domenica 31 dicembre 2017

Slowdive ‎– Slowdive (2017)

Al primo ascolto, ho pensato: come temevo, hanno fatto il compitino, l'esercizio ad uso e consumo dei nostalgici, hanno svuotato il cassetto dei tempi, forse Halstead aveva scritto questi pezzi nel 90/91 e li ha disotterrati. E poi, le foto promozionali, oddio: le confronti con quelle straconosciute degli anni, vedi questi ragazzi che hanno raddoppiato la loro età rispetto ad allora e pensi: ma perchè sono tornati? Bisogno di cash impellente per sostenere la vita che non ha riservato loro il successo che avrebbero meritato?
Qualunque siano i motivi, al secondo ascolto penso, ma perchè screditarli? Io ho più che raddoppiato la mia età,  e venero ancora i loro 3 dischi. In fondo è un ritorno dignitoso, non potevamo aspettarci una rivoluzione, un'altro Pygmalion. Quello è un disco che capita una volta sola, con l'entusiasmo ed il coraggio giovanile ma con una discreta esperienza alle spalle. Congiunzioni, insomma. Più logico aspettarsi una collana di autocitazioni in stile Just for a day, in versione adulta; eravamo così, una volta, quella freschezza è bell'andata ma le sensazioni possiamo farle rivivere. Noi, che abbiamo creato un genere e soprattutto negli ultimi 10 anni ci siamo visti mutuati in lungo ed in largo. Posso immaginare che più o meno abbiano ragionato in questo senso.
Al terzo ascolto; averne, di compitini così. Perchè a volte è giusto tornare, anche solo per far rabbrividire un po' chi c'era allora, chi li ha vissuti sulla propria pelle. Perchè gli Slowdive sono un mito, e non sarà un nobile esercizio a ridimensionarli.

venerdì 29 dicembre 2017

Scream From The List 66 - Fred Frith ‎– Guitar Solos (1974)

Cervellotico, labirintico, inestricabile groviglio di dissonanze per uno dei chitarristi più audaci ed avanguardistici degli ultimi 50 anni. Negli anni '70 poteva succedere anche questo: che un giovane esordisse con un lavoro solistico così ostico, con alle spalle soltanto il primo disco del suo gruppo principale, gli Henry Cow. Guitar solos include elucubrazioni per chitarra preparata, di cui FF fu uno dei pionieri: sulla sua Gibson, montò un pickup aggiuntivo che permetteva amplificazione aggiuntiva alle tempeste che si agitavano sul manico, complice anche un uso esagitato del tapping con legno a terra. Il problema che si può riscontrare con dischi del genere è che, oltre all'estrema vanità dell'operazione, un oltranzismo del genere possa generare boria; secondo il mio parere, invece, la vasta gamma di suoni che generò Frith tiene alta la soglia dell'attenzione di queste divagazioni cubiste; era chiaro che il concetto era di non avere un concetto dietro l'operazione, per cui l'assurdità vale appieno l'inclusione nella List.

mercoledì 27 dicembre 2017

Captain Beefheart ‎– Bat Chain Puller (1976/2012)



Preziosissimo ripescaggio da parte della Zappa Family, che da sempre ne detiene i diritti. Promotore dell’intera operazione infatti fu  il buon Frank, che terminato un lungo periodo di dissidi aveva riabbracciato la collaborazione col Capitano. Il Bongo Fury in coppia non aveva dato i frutti sperati (si tratta di un disco non riuscito, a mio avviso), cosi fu ricostruita una Magic Band per l’occasione, con l’inclusione del mitico John Drumbo French. 
La storia dietro Bat Chain Puller è un casino pazzesco: registrato nel 1976, non fu pubblicato per una serie di problemi sopraggiunti a Zappa: parte del materiale confluì sui 3 successivi (ed ultimi) album del Capitano, mentre la versione integrale apparve per la prima volta nel 2002 sotto le vesti del bootleg Dust Sucker. 
Dopo aver espletato le doverose informazioni di cronaca, ma anche senza saperne più di tanto, resta soltanto un concetto: si tratta del miglior disco del Capitano dai tempi di Lick my decals off, baby. Il suo blues cubista servito su un piatto d’argento, con una rinnovata vigoria, con il cospicuo vantaggio di una fedeltà sonora cristallina, sconosciuta per i suoi dischi. Merito forse di un restauro adeguato da parte della Family? Forse semplicemente la consapevolezza che il Capitano merita (sempre più) un tributo eterno ed un esposizione maggiorata. Perché c’è poco da dire, è stato uno dei più grandi.

