sabato 30 giugno 2018

Scorn ‎– White Irises Blind (1993)

Mini-lp uscito a poca distanza da Colossus, dal quale deriva la title-track; di quel grande disco era la traccia più leggera e lineare, fantasmatica se vogliamo, senza dubbio la più musicale e meno ossessiva del lotto. Questo stava a segnalare un imminente cambio di direzione per il duo Harris-Bullen, un liberarsi delle ultime zavorre post-metal e post-industrial per librarsi in un dub elettronico spettrale ed immagignifico. Di fatto questo 5 tracce è una questione di remix: della Minimal mix della title-track, virata in chiave trip-hop con un buon lavoro di chitarra, al dub galattico di Black Ash Dub, allo statico rantolo industriale di Drained, si chiude in grande stile con Host Of Scorpions, una versione raffinatissima di quello che forse era il miglior pezzo di Colossus, ovvero Scorpionic. Manco a dirlo, una perla scoperta su Mental Hour. Inaudita fino a pochi mesi prima, tanta era la velocità di movimento dei due.

giovedì 28 giugno 2018

Black Sabbath ‎– The End (4 February 2017 - Birmingham)

Ci sarebbero alcuni motivi per storcere il naso di fronte a questo live terminale, al di là degli scontati rituali di saluto, di commiato, di inevitabile celebrazione, di storia, etc etc. In primis l'assenza di Bill Ward, il quale pare sarebbe anche stato in grado fisicamente di sostenere il tour finale ma non ha raggiunto (!) un accordo contrattuale con gli altri per presenziare; un paradosso che ha quasi dell'incredibile. Al suo posto un turnista tipicamente heavy metal con tanto di doppia cassa, pelli iper compresse, piatti stoppati, molto muscolare, insomma abbastanza distante sia per stile che per suono allo storico.
Anche per questo in generale la resa, per quanto impeccabile, appare un po' troppo secca; il basso di Butler a mio avviso ha un po' troppi toni alti, perdendo in profondità; così soltanto la SG di Tony (A)Iommi suona fedele all'originale. Noiosi dettagli? Pretendo troppo da dei quasi settantenni? Beh, sarò un integralista nostalgico, perchè amo ancora alla follia Live At Last o Beyond the wall of Spock...E così la sorprendente, strabiliante prestazione di Ozzy svetta su tutto il resto, esaltando il suo stato di salute ormai del tutto ripulita: zero stecche ed una modulazione perfetta.
La scaletta? Beh, c'è poco da dire, gli antichi highlights ci sono proprio tutti, l'energia sprizza da ogni angolo, il sentore di celebrazione non è stentoreo; notevole anche la coda-bonus di 5 pezzi live in studio fra cui risaltano The wizard, Wicked World ed addirittura la pastorale Changes. Addio gloriosi uomini nerovestiti, è terminato il vostro magnifico viaggio; we love you.

martedì 26 giugno 2018

Mazzy Star ‎– So Tonight That I Might See (1993)

Riconosciuto all'unanimità come episodio migliore del trittico di album con cui Roback e la Sandoval solcarono i primi '90, con uno stile squisitamente controcorrente alle mode imperanti; pur essendo distanti anni luce sia dallo shoegaze che dallo slowcore, il loro suono compassato e disincantato direttamente ereditato dai Velvet Underground conquistò il pubblico alternativo. Fade into you, la ballad circolare che apre il disco, fece proseliti, col suo sentore di classico, così come la cover di Arthur Lee Five String Serenade.
Riascoltato dopo un quarto di secolo, So tonight... appare come un disco semplice e disarmante: Roback si destreggiava fra acustiche ed elettriche con gusto misurato, la Sandoval ovviava ad una limitatezza espressiva con fare sensuale ed evocativo. Un'accoppiata vincente, che senza strafare regalò ottime vibrazioni.

domenica 24 giugno 2018

Peter Hammill ‎– From The Trees (2017)

Grosso modo, From The Trees dovrebbe essere il 50esimo album del nostro grande eroe, giunto ai 69 anni, successivo all'ultima fatica VDGG, non proprio memorabile. Questa è una fase alterna come tante altre precedenti, in cui l'ispirazione si presta meglio al proverbiale intimismo delle prove soliste, anzichè alle fatiche di gruppo. Prova ne è l'ottimo risultato di questo disco, che al primo ascolto non conquista subito, perchè non fa altro che rimasticare il dna hammilliano ma alla fine scioglie anche il fan più sazio; i migliori del lotto, Reputation, Anagnorisis, Milked, On Deaf Ears, The Descent, rappresentano l'ennesimo bignami della classe immortale del nostro, ispirando il ricordo di altrettanti antenati dello sterminato canzoniere hammilliano, ma cosa ci vogliamo fare? Gli alti e i bassi fanno parte della vita, l'altra metà di From the trees è abbastanza ordinaria, i sopra citati ci sanno ancora regalare le emozioni che solo lui sa generare.

