionali concorrenti (e molto sopravvalutati, a mio avviso) Les Rallizes Denudes.

domenica 14 maggio 2017

Karate ‎– The Bed Is In The Ocean (1998)

Tempo fa ho visitato un sito in cui chi scriveva sosteneva che The Bed Is In The Ocean sia stato il miglior disco dei Karate. La mia prima reazione è stata di sostanziale contrarietà: ma come? Come non convenire che sia stato l'epico supersonico In place of real insight o il raffinatissimo testamento 595
Eppure si trattava (credo) di un mio coetaneo, uno che i Karate li ha vissuti in diretta (e chi potrebbe scoprirli al giorno d'oggi, d'altra parte?); così mi è saltata la pulce all'orecchio e sono andato a riascoltarmelo, a 18 anni dall'ultima volta. Ne avevo un ricordo contrastato, come di un capitolo molto buono ma inferiore all'insuperabile precedente. Alla prova del tempo, l'opinione non cambia un granchè ma torna il piacere di rivivere le sensazioni del tempo tramite piccoli gioielli come There are ghosts, Diazapam, Up nights, Not to call the police. Era un capitolo di transizione, col ritorno alla line-up a tre, con la svoltina jazz alle porte; ma la classe era immutata.

venerdì 12 maggio 2017

Jandek ‎– Blue Corpse (1987)

Il re del solipsismo americano, della secretazione di qualsiasi info. Un personaggio come Sterling Smith ai giorni nostri non sarebbe mai potuto nascere, eppure il suo metodo di lavoro è stato attuale più che mai: autoproduzione assoluta, dischi come se piovesse (82 in 38 anni), menefreghismo totale di quale epoca sia la corrente.
Cantautore fuori da qualsiasi contesto, antitesi della tecnica e della fedeltà, Smith, soprattutto nei primi 10 anni di carriera, faceva un folk lunare, ubriaco, grezzo e finanche repulsivo. Chitarra acustica approssimativa se non scordata, voce che più che un canto era un recitato ad alto tasso alcoolico, seppur dimesso. Non so quanto Blue Corpse sia rappresentativo della produzione delle industrie Corwood (il nome scelto per la sua fantomatica etichetta discografica), quel che è certo è che la sua umile condizione lo rende un piccolo gioiello di outsiderismo abbastanza vicino agli standard. Al primo ascolto mi aveva fatto addormentare, al secondo mi aveva fatto drizzare le orecchie, al terzo ne ho capito il valore, le ossessioni e l'intensità. A modo suo, un'implosione dell'anima.

mercoledì 10 maggio 2017

Khanate ‎– Capture & Release (2005)

Ultima pubblicazione in vita del mostro, seguito mirabolante di quell'apocalisse che li aveva fatti assurgere ad entità elevatrice del doom-metal a forma inedita. Di loro ormai penso di aver espresso tutto l'esprimibile riguardo anche al live ed alla compilation postuma, eppure lo status di magnificenza raggiunto anche da questo due tracce se ne sta lì a giganteggiare, rendendo difficile un'ipotetita scelta del miglior disco dei Khanate, quando in realtà la loro opera secondo me va intesa come una creatura compatta, fluida e monolitica; Capture (18:13) e Release (25:03), labirinti bui di follia psicotica, emissioni sulfuree sfregiate da Dubin, monumenti sgretolati da un agente atmosferico tossico peggio di una nube chimica. Ancor più memorabile la fase slow-core a 3/4 di Release, trovata artistica come picco genial-diabolico. Qualcuno con la voce grossa prima o poi si stupirà del mostro e ne decanterà le epiche gesta.

lunedì 8 maggio 2017

Steve Roach ‎– Structures From Silence (1984)

Il guru dell'ambient americana in uno dei suoi primi dischi, per l'esattezza il terzo. Ancora relativamente distante dalle contaminazioni etniche che caratterizzeranno i suoi successivi più acclamati, Structures From Silence è un distillato purissimo di suoni vaporosi e solenni, di un minimalismo celestiale che stimola le cellule cerebrali. E' la colonna sonora di una pacificazione incontaminata, senza ritmo alcuno. Solo 3 lunghi pezzi, privi di qualsiasi tensione e di qualsiasi compromesso. Solo pace interiore e meditazione. E' un peccato, che Roach ne impedisca ogni tipo di assaggio su Youtube.

sabato 6 maggio 2017

Metzengerstein ‎– Albero Specchio (2013)

Eccellenza dell'IOP, questo trio pisano che ne espone un lato cosiddetto rituale, ancestrale, mitologico. Sono solo tre degli aggettivi attribuiti loro, e mi risulta arduo trovarne altri per definire Albero Specchio. Un 5 tracce intitolate ciascuna con un simbolo di alfabeto antico (non saprei dire quale, chiedo venia per l'ignoranza); simbologico, si potrebbe aggiungere, anche perchè racchiudono in maniera esauriente la gamma di suoni; gorghi abissali, danze di magia nera, processioni di ispirazione indio/raga, illusioni minimalistiche, pulsazioni sulfuree alla Ummagumma. Più che un disco, una compatta manifestazione di intenti psichedelici che ai giorni nostri suonano ancora molto credibili.

giovedì 4 maggio 2017

Rosa Mota ‎– Drag For A Drag (1993)

Mini-album preparatorio al capolavoro che li ascriverà al firmamento indie-noise inglese, purtroppo come semi-meteore ma indimenticabili. Rispetto ad esso ovviamente un pelo acerbi, ma già lanciati fuori dalla pesante orbita sonicyouthiana di provenienza.
Le tre chitarre dominano lo scenario, per un umore generale tendente al grintoso rabbioso. Poche le concessioni alle melodie appena più rilassate (il break sognante col flauto in sottofondo di Are we having fun yet?, il chorus a voce mista di Fucked), memorabile Cold che anticipa lo spleen-core di Wishful sinking. Di loro non si ricorda nessuno, anche perchè tutti i componenti scomparvero nel nulla dopo lo scioglimento. Per cui un piccolo amarcord è dovuto.

martedì 2 maggio 2017

Natural Snow Buildings ‎– The Centauri Agent (2010)

25 Album in 15 anni sono un po' troppi, per i miei gusti. Se poi uno di questi dura quasi due ore, la probabilità che mi annoi sono gigantesche. Del duo francese quindi avrei evitato The Centauri Agent come la peste, se non avessi comunque letto che si tratta di uno dei loro migliori. E così la sorpresa di trovarsi di fronte ad un piccolo gioiello amplifica il piacere di lasciarsi abbandonare, cullare, ipnotizzare dal suono soffice ed espanso di Medhi e Solange, che con calma serafica, seduti e chinati sulle loro corde, dipanano. Fra ballad agresti e bucoliche, droni siderali intrisi di solennità alla Flying Saucer Attack, sballi cosmici a là Grouper, divagazioni sbilenche a là Supreme Dicks (quasi), queste due ore passano che è un piacere, senza neanche accorgermi che il primo pezzo in scaletta, l'epico Our Man From Centauri, dura appena 41 minuti. E non è assolutamente vero che eclissa il resto del disco.