lunedì 25 dicembre 2017

Caretaker - Patience (After Sebald) (2012)

E' duro il destino dei miei cult-heroes come Kirby: le aspettative sono sempre altissime, perdo l'obiettività, non riesco ad accettare che i miracoli non si ripetano. Così, l'inizio della serie Everywhere at the end of the time non mi ha entusiasmato, l'ultimo LK mi ha deluso profondamente, così come il comeback di V/Vm. Il suo ultimo entusiasmante resta Patience, uscito neanche un'anno dopo il capolavoro unanime ma a quanto pare realizzato prima di esso. Trattasi di colonna sonora per un docu-film di Grant Gee, specializzato in cronache musicali, dedicato allo scrittore tedesco Sebald. La fonte primaria è tratta da Winterreise di Schubert, compositore classico dei primi '800, i cui frammenti pianistici, sottoposti al  trattamento kirbyano, sfumano in una nebbia impenetrabile di fruscii, di appannamenti ed implosioni. A parte qualche traccia serena ed estatica (spicca la magnifica When the dog days were drawing to an end), si tratta di un lavoro cupo e greve, con un paio di puntate sull'orrorifico dark-ambient che ha contraddistinto precedenti uscite di Caretaker. Per questo motivo si tratta di un album molto più ostico di Bliss; tuttavia, per chi ama la concettualità (escapista, hauntologica, furtiva, come diavolo la si voglia chiamare, a condizione che si voglia) del guardiano, si tratta di un altro grande capitolo della discografia dell'inglese.

sabato 23 dicembre 2017

Soundgarden ‎– Superunknown (1994)

In ossequio alla triste morte di Chris Cornell, avvenuta a Maggio e che ancora oggi suona davvero insensata. Un uomo all'apparenza (che si sa, resta sempre tale) realizzato, avendo oltrepassato il mezzo secolo d'età, con tre figli, un passato illustre, un vivacchiamento negli ultimi 15-20 anni che comunque non doveva creargli problemi nel tirare avanti la carretta, mi verrebbe da pensare. Forse gli abusi hanno presentato un conto salatissimo.
Mi sento di tributare una band che ai tempi adorai con ardore, con quello che fu il loro vertice, che non ascolto da, non voglio esagerare, 18/19 anni. Come digitato da più di un'illustre tastiera, sottoscrivo che il bello di Superunknown fu una congiunzione di accessibilità, sottile ricerca, produzione al top e presa di possesso della scrittura da parte di Cornell, che straordinariamente ispirato firmò in solitaria almeno metà del lotto. Il capolavoro della maturità, un po' come Physical Graffiti o Sabotage, per citare indiscutibili padri putativi.
L'emozione che mi coglie alla ripresa di Superunknown (ma anche del sottovalutatissimo e terminale Down on the upside, inferiore di pochissimo) è superba, rabbrividente. Come accade ad altre entità coeve, fanno tornare in mente sensazioni ed ambientazioni legate ad un età felice, leggera ed inconsapevole. Fell on black days, Mailman, Head Down, Superunknown, 4th Of July, le stratosferiche Limo Wreck e Like Suicide, non sono mai andate via; sono rimaste lì, statuarie, a modo loro sempre attuali. Al termine di questo mio revival, potrò salutarle di nuovo, perchè la vita deve fare il suo corso.

giovedì 21 dicembre 2017

Volcano! ‎– Piñata (2012)

Terzo (ed ultimo?) album degli art-rockers chicagoani, terzo rebus di complicata semplicità che lascia, in caso di scioglimento avvenuto dato che di loro non giungono notizie da 5 anni, con in bocca un mix di senso d'incompiuta e di entusiasmo per quanto realizzato. L'audace incrocio fra Radiohead e Pere Ubu che ha caratterizzato i loro due precedenti lavori sembrava averli condotti un po' ad un vicolo cieco, e forse questo personalissimo limbo li ha condannati a non trovare un pubblico adeguato, come a dire troppo pop per gli amanti dell'avant-rock e troppo complicati per gli indie-hipsters.
In ogni caso Piñata ha rilanciato la scommessa; il vocalismo melodico e schizzato, la chitarra sgraziata e sbilenca, l'impeto sconquassante della batteria, il collante onnipresente dei synth, e soprattutto le composizioni, che restano fondamentalmente pop nella costruzione ma adornate alla loro maniera. Peccato siano rimasti ignorati, avrebbero meritato di più.

