martedì 27 febbraio 2018

Nick Drake ‎– Bryter Layter (1970)

Ricordo distintamente la prima volta che sentii Nick Drake; era l'estate del 1994, periodo mondiali americani, e dalle frequenze gloriose di Rai Stereonotte, Max Prestia dedicò all'inglese uno speciale di una mezz'oretta.
Non ho mai perso la testa veramente per i tre dischi di Drake come invece è successo a molti altri, devo essere sincero; oggi ho riascoltato Bryter Later dopo credo 15 anni, e l'ho trovato fresco ed elegante, immutato nel tempo, genuino. Al di là della portata artistica dell'autore, ciò che mi segna di più resta la storia di questo ragazzo inglese benestante classe '48 che trovò nella musica la sua gioia di vivere ma anche la sua disperazione e, indirettamente o no, la sua morte, volontaria o no che fosse. Nelle sue canzoni resta sempre quest'aria mista di leggerezza e melanconia che lascia un retrogusto strano: destino dei grandi, dei nominati al sacrificio. Come nel caso delle giovani morti di quegli anni, restano interrogativi ed il patrimonio, specialmente nei casi più stringati, assume valore incalcolabile. Con la sua amara spensieratezza, Bryter Later è a mio avviso il suo migliore.

domenica 25 febbraio 2018

Roly Porter ‎– Third Law (2016)

Nuove emissioni sulfuree di ambient-core da parte dell'inglese Porter, con questo terzo tornato ai livelli temibili del brillantissimo esordio. Rispetto ad allora, la sua elettronica si è fatta più apocalittica e rovinosa, con visioni brutali in abbondanza e la perdita di quell'oncia di innocenza che caratterizzava certi tratti. Vengono a mancare quindi slanci melodici in favore di un'ottica schizofrenica, con stop and go da cardiopalma e frequenze nevrotiche fino al collasso; Porter si è incattivito? La terza legge è forse quella che non perdona? Fatto sta, siamo di fronte al presente dell'elettronica che non fa compromessi, che è libera da vincoli, che interpreta il malore verso cui va il pianeta. Almeno è così che la interpreto io, e credo che Porter stesso snocciolerebbe un sorrisetto di approvazione.

venerdì 23 febbraio 2018

Egisto Macchi ‎– Pittura Contemporanea / Pittura Moderna N.1 & 2 (1975)

Continua imperterrita l'opera della Cinedelic, che nel giro di appena due anni si è resa protagonista di ben 8 fra ristampe e recuperi dalla polvere di materiale del benemerito maestro Macchi. Imponente in questo caso l'operazione dedicata alla pittura, con ben 3 vinili di sonorizzazioni registrate nel 1975, di cui soltanto Contemporanea aveva visto la messa su disco all'epoca.
Se di Macchi abbiamo potuto apprezzare maggiormente le opere più visionarie, avanguardistiche ed incompromissorie, non dobbiamo dimenticarci che anche in ambito neoclassico ha avuto la sua voce in capitolo e questa trilogia giganteggia come esempio, e non abbiamo scandagliato neanche la metà della sua discografia. E' una miniera di partiture surrealistiche, melanconiche, disincantate, meditabonde, e come capita alla migliore library, immaginiamoci di entrare in una infinita galleria d'arte dove possiamo gustarci tutto il meglio delle correnti, senza fiato ma senza fretta. 
Gemme di altre epoche.

mercoledì 21 febbraio 2018

Picastro ‎– Whore Luck (2007)

Band canadese in attività dai primi anni Zero, dedita ad un post-slow-folk anemico, debosciato e fragile come il timbro vocale della leader, Liz Hysen. Un suono non particolarmente originale, che trae spunto da esperienze ben precedenti col violoncello in evidenza, ma che guadagna valore per le composizioni meditabonde ed abbandonate ad un esistenzialismo che si taglia col coltello. Sicuramente predisposto per un ascolto autunnale, Whore Luck vive i suoi momenti migliori quando certe digressioni vagamente slintiane prendono il sopravvento, creando una tensione sottopelle che bilancia alla perfezione le derive più slacker del corpo del disco. Un complesso che non sarà eccezionale, ma riesce a lasciare un segno tangibile.