venerdì 22 giugno 2018

McDonald And Giles - McDonald And Giles (1970)

L'unico disco pubblicato dai fuoriusciti del leggendario In the court of the Crimson King; l'eccezionale batterista Michael Giles ed il fiatista Ian McDonald, che qui si scopriva anche chitarrista, pianista, cantante e compositore di gran parte del materiale, coadiuvati dal fratello del primo al basso. Ovviamente arduo il compito dei due di dare un seguito in proprio a cotanto capolavoro di provenienza, ma il risultato dopotutto fu più che buono per quelli che si confermarono come musicisti di grande levatura, assistiti da un ispirazione creativa forse non eccezionale ma talmente bravi da bypassare le incertezze con le loro doti. Ne usciva poi un lato pop davvero straniante, di inevitabile estrazione sixties, alternato a frangenti avantgarde-jazz-psichedelici in rapida successione, non sempre focalizzatissimi ma mai boriosi nè fini a se stessi.
Se lo si prende senza pretese di chissà quali repliche, è uno strano oggetto prog-non prog che si distaccava con personalità (come fece d'altro canto la copertina, con i due intenti a passeggiare con le rispettive ragazze sottobraccio). E per questo va ricordato con serietà e rispetto.

mercoledì 20 giugno 2018

Comfort - Eclipse (2006)

Formazione toscana che ha pubblicato 3 dischi fra il 2006 ed il 2011, e passata ingiustamente inosservata, almeno alla mia attenzione, dato che ho scoperto Eclipse per caso assoluto. Trattasi di classico caso in cui la provenienza non aiuta, nonostante l'evidente abilità dei musicisti, di evidente alta formazione tecnica, in particolar modo il pianista, elegante e direi di estrazione jazzistica. Componente da non sottovalutare; ad asserire un paragone ingiusto, direi una versione medi-mitteleuropea dei Tortoise, per l'eleganza degli arrangiamenti, per le ritmiche compatte ed elastiche, per l'utilizzo del vibrafono; si sente però nei Comfort uno sbilanciamento verso atmosfere epic-instru (le striature di una chitarra elettrica un po' repressa, ma sempre gradita), a realizzare un insieme composito, mai autoreferenziale, a modo suo molto emotivo, quasi cinematico in certi punti. Mi viene in mente un altro parallelo, quello coi Neil On Impression, più colto senza dubbio per via dei diversi background. Qualche momento di stanca nel finale, ma la statura resta comunque medio-alta.

lunedì 18 giugno 2018

Crass ‎– Best Before...1984 (1986)

Il delirante e farneticante art-punk dei Crass nella raccolta che pubblicarono postuma, un paio d'anni dopo lo scioglimento. Venti tracce che coprono l'intero percorso della leggendaria band-comune, dal 1977 al 1984, pubblicate prevalentemente su singoli; l'eterogeneità della scaletta non inficia comunque l'ascolto, al punto che mi verrebbe da dire che si tratta del loro secondo miglior album dopo l'immarcescibile Station of the Crass. E' chiaro che poi si sente un lieve declino nella seconda parte della loro carriera, anche a livello produttivo; c'è persino un inedito della fase finale, Smash the mac, che è un'anarco-wave quasi imbarazzante per i loro standard; forse se ne resero conto da soli, di aver compiuto la missione e quindi giusto fu lo split. Ma per il resto, le schegge arrivano a bomba, con Nagasaki Nightmare, Big A Little A, Bloody revolution, Rival Tribal Rebel Revel, irresistibili nel loro caracollare incessante ed ossessivo, oppure le "interferenze" concrete di Reality Asylum, Shaved Women, e pochissimi cali d'intensità.

sabato 16 giugno 2018

Make-Up ‎– In Mass Mind (1998)