martedì 19 dicembre 2017

Chainsaw Kittens ‎– Flipped Out In Singapore (1992)

Questa è per ricordare l'adolescenza. Dopo il brillante esordio di Violent Religion, in casa Chainsaw Kittens ci fu un piccolo terremoto, col cambio di sezione ritmica ed un nuovo chitarrista. Non cambiava invece la casa discografica, e questo resta un mistero; in pieno boom grunge, com'era possibile che nessuna major si fosse spinta per ingaggiare una band con un potenziale commerciale enorme come i Kittens?
In un intervista recente per celebrare il 25ennale del disco, il cantante Meade racconta un paio di aneddoti autolesionistici che al momento giusto contribuirono ad impedir loro di salire sul baraccone. Eppure ci sarebbe stato ancora tempo, dopo l'uscita di FOIS; il successo poteva comodamente arrivare. A produrre venne ingaggiato nientemeno che Butch Vig, reduce dai fasti di Nevermind; rispetto al precedente, il suono era più professionale e smussato, la sezione ritmica non era migliore e spingeva più sul lato punk. Insomma, c'erano tutte le premesse per un fiasco; invece FOIS confermava il talento epidermico di Meade, capace di dirigere 11 irresistibili anthem pop-core, freschi e contagiosi. Ma il successo su scala internazionale non arrivò mai.

domenica 17 dicembre 2017

Jesus Lizard ‎– Club (2011)

Doverosa testimonianza della data iniziale del tour che i JL organizzarono a Nashville per la riunione del 2009. Una decisione che avrebbe fatto tremare i polsi a tanti gruppi bolsi che si rimettono insieme: non solo registrare, ma fare anche riprendere lo show per farne un dvd, senza riscaldamento, a 10 anni di distanza dall'ultimo. Ma non loro, che hanno dimostrato di avere attributi enormi: la riprova l'abbiamo avuta a Bologna nel settembre successivo, per un concerto che tutt'ora reputo il più spettacolare che abbia mai visto.
Poco da dire sulla quadratura del sistema JL, il cui unico limite per eventuali detrattori sarebbe: non ci sono mai variazioni sui temi. Pazienza, non faceva per loro, chi se ne frega? Quattro giganti sul palco fanno sempre paura, e la regia è di un intelligenza acuta e rara per queste occasioni: va bene indugiare sul joker Yow, ma viene giustamente dato spazio agli altri ed in particolar modo all'impressionante MacNeilly, un batterista a cui non avevo tributato la giusta importanza ai tempi. Al resto, ci pensa il repertorio; in eterno. In un'intervista Denison afferma che avrebbe voluto riformare il gruppo a tutti gli effetti ed aveva anche composto del materiale, ma a quanto pare non è stato seguito.

venerdì 15 dicembre 2017

GAM ‎– Eiszeit (1978)

L'echo guitar del grande ed umilissimo Günter Schickert ebbe modo di essere ignorata anche sull'operato di questo trio che formò insieme ad un altro chitarrista, Axel Struck, ed il batterista Michael Leske. Quando non ti deve andare, c'è poco da fare. Dei due sodali non resterà alcuna traccia ed i tre dischi registrati fra il 1976 ed il 1979 sono rimasti inediti nel migliore dei casi 10 anni, nel peggiore 30. Eiszeit dovette aspettarne 27 per essere ripescato da un etichetta specializzata in reperti krauti, ed anche se non arriva ai fasti dello stratosferico Samtvogel è comunque la preziosa testimonianza di un'attività senza dubbio precaria e registrata non in maniera eccelsa, ma eccellente prosecutrice delle scie lasciate dai primi Ash Ra Tempel e dai Neu! più selvatici, con qualche lampo di genio arty (la nenie angoscianti di Demons e Verlass mich nicht, con degli elementi gotico-decadentisti che fanno riflettere). Se avessero potuto disporre di una produzione un po' più decente ne sarebbe uscito un capolavoro della tarda stagione; Struck, che Schickert descrisse come un tipo che gli insegnò un po' di tecnica, era degnissimo compare di striature e graffianti progressioni lisergiche. Leske appoggiava con motorik incessanti delle galoppate che più o meno qualsiasi amante del rock cosmico non potrà che apprezzare, da scoprire meglio tardi che mai.

