lunedì 30 aprile 2018

Hoover – The Lurid Traversal Of Route 7 (1994)


Meteora della Dischord di metà anni ’90, il quartetto degli Hoover fece parte della schiera di quei maturi ragazzi che all’epoca cercarono di spostare l’hardcore ancora un po’ più in là di quanto già avevano fatto i capofila. Pur lasciando il timbro vocale arrochito tipico, il loro suono riprendeva il pionieristico approccio Fugaziano, il senso di urgenza espressiva e l’impeto fragoroso; tuttavia, lo rallentava, lo dilatava in forme sempre ben definite ma inquietanti. La scuola Spiderland iniziava già a mietere potenziali successori come succedeva altrove al contempo, leggi Rodan a Louisville, Engine Kid nella west-coast, e mancava solo un anno al debutto dei June Of ’44.
Che dagli Hoover prelevarono il bassista Fred Erskine ed il suo poderoso 4 corde che su The Lurid Traversal…ha un ruolo da protagonista, riuscendo a non farsi sovrastare dalla coppia di chitarre e grazie al suo suono profondo ed intenso, caso rarissimo in area hardcore. La scaletta verte intelligentemente sull’alternanza piano/forte, veloce/lento, pieno/vuoto, sfiorando a tratti il post-rock e riuscendo a non annoiare nonostante la lunghezza. Quindi un gruppo molto capace e dal potenziale alto, senonchè si sciolsero subito dopo ed ognuno andò per la propria strada. Sarebbe stato interessante un seguito evolutivo, ma dopotutto anche no, chè un bassista diverso da Erskine nei June Of ’44 secondo me non avrebbe funzionato…

sabato 28 aprile 2018

Ghostpoet ‎– Dark Days + Canapés (2017)

Quarto album al seguito dell'acclamato (e non solo da me) Shedding Skin per l'inglese Ghostpoet, un gioiello certamente non dimenticato, cosa non ovvia visto che negli ultimi anni è sempre più faticoso trovare qualcuno che senza fare rivoluzioni riesca a trovare una propria voce che si distingue. Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio; il magico livello di quel disco non viene eguagliato da Dark Days + Canapes, che grossomodo si muove sulle stesse coordinate produttive (suono di gruppo di base, poca e marginale elettronica, strutture compositive definite anche se spesso circolari) ma vira su un mood cupo, introverso e molto meno sanguigno; l'indie-guy abbassa notevolmente il dosaggio di chitarre elettriche e stempera i ritmi in favore di ambientazioni notturne, per non dire raffinate (abbondano piano ed archi, ed affiora spesso una vena soul). Non che manchino le tracce esaltanti: Trouble + Me, Dopamine If I Do, Blind As A Bat, Live-Leave, Immigrant Boogie fanno centro facilmente, ma sembra che Ejimiwe abbia accantonato lo spumeggiante (e personale) stile del precedente in favore di un disco ripiegato su sè stesso, quasi ad esprimere un disagio, un abbandono esistenziale. 
La sensazione finale, a dispetto di questi sentori, è tutt'altro che un amaro in bocca: il carisma, la classe e la maestria del Poeta restano indiscutibili. Magari in prospettiva ricorderemo Dark Days come un disco di transizione, che documentava, per l'appunto, un periodo un po' buio.

giovedì 26 aprile 2018

Farlocco ‎– Tecnologia (1974)