lunedì 19 febbraio 2018

Sound – Shock Of Daylight & Heads And Hearts (1984-1985)

Piccolo legame affettivo; acquistai questo cd, che fu il primo numero di catalogo dell'inglese Renascent nel 1996, dal mio amico Pig che con strategia da buon commerciante fece leva sul fatto che: 1) non avevo mai sentito parlare dei Sound, e io pischello ne dovevo ancora mangiare tanti, dei panini new-wave, per diventare un intenditore; 2) era un carinissimo cartonato dalla grafica elegante; 3) i due titoli ivi contenuti, il mini Shock Of Daylight del 1984 e l'Lp Heads And Hearts del 1985 comparivano su compact disc per la prima volta. Ovviamente, optai per l'acquisto dopo un ascolto accurato e lo portai a casa dove è rimasto per oltre vent'anni fino a quando, poco tempo fa, l'ho rivenduto su Discogs all'equivalente del doppio in Euro di quanto lo pagai, perchè nel frattempo è diventato una piccola rarità. Fine della storiella.
Per quanto riguarda i contenuti, qui i Sound sono all'indomani della scelta autolesionistica di rifiutare offerte major e restare indipendenti; con quel caratteraccio che Borland si ritrovava, difficilmente avrebbe fatto i soldi, ma nonostante questo i due vinili si intestardivano sul wave-pop atmosferico di formula coniato, potenzialmente di successo come più o meno tutto ciò che fecero. Il mini è di qualità superiore, con due pezzi clamorosi come Longest Days e Dreams than plans, il LP è sotto quella media e fa centro con Total Recall e World as it is. La ristampa era di dovere, il meglio i Sound forse l'avevano già dato ma restavano una band di razza anche verso la fine.

sabato 17 febbraio 2018

Origami Arktika ‎– Trollebotn (2007)

La tradizione folk norvegese attualizzata tramite un ensemble aperto, legato ad un collettivo multi-artistico. Un mondo distantissimo, ma ricco di fascino, perfettamente inquadrato da un'interessante intervista al vocalist degli OA, il quale analizza con lucida freddezza scenari socio-politici della propria patria. Trollebotn riprende quelli che da noi si chiamerebbero stornelli o filastrocche popolari e le trasla in ipnotici mantra permeati da un freddo che pare quasi percepibile all'ascolto. E' alquanto percepibile una relazione più che remota con l'area psichedelic-folk, mentre un basso profondo regala persino sensazioni pseudo-dub nelle tracce più ritmate. Al primo ascolto potrebbe tediare, vista anche la voce perfettamente stonata, ma già al secondo, una volta che ci siamo messi addosso un bel giaccone di renna, non possiamo fare altro che abbandonarci davanti al fuoco e alle visioni quasi mistiche di questi suoni.

giovedì 15 febbraio 2018

Caravan ‎– In The Land Of Grey And Pink (1971)

Difficile dare l'etichetta prog-rock a quello che è uno dei manifesti principali della Canterbury bene, e che devo dire la verità, ho snobbato per tantissimi anni, salvo poi rivalutarlo oggi. Ne capisco il motivo: pur condividendone le radici, la musica dei Caravan è diversissima dai miei paladini Soft Machine; solare, sbarazzina, romantica. In una parola, è pop travestito da un abito sofisticato, per questo è improprio affermare che il quartetto faceva prog: l'esempio più lampante è Love to love you, di un melodismo smaccato seppur mosso da un tempo dispari. I Caravan suonavano asciutti ed essenziali seppur la tecnica non mancasse loro. Ma tuffandosi a pesce nei 22 minuti di Nine Feet Underground, ci si può dolcemente abbandonare in un mondo fatato, che sorprendentemente suona ancora fresco e con la sua trama raffinatissima può corrompere anche gli animi che del progressive amano i lati più oscuri e contorti.

martedì 13 febbraio 2018

White Birch ‎– Star Is Just A Sun (2002)