mercoledì 13 dicembre 2017

Erase Errata ‎– Night Life (2006)

Nonostante il sostegno ed una copertina di Blow Up, ho ignorato e saltato a piè pari le Erase Errata, e soltanto perchè in quegli anni snobbai il movimento punk-funk, che era sostanzialmente parallelo a quello del revival della new-wave; il mio ragionamento era ma come, tutti questi gruppi adesso hanno successo con i ventenni che neanche sanno chi furono Joy Division o Gang Of Four, tanto per sparare due cartucce grosse?
Così è andata, ma non era giusto fare di tutta l'erba un fascio, c'erano anche gruppi talentuosi nel pagliaio; mentre la maggior parte bruciarono nel giro di poco, alcuni si sarebbero costruiti una carriera tutta loro (Liars), altri non sono sopravvissuti ma hanno lasciato un piccolo segno come il trio femminile di San Francisco, che col terzo Night Life realizzarono un gioiellino baldanzoso e ricco di rimandi alla stagione d'oro, ma con una freschezza ed una leggera follia che bilanciava il tutto. Una felice combinazione fra Wire, Gang Of Four, Dead Kennedys ed addirittura Captain Beefheart era possibile, ed ancor più bello era che fossero tre ragazze dotatissime a metterlo in pratica: tutt'altro che riot grrls, le Erase Errata meritano un posto in prima fila nella galleria di quel revival, anche solo per questo entusiasmante capitolo.

lunedì 11 dicembre 2017

Il Decennale

E' vero che il primo post non fu scritto in questo blog, ma con la massima brevità vorrei raccontare che TM #1 fu fatto chiudere dalla DMCA nell'Aprile del 2010; con estrema ingenuità subito aprii il #2 sotto lo stesso account di Google, e fu questione di pochi giorni, d'altra parte ero già diffidato e non ci pensarono un'attimo a sigillare anche quello. A quel punto cambiai account sostituendo la "i" finale con una "y", che fa molto esterofilo, e diedi la stura a TM 3.0, che resiste da più di 7 anni con l'accorgimento fondamentale di non essere visibile alle ricerche di Google; è un po' il suo segreto di sopravvivenza, dovuta anche alla mia incrollabile determinazione e voglia di scrivere qualcosa di musica, principalmente per me stesso, ma anche per quei 40-50 visitatori quotidiani che di solito passano più che altro per ---------, se per caso hanno voglia anche di dare una letta.
Tutto questo pistolotto per ricordare che, la mattina dell'11 Dicembre del 2007 scrissi l'intro al blog e nel primo pomeriggio i primi due post, su un bootleg dei God Machine e su Moontan dei Dead Flowers. Cos'è successo in 10 anni? 
Ho osservato il lento ed inesorabile declino dei blog, ormai tornati appannaggio di una nicchia disgregata. Nel periodo più affollato, fra il 2008 ed il 2009, TM veniva visitato 300 volte al giorno. Ho verificato lo spadroneggiamento dei social network, per i quali continuo a nutrire una sana avversione. Ogni giorno verifico che i poteri alti continuano a permetterci di ---------, perchè cambiano i destinatari ma il giro monetario resta pressochè immutato, e questo va a favore delle lobby pubblicitarie, dei provider, ed affini. Siamo più permissivi degli ottusi francesi, in questo senso, che invece non fanno prigionieri ed oltretutto si sono arrogati il diritto di eseguire uno dei soprusi più indecenti della storia, ovvero la chiusura di What.Cd. (Per caso qualcuno ha un invito per un private tracker nato dalle sue ceneri?).
Continuo a vendere i miei cd, al ritmo di un paio al mese. Da 850 iniziali ne sono rimasti circa un centinaio, di cui soltanto una ventina sono invendibili. Persisto nell'ascoltare musica con criterio disordinato, con un lumicino nel buio, sempre alla ricerca di gemme da voto almeno 8/10, che però inspiegabilmente arrivano.
Ho oltrepassato la quota di 8000 dischi ascoltati nella vita, ne tengo nota grazie alla mia mania archivistica. Per la voglia di conservare più appunti, dato che la memoria inizia ad essere un po' satura, ho aperto una succursale dove liquido in massimo 4 righe quelli di cui non voglio scrivere in maniera più o meno estesa. Il risultato è che col passare del tempo sono diventato un po' più cinico; non più settario o selettivo, soltanto più casinista. Smonto dei vecchi miti, ripristino passioni insospettabili, mi addentro in filoni oscuri, per poi rifugiarmi nelle case sicure e blindate. O forse no.
E la vita?
L'anno scorso sono diventato padre ed è cambiata un po', è questo è il bello e l'inevitabile al tempo stesso. 
E allora, piccolo mio, devi sapere che se esisti è anche un po' merito di TM......