Nello splendido Superonda, Valerio Mattioli giustamente dedica un lungo capitolo alla Library e spiega un retroscena alquanto curioso su questa ormai storica saga italica: ai tempi la Rai pagava un compenso per ogni passaggio in onda, e le decisioni sui materiali da accoppiare alle immagini spettava ad alcuni direttori artistici che in gran parte erano i compositori stessi; aggirando la regola del conflitto d'interesse per il quale un direttore non poteva assegnare musiche da egli stesso composte, si era generato così un circolo vizioso a base di scambi di favore fra questi musicisti che quasi sempre erano regolarmente assunti dall'emittente nazionale. Una questione tipicamente italica, mi verrebbe da dire, ma in fondo resta soltanto un retroscena e non va ad inficiare un testamento di portata che forse solo oggi, in termini di riscoperta, possiamo quantificare.
Il motivo per cui invece a volte i compositori si celavano dietro uno pseudonimo, invece, era legato a motivi contrattuali. Il nickname Farlocco è alquanto esilarante, ed era appannaggio di Stefano Torossi, un prolifico autore di colonne sonore diciamo sul versante più leggero del settore. Tecnologia invece faceva sul serio, allo stesso modo in cui lo faceva Giorgio Zanagoria Carnini oppure Amedeo Di Jarrell Tommasi. Pare infatti che fosse quest'ultimo l'esecutore materiale del disco, un allucinata sequenza di ritmi ossessivi ipercinetici (proto-techno, e cos'altro?), vortici inarrestabili, sbuffi meccanici, loop sintetici, ben pochi passaggi musicali in cui brillano le incursioni di mellotron, uno strumento piuttosto inedito per il settore. C'è poco da fare, abbiamo scovato un'altro capolavoro (ristampato una prima volta in Inghilterra nel 2008 e in Italia nel 2016); e continuiamo a scavare allegramente in questa miniera.

RIP Giancarlo Susanna

Non me lo immaginavo proprio, con quella faccia che oggi ho visto per la prima volta.
Questa è (credo) l'unica foto che si trova in giro di GS, appena venuto a mancare. Era stato uno dei protagonisti di Stereonotte durante i miei anni formativi, nella prima metà dei '90. Dico la verità, non era il mio preferito e non ero un ascoltatore assiduo delle sue puntate. Capitava che qualche sera mi attardassi a studiare e lui era nel primo turno, quello che iniziava a mezzanotte e si concludeva all'1.30. Aveva dei gusti abbastanza classici, trasmetteva cose gradevoli ma che non mi facevano impazzire. Tutte le sere registravo Planet Rock e se c'era qualcosa da salvare poi facevo la copia da una cassetta all'altra. Giancarlo Susanna non lo registravo neanche, ma a differenza degli altri che ruotavano, non potevo fare a meno di ascoltarlo fino alla fine.
Aveva uno stile unico, tutto suo. Era perfetto, compostissimo, imperturbabile, parlava con flemma, quasi soporifero, però quello che diceva era sempre interessante. Per questo motivo tutti lo ricorderanno così: un signore fra le penne rock italiane, non soltanto uno della vecchia guardia. 
RIP

martedì 24 aprile 2018

Yellow Swans ‎– At All Ends (2007)

A metà fra il brutale rumorismo degli esordi e le soluzioni più meditate della fine, Swanson e Saloman hanno dato vita al loro capolavoro, in forza di un omogeneità globale e di un imponenza colossale. Le eruzioni laviche della chitarra e i ronzii dell'elettronica; null'altro nelle 5 tracce di At all ends, che svetta come uno dei migliori lavori drone-noise che abbia mai ascoltato.
L'iniziale title-track sfoggia una linea di chitarra epica (e vagamente settantiana) che squarcia il rumore industriale sottostante. Ma è soltanto un preludio abbastanza deviante, perchè da Stretch the sands l'ambientazione si fa fosca, torva, allucinogena; questo è il noise del deserto, delle grandi ambientazioni (con qualche assonanza con i Barn Owl di Ancestral Star) ed anche delle contemplazioni, pur ruvidissime. Eccezionali le ultime due tracce, Mass Mirage, con la chitarra a disegnare orizzonti sterminati, e Endlessly Making... che passa da una specie di atmosfera desolatamente western ad esplosioni da far bruciare gli amplificatori. Un grande Saloman, chitarrista estatico e potente nelle sue scansioni ad effetto. Da manuale.

domenica 22 aprile 2018

Flour ‎– Luv 713 (1990)