Se non ricordo male questo cd mi fu regalato da Blow Up, che fece scegliere fra una rosa di 3 dischi. Devo essere sincero, al tempo non avrei mai comprato nulla dei Make Up; non rientravano fra i miei gusti primari, almeno per quanto recepivo dalle recensioni. Non sono mai stati dei pallini di certa stampa, forse per una proposta che si rifaceva parecchio al passato e perchè non erano certo legati a qualche corrente dominante del periodo. Avevano il potenziale per accattivarsi il pubblico della Jon Spencer Blues Explosion, se non chè anche loro erano in fase calante di popolarità. Trovai il disco molto gradevole e li archiviai, perso in tante altre cose.
A vent'anni di distanza, la mia opinione su In Mass Mind è migliorata: trovo molto fresco il loro mix di garage-soul, post-punk e funk-wave, diversi pezzi sono veri e propri killer e soprattutto occorre rilevare la grande prestazione di Ian Svenonius, un delirante figlio illegittimo di Captain Beefheart, del quale fornisce una versione eunuca, di sicuro mai sentita prima, con degli acuti da spaccare i vetri troppo irresistibili per essere veri. Valore aggiunto di un suono molto semplice ma trascinante.

giovedì 14 giugno 2018

Holger Czukay ‎– Movies (1979)

Già dai magici video della televisione tedesca di metà anni '70 era facile intuire chi fosse l'anima ironica e giocosa dei Can: era il grande Holger Czukay, che ciondolava col basso sorretto da una cinghia sottilissima, quasi mai sguardo sul manico, espressioni attonite e occhi pallati verso la camera. Quando poi, poco prima di abbandonare il gruppo, aveva lasciato il 4 corde per concentrarsi sulle sue diavolerie elettroniche, appariva chiaro che gli stava stretto l'ambito in cui il quartetto si era diretto in quel momento.
Movies succedeva di 10 anni a quel Canaxis che aveva aperto una breccia decisiva nella musica world d'avanguardia. Czukay suonava tutti gli strumenti a parte la batteria, appannaggio del fido compare Jaki Liebezeit, indispensabile macchina umana. Il legame con Can non era ancora rescisso del tutto, però: Cool in the pool è un funk demenziale che scimmiotta in qualche modo l'hit More, ma si capisce che si iniziava a fare sul serio con Oh Lord give us more money, con la presenza di Karoli e Schmidt, 13 minuti di magia sincopata, purissimo Can style. Persian Love, con la sua melanconia mediorentale, stabilisce un nuovo modello world, col muezzin campionato ed incantevoli giri chitarristici (e chi se lo aspettava Holger con la sei corde così?). Hollywood symphony, 15 minuti, gigioneggia un po' eccessivamente nella prima metà, ma poi esplode in una sarabanda ipercinetica multicolore; probabile manifesto espressivo di una fase che negli anni '80 continuerà fra alti e bassi, ma sempre in un segno assolutamente unico, immediatamente distinguibile.

martedì 12 giugno 2018

Miasma & The Carousel Of Headless Horses ‎– Perils (2005)

Nel 2003 Daniel O'Sullivan, poco più che ventenne, entrò nei Guapo ed oltre ad influenzare pesantemente le timbriche e le dinamiche di quel gruppo, spinse Dave Smith, il batterista e leader fondatore, a formare questo quintetto estemporaneo dal nome alquanto bizzarro; con loro due, un bassista, una violinista ed un tastierista, perchè qui il giovane Daniel era dedito alla chitarra.
Risultato: un RIO-Prog strumentale, movimentato, dal sapore arcaico, con sentori mitteleuropei, a tratti vagamente balcanici, con inevitabili reminescenze Guapo, dei quali potrebbero essere definiti una versione light oppure semi-cameristica, vista l'importanza del ruolo del violino. Arzigogolatissimo e bellissimo.
Un side project ben più rifinito ed importante di quanto il nome potesse far pensare, che produsse soltanto un veloce EP due anni dopo e poi andò in archivio, non più replicabile visto il divorzio fra O'Sullivan e Smith di lì a poco. Ed ennesima testimonianza del grande talento del primo.

domenica 10 giugno 2018

Orb ‎– Pomme Fritz (1994)

Era il momento di grande (per così dire..) successo per gli Orb, tant'è che furono chiamati ed ingaggiati dalla Island. I riconoscimenti per U.F. Orb erano stati pressochè unanimi e dalle frequenze di Planet Rock erano stati eletti a massimi esponenti della corrente ambient-trance-elettro-techno. Giocoforza il seguito era atteso con trepidazione, ma Pomme Fritz fu una sorpresa, per i più in negativo; i beats e le soluzioni a presa rapida che li avevano resi popolari furono accantonati per una prova a suo modo ostica per chi si aspettava una replica (unica esclusione, l'unica ritmata Bang'er n chips), dai titoli a tema gastronomico; lo humour per Patterson si sa, è sempre stato un tratto somatico importantissimo, ma nessuno al tempo poteva prevedere un disco che si apriva con la title-track, una splendido aggiornamento sintentico di Future Days dei Can in chiave strumentale.
L'influenza tedesca faceva capolino in qua ed in là, ma in generale la porzione massiccia di samples e le trovate atonali rendono Pomme Fritz un'anomalia che ancora oggi pone interrogativi: gli Orb volevano fare avanguardia o tirare un killing joke alla Island ed al loro pubblico?
Quelli di Planet Rock erano lucidi e non si fecero cogliere impreparati: per loro fu un seguito soddisfacente quanto curioso e lo mandarono subito in rotazione..