sabato 9 dicembre 2017

John Carpenter – Escape From New York (Original Motion Picture Soundtrack) (1981)

Una delle più celebri soundtrack di JC, forse perchè direttamente proporzionale al successo commerciale del film, ma come la gran parte delle sue sonorizzazioni ricca di fascino misterioso e tanto semplice quanto efficace. Nonostante le composizioni fossero farina del suo sacco, il disco in seguito rilasciato a sè stante è co-intestato ad Alan Howarth, che fu responsabile della registrazione, della programmazione dei synth e qualcosa in più di un semplice collaboratore.
Per la futuribilità del film, JC infatti pensò ad un suono più innovativo possibile, e racconta Howarth che portò in studio due dischi: uno dei Tangerine Dream ed uno dei Police. La soundtrack ha un suono secco e smussato, sostenuto da una drum machine metronomica; i ritmi di una parte dei titoli si avvicinano alla new-wave, con un basso pulsante in primo piano. Le figure tastieristiche di JC scavano ossessive ed incompromissorie, orrorifiche solo in piccola parte, perlopiù attinenti al tratteggio sci-fi della pellicola. Non ci sono pezzi a presa immediata come in Halloween o sculture monumentali come in The Fog; Escape from New York è un lavoro monolitico ed a tratti persino orecchiabile (il tema principale su tutti), ma quanta scuola ha fatto...(un genere su tutti, la techno).

giovedì 7 dicembre 2017

Grails ‎– Chalice Hymnal (2017)


I grandi gruppi di qualità fanno passare il tempo, lo ingannano, si fanno desiderare, centellinano; insomma, fanno il contrario delle tendenze contemporanee. I Grails fanno parte di questa esigua schiera, e poco importa quanta distanza temporale sia dovuta agli impegni collaterali, alle necessità della vita personale, alle possibilità di realizzare un disco di elevata produzione che, checché se ne dica, non è così scontato (anche in termini monetari) come si pensa. 
Sono passati 6 anni dal loro capolavoro Deep Politics, ed anche per loro ogni tanto mi sono chiesto cosa facessero, se stessero lavorando. Se avessero chiuso con quello, non ci sarebbe stato niente da dire; avevano dato il meglio, forse Amos non ce la faceva più a sostenere tutti gli impegni, forse Riles si dissociava artisticamente. Balle: sono tornati con Chalice Hymnal ed anche se non raggiungono quel livello, impresa ardua, sfoggiano un’altra dimostrazione di stile e classe. Un disco che pecca di disomogeneità, quasi come se fosse un’antologia del lustro trascorso, o frutto di creazioni separate e poi proposte agli altri; il fattore coesione/eclettico era stato forse il maggior pregio di Deep Politics, al netto dei sensazionali highlights. 
Che sembrano un po’ mancare su Chalice Hymnal. Eppure, eppure; come non rimanere estatici di fronte ai paesaggi di Deep Snow II,  Thorns II, After The funeral o al sisma di New Prague? Difficile non apprezzare le deviazioni  dal sentiero maestro di avventure, come l’hauntologia di Empty Chamber, l’alta velocità di Pelham, il cupo salmodiare con inserti di elettronica di Tough Guy. Ancora in grande forma, tutt’altro che andati.