Oscuro ed ormai dimenticato personaggio della gloriosa scuderia Touch & Go, Pete Conway in realtà ha un merito storico fondamentale: diede la folgorante idea a Steve Albini e Todd Trainer di fondare gli Shellac. Era stato bassista dei Rifle Sport insieme al grande batterista e poi si era messo in proprio col progetto Flour; per promuovere il suo terzo disco andò in tour con quei due, che già si conoscevano, e si rivelò una convivenza che fece scoccare la scintilla istituzionale.
L'influenza dell'occhialuto epoca-Big Black era evidente per Conway, vista la fragorosità incendiaria delle chitarre e la presenza di una incessante drum-machine; di quel suono però forniva una versione light, con una buona dose di melodie quasi pop, qualche componente gotica ed un pizzico di industrial-metal in stile Ministry. Un buon ibrido, che risente di una produzione un po' piatta ma resta molto molto interessante in chiave retrospettiva. Dopo un quarto disco nel 1994, Conway si ritirò dalle scene e di lui si è sentito parlare soltanto da parte di Albini, in un intervista in cui ne decanta le doti di cuoco.

venerdì 20 aprile 2018

Sun Araw ‎– "The Saddle Of The Increate" (2017)

Piaccia o non piaccia, la musica di Cameron Stallones può fregiarsi di un'originalità che ha ben pochi eguali contemporanei. Ed oltretutto il suo personale percorso ha tratteggi quantomeno intriganti: una decina d'anni fa, la partenza a base di psichedelia drogata, poi la virata ai tropici ed infine la ventata di surrealismo. Con questo ultimo, il californiano tenta persino di rilanciare sul piano hauntologico, con sonorità sempre più solari ma sempre più deformate, l'elettronica che a volte prende il sopravvento sulla sua chitarra, ma è un elettronica gigiona ed ilare; un doppio vinile che non stanca, le composizioni sempre strutturate in forma libera, la voce sempre a metà fra lo stupito e lo scazzato. E nel finale persino un paio di pezzi pop che non saprei se essere preoccupato o sghignazzare per l'evidente (presunta?) ironia con cui Stallones deve averli confezionati.
Insomma, uno spasso come sempre.

mercoledì 18 aprile 2018

Nihilist Spasm Band ‎– Vol. 2 (1979)

Il ballottaggio è plausibile; sulla NWW List sarebbe potuto esser stato questo, il prescelto, in quanto uscito nel 1979, ma indubbiamente il fascino di No Record resta insuperato e troppo coraggioso per essere sfidato. Tant'è che Vol. 2, replica a ben 11 anni di distanza, resta un oggetto misterioso ma in sostanza inferiore a quello storico debutto; quello che sembra mancare di più è il ringhio isterico di Exeley, qui confinato in pochi minuti, ma dopo 3/4 ascolti ciò che emerge inesorabile è la furia cieca che emerge soprattutto nei 17 minuti di Dum-de-dum, un campionario devastante di deragliamenti dissonanti, talmente sconclusionato da diventare quasi comico.
Un'ascolto quasi purificante, ideale per scaricare un po' di stress.

lunedì 16 aprile 2018

Idles ‎– Brutalism (2017)

Anche se forse fra qualche mese/anno non me ne ricorderò più, oggi ascoltare Brutalism dà una bella scossa di adrenalina. Facciamo un parallelo: se a qualcuno gli Sleaford Mods non piacciono perchè non suonano e sembrano artefatti per questo, gli Idles possono essere una soluzione. Perchè sostanzialmente si tratta della stessa cosa: la canzone di protesta, grezza e furiosa, energica e rozza. Soltanto che il quintetto di Bristol suona, chitarre, basso, batteria ed un cantante sguaiato dall'accento cockney e con diverse birre in corpo. E quindi per questo è molto più epidermico e diretto, anche se di fatto fa un genere vecchio e scontato: un punk martellante, al vetriolo, con qualche deviazione/rallentamento wave giusto in un paio di pezzi ed una coda diversissima quanto illuminata (Slow Savage, quattro note di piano spettrali mentre il cantante pensa che si tratti di un pezzo "normale"; direi geniale). Un disco sparato ai 100 all'ora che ha il merito di rivelare un talento notevole per un genere così abusato e inaridito; certi anthem sono davvero irresistibili e su 13 pezzi non ce n'è uno da buttare via. Bravissimi.