venerdì 8 giugno 2018

Oranssi Pazuzu ‎– Värähtelijä (2016)

Ormai è una certezza da diversi anni a questa parte, a volte le contaminazioni europee più interessanti provengono dalle periferie e la Scandinavia è un bacino importante. Gli OP sono finlandesi di Tampere, si esprimono in lingua madre, sono al quarto disco e propongono un black metal fantascientifico, un calderone multicolour che pesca a piene mani dalla storia della psichedelia ma anche da certo gotico, ed in più di un passaggio mi ha ricordato persino la teatralità dei Magma più stentorei, nonchè la prosopopea dei Guapo. E' un disco drammatico, che del black metal conserva soltanto gli scatti d'ira che nell'economia globale della scaletta contano non più del 30%, che deraglia spesso verso lande post-rock, verso scenari fumiganti di zolfo, verso brulicazioni space che li farebbero quasi diventare gli Hawkwind del Black-Metal. Il disco sarebbe riuscito molto meglio con un quarto d'ora in meno, evitando certe lungaggini, ma si tratta comunque di un ascolto avvincente.

mercoledì 6 giugno 2018

Gang Of Four ‎– Entertainment! (1979)

Piccolo spazio memoria per una leggenda inglese, una delle tante dell'anno domini 1979. Una di quelle per cui si è parlato talmente tanto che ogni parola sembra superflua, soprattutto dopo il revival che imperversò 15 anni fa e su cui lucrarono formazioni di levatura assai discutibile. Almeno, in quella fase, i Gang Of Four uscirono dal dimenticatoio per le giovani generazioni e riscossero un credito che in vita non avevano avuto modo di ricevere.
Io, invece, li avevo scoperti nel 1993 su Planet Rock. Ecco cos'è adesso, il venticinquennale di quell'anno così importante per le mie orecchie, forse il più importante di tutti perchè da quelle frequenze dorate scoprivo il mondo. Una sera Mixo e Rupert trasmisero Damaged Goods e restai folgorato. Poco tempo dopo comprai, per la somma di 1900 lire, la cassetta forata di A Brief History of the Twentieth Century, una raccolta che la WB aveva messo in commercio nel 1990 e che testimoniava il rapido declino di una band che con Entertainment! aveva marchiato a fuoco la new-wave e dopo 5 anni faceva un funk slavato, quasi da discoteca, con i coretti femminili. I segni del tempo, a cui pochi potevano sfuggire, certo.
Segni del tempo che invece non intaccano Entertainment!, che a 40 anni invece conserva intanto il suo impatto, il suo suono bruciante ed essenziale, la sua essenza originale ed inattaccabile.

lunedì 4 giugno 2018

Stara Rzeka ‎– Zamknęły Się Oczy Ziemi (2015)

Un gesto davvero non comune, quello di Kuba Ziolek: in un intervista seguente l'uscita di questo disco, ha dichiarato di voler chiudere il suo progetto solista in modo da potersi maggiormente concentrare sui gruppi in cui è coinvolto (Innercity Ensemble, Alameda 3, T'ien Lai); di solito è sempre avvenuto il contrario, ma è chiaro che il personaggio vive in dimensioni che vanno oltre le convenzioni di comune musicista/compositore. Prova ne è questo, che appunto dovrebbe essere il canto del cigno di Stara Rzeka, un disco dalle forti connotazioni filosofiche. Al di là dello scudo della lingua polacca, nelle varie recensioni ne possiamo trovare ampissima conferma.
Rispetto a quel Cien... che ce lo aveva fatto conoscere nel '13, Ziolek si è ripiegato in sè stesso: laddove allora impressionava col massimalismo e l'eclettismo (a tratti persino esagerato), in Zamknely si distende in un lunghissimo percorso fatto principalmente di fingerpicking acustico, come se fosse stato rapito ed incantato in una qualche foresta nordica e poi fosse tornato in studio a registrare, aggiungendo effetti, tastiere e quasi nient'