Non capisco davvero come sia riuscito a sfuggirmi questo stupefacente disco al tempo, evidentemente le segnalazioni non si sprecarono oppure era un periodo in cui avevo momentaneamente mollato con questo tipo di sonorità. White Birch, un nome un po' ingombrante per una band peraltro formatasi appena due anni dopo l'imponente capolavoro dei Codeine; un trio norvegese che, partito da un substrato art-indie-noise, con Star is just a sun implose come uno degli eredi più credibili non certo dei re dello slow-core (con cui condividevano di fatto soltanto il numero di bpm), ma io direi più degli ultimi Talk Talk e dei Bark Psychosis di Hex, ma con un suono ancor più rarefatto, con una voce fragile e tremolante ed arrangiamenti misurati, quasi sempre guidati da un pianoforte serafico. Alle evanescenze, alle indulgenze, al rumore dell'anima, i WB hanno aggiunto una dose massiccia di incontaminata melanconia scandinava (paragonabile a quella sprigionata dai finlandesi Tenhi); un disco ammaliante, non dico commovente ma in grado di sciogliere anche i ghiacci più irriducibili. Non a caso, ristampato ad appena 13 anni di distanza dalla stessa etichetta, l'inossidabile Glitterhouse. Non capita a tanti.

domenica 11 febbraio 2018

Achim Reichel - AR3 (1972)

Nello stesso anno del suo capolavoro con i Machines, Reiche licenziava un'altro disco a nome AR3, inevitabilmente in tono minore viste le differenze strutturali: label minore anzichè la Polydor, un tal Kuckuck in cabina ingegneristica al posto di Conny Plank, una strumentazione ridotta praticamente a power trio, seppur con un paio di musicisti in comune. Nonostante certe premesse scoraggianti ed uno status pressochè di jam lasciate fluire in libertà, l'ispirazione è ancora altissima: mancano gli slanci mistici che elevavano Echo a pietra miliare, al cui posto regna una compattezza ed una spinta ritmica grintosa. Un disco nervoso contraddistinto da strumming chitarristici incendiari, AR3, depurato da qualsiasi orpello; gran bel sentire, ovvio.

venerdì 9 febbraio 2018

Jesu / Sun Kil Moon ‎– Jesu / Sun Kil Moon (2016)

Se qualcuno avesse immaginato la joint-venture una ventina d'anni fa, l'ipotetico interlocutore gli avrebbe risposto: Ma sei matto, ma cosa vai a pensare, ma cos'avrebbero da spartire, lontani anni luce...Ed invece, a metà anni '10, eccoli qui a fare un disco insieme che ho accolto con grande curiosità e traendone altrettanto piacere. Non è che faccia la rivoluzione, sia ben chiaro: si mettono in campo i trademark, considerando che come scrissi per Ascension la musica di Broadrick negli ultimi anni si è curiosamente avvicinata a quella del suo più recente boss discografico. Ed il risultato, in fondo in fondo, era quasi pronosticabile: lente ed ispide canzoni dream-metal-gaze in classico Jesu su cui Kozelek srotola il suo autobiografico, dilagante sproloquio con sempre più stranezze assortite (come co-accreditare il defunto Chris Squire o un paio di fans), a conferma del fatto che a 50 anni è sempre più difficile trovare spunti lirici. Ma a me conta il risultato musicale, qui c'è e si misura anche nelle varianti come l'elegante e delicata Exodus, frutto di un incursione di Connolly dei Desertshore, o nel cantautorato ambient finale di Beautiful You, un quarto d'ora di pace interiore. Magari nel complesso un dieci minuti in meno ci sarebbero stati bene, ma la sostanza è che questo superduo ha fatto centro.

mercoledì 7 febbraio 2018

Peter Zummo ‎– Zummo With An X (1985)