sabato 14 aprile 2018

Teardrop Explodes ‎– Peel Sessions Plus (2007)

Il lato più spartano e meno artefatto dei Teardrop in una provvidenziale antologia delle Peel e Skinner Sessions; dei più illustri complessi della new-wave, probabilmente sono stati gli ultimi ad essere oggetto di assemblaggio, e meglio tardi che mai. Come sempre in questi casi, si ha una prospettiva mai meno che interessante sulle renditions; con Balfe relegato a mero comprimario, il melodismo di Cope stravince a mani basse ed in queste 16 tracce registrate fra il 79 e l'82 si materializza sempre più lo spirito dei Doors ravvivato dall'aria frizzante del dopo-punk, per uno degli ibridi più brillanti che la new-wave abbia generato. Da accoppiare all'altrettanto brillante Zoology.

giovedì 12 aprile 2018

Kukan Gendai - Live@UrBANGUILD_20110923 (2011)

Con il ricordo ancora bello vivido del concerto che tennero un anno e mezzo fa dalle mie parti, l'ascolto di un bootleg dei Kukan Gendai, seppur di qualità sonora non eccelsa, rievoca nitidamente le tre sagome nipponiche, le loro movenze meccaniche e scandite e le loro intese infallibili.
Elaborato senza pause, questo live di mezz'ora mette in campo di fatto il materiale del secondo album, quello che ce li ha fatti conoscere (ma anche l'unico trovabile, direi), con un'anno di anticipo e quindi lascia sbigottiti ed interrogativi. Ben poco altro da aggiungere a quanto scrissi sul live dell'Area Sismica, pertanto, se non che mi è venuto in mente il buon vecchio Capitano, a differenza di allora. Ma tutto torna sempre, alla fine.

martedì 10 aprile 2018

Bitch Magnet ‎– Ben Hur (1990)

Viene generalmente considerato inferiore ad Umber, ma a mio avviso si tratta di dettagli come il pelo nell'uovo. Il capitolo finale dei BM resta un caposaldo del math-rock applicato alla forma canzone, un modello che prelevava le efferatezze dei Big Black e le ruvide melodie degli Squirrel Bait, le mixava e le proiettava in avanti, influenzando svariati acts successivi come Don Caballero (ovviamente Delatorre non era un batterista tentacolare come Damon Che, ma le strutture ritmiche dopotutto erano quelle), arrivando fino ad oggi con la legione dei post-metallari-rockettari che hanno infestato il mercato. Era un suono articolato, complesso e compresso che viveva di sincopi e singulti, desolate stasi slintiane, up-tempo serrati ai limiti del funk-core, deflagrazioni compattissime. Su tutti, l'iniziale Dragoon, un mastodonte di 10 minuti, e la finale Crescent, un'evidente anticipo dei Seam di Sooyoung Park e del loro atmosferico indie-rock che non raccoglierà l'eredità dei BM, ma aprirà nuovi e brillanti orizzonti.

domenica 8 aprile 2018

Supersilent ‎– 8 (2007)

Tutti i dischi dei Supersilent mi fanno lo stesso effetto: al primo ascolto, noia, interrogativi, dubbi e supposizioni. Al terzo/quarto qualcosa inizia a restare in mente, al quinto le cose si stabilizzano e i momenti topici restano. Su 8 ce ne sono almeno 3/4: la tempestosa eruzione vulcanica di 1, la magnifica letargia con chitarra brulicante di 5, l'acid-noise di 7, lo stranissimo quadro astratto di 4. Sul resto, le solite divagazioni con scampoli di jazz strafatto, elettronica zoppicante, silenzi misteriosi e deflagrazioni improvvise. Prendere o lasciare è il loro motto.

venerdì 6 aprile 2018

Echo & The Bunnymen ‎– Ocean Rain (1984)

Rivalutazione personale di un disco che ho sempre sommariamente snobbato, sarà l'invecchiamento oppure una fase in cui mi riscopro più melodista e fatico a digerire certe pesantezze. Certo che i primissimi restano capisaldi di un suono ruvido ed elegante al tempo stesso, ma Ocean Rain mandava in orbita anche commerciale una band giunta a maturazione e completamente contro l'andamento generale delle produzioni correnti. La fascinazione verso certi mostri sacri di un passato ancora non vetusto (riferimenti principali, i Doors più morbidi e lo Scott Walker della quadrilogia) portava i Bunnymen a confezionare un disco barocco e pregno di sinfonismo, con la vena psichedelica annacquatasi, i residui gotici andati perduti per sempre, una maggior cura per la composizione, l'istrionismo di McCulloch sempre più in vista. Particolarità rara dei dischi di successo, i pezzi più famosi sono anche i migliori, con la meraviglia di The Killing Moon a splendere sempre, le gemme My Kingdom e Ocean Rain a rilasciare emozioni ascolto dopo ascolto.

mercoledì 4 aprile 2018

Matt Christensen ‎- Honeymoons (2016)

Splendida scoperta, di questo cantautore chicagoano attivo da una quindicina d'anni nella band Zelienople, di cui però non ho alcuna conoscenza. Honeymoons è sostanzialmente un ennesimo raccoglitore dell'eredità degli ultimi Talk Talk e dei Bark Psychosis di Hex, ma con un ottica molto povera di romanticismo, algida ed ancor più rarefatta, ma non certo per questo fredda. Uno slacker elegante e raffinato, che con abilità conferisce un tocco europeista al suo dna americano (non a caso il disco esce per un'etichetta norvegese). Sei lunghi brani che si dipanano molto lentamente, poco meno che essenziali; al netto di qualche tastiera e qualche scarnissimo beat sintetico, la protagonista è la sua elettrica, pulitissima, squillante, riverberata, rilassata; Christensen è uno slow-hand illuminato che conduce le sue composizioni senza bussola, lasciandole andare alla deriva, sussurrando con discrezione liriche sparse, facendo galleggiare l'ascoltatore in un limbo irresistibile, da consumare avidamente, a ripetizione.

lunedì 2 aprile 2018

Scream From The List 69 - Paolo Tofani ‎– Indicazioni (1977)

Chitarrista degli Area, un ribelle fra i ribelli, il primo ad uscire dal quintetto storico, Tofani potè dare ancor più la stura alle sue velleità sperimentali partecipando alla serie DIVerso della Cramps, collana uscita fra il 75 ed il 79, sorta di fratello minore dell'altra Nova Musicha perchè meno ricordato o perchè più privo di nomi celebri a livello internazionale (vi figurarono anche i compagni Stratos e Fariselli). In Indicazioni il fiorentino faceva filtrare la sua Gibson attraverso un synth ed aveva, in caso di bisogno, l'opportunità di piazzare sotto i riflettori la sua tecnica che forse negli Area restava un po' all'ombra degli altri. E perchè no, anche il suo eclettismo e la sua inventiva: singulti atonali, febbrili sequenze di quello che sembrerebbe un tapping, sgocciolii desolati, una pausa suadente per stemperare il folle clima generale, un recitato femminile dall'erre moscia ad opera di tal Antonella Fattori, circuiti elettronici impazziti, ed un finale deviato verso un blues acustico psicopatico. Disco difficile, di una personalità fortissima: vien da pensare che se Tofani fosse nato a Londra anzichè a Firenze, sarebbe diventato una star al livello di Fripp.