Spesso ricordato per le assidue collaborazioni ai dischi di Arthur Russell, Zummo è un trombonista statunistense attivo da sempre in diverse aree art che pervenne al debutto solista a quasi 40 anni, con questo gioiello di minimalismo. Diciamocelo, il suono del trombone è buffo e divertente, no? Bene, con Zummo with an X lo diventa ancor di più, ma trasportato in un'area grigia e surreale.
L'ho scoperto grazie alla recensione entusiastica di Mattioli riguardo alla ristampa in cd del 2006. E' diviso in 3 tronconi: Instruments, registrato nel 1981 per quartetto con tromba, marimba e cello (ovviamente Russell); sette brevi vignette irresistitibili di minimalismo e disincanto. Song IV, del 1985 con tabla e cello amplificato, una stratosferica jam di 20 minuti. Lateral Pass, del 1985, colonna sonora per un balletto, rilanciava l'assetto con l'aggiunta di percussioni ed accordion, per un approccio più ricco ma sempre fatto di tocchi rarefatti e ben misurati; appropriatissima, per la ristampa, l'inclusione della ripresa abbreviata di 5 minuti della Song IV.
Sarà facile approfondire la discografia di Zummo, perchè sono solo 4 dischi in 30 anni; non avrà sprecato una nota che fosse una.

lunedì 5 febbraio 2018

If These Trees Could Talk ‎– The Bones Of A Dying World (2016)

Approdato sorprendentemente alla Metal Blade, il quintetto ohioano sforna il suo terzo disco con il passo lento di chi vuole fare le cose con cura, senza fretta, a 4 anni dal precedente Red Forest.
Novità? Meno di zero. Il solito epic-instru, compattissimo, muscolare ed evocativo; si potrebbe notare qualche macigno chitarristico in più (per compiacere la nuova casa?), ma di progredire verso qualcosa di inedito non se ne parla neanche; è la solita mistura di Explosions, Astronaut ed affini. 
Giuro che mai avrei immaginato di poter esclamare ancora la frase Chissenefrega se il genere ha già espresso tutto il suonabile, noi ne vogliamo ancora, eppure è ancora così. Per un genere come l'epic-instru che, a meno di 15 anni di vita sembra invecchiato come Matusalemme, è un iniezione di benessere, al di là dei compartimenti stagni. Il disco è rigoroso, espanso e coinvolgente, punto e basta.

sabato 3 febbraio 2018

Giusto Pio ‎– Motore Immobile (1979)

A 50 anni superati, con un impiego sicuro di violinista classico assunto all'orchestra Rai, il veneto Giusto Pio si rimise in discussione ed iniziò a collaborare con Battiato, dapprima al tramonto della sua prima fase sperimentale e poi addirittura come co-compositore nei primi album della sua fase pop. Al contempo, inoltre, pubblicò Motore Immobile per la Cramps, con cui dava la stura alle sue velleità minimalistiche. Costituito da 2 pezzi di un quarto d'ora, il disco è una meditazione pacifica giocata su bordoni immobili di organo, sottili increspature di violino, mormorii estatici (a cura di Battiato sotto falso nome), caleidoscopi di arpa, il cui ascolto fu consigliato a volume basso. Non fu forse un capitolo così avanguardistico, visto l'anno di uscita, ma le ristampe che si sono succedute nell'ultimo ventennio (di cui l'ultima l'anno scorso, in 500 vinili) confermano che in ambito italiano fu un episodio anomalo e curioso, che si lascia ascoltare tutt'ora con piacere.

giovedì 1 febbraio 2018

Scream From The List 67 - John Cage With David Tudor ‎– Variations IV (1966)

Alquanto improbabile scrivere qualcosa su quello che più che un musicista o compositore d'avanguardia è stato un filosofo applicato al suono, alle sue possibilità ed alle sue derive. Fiumi di pagine sono stati spesi a riguardo di questo personaggio totalmente inclassificabile, figuriamoci se io con la mia limitata cultura posso aggiungere altro. Almeno un ascolto lo meritava, Gianni Gabbia; questo collage dell'assurdo ha senz'altro rappresentato un influenza per NWW, e pazienza se il concetto supera ampiamente il risultato sonoro, sostanzialmente un pastone lo-fi per giradischi, frequenze radio e rumori di varia natura che ha un suo indubitabile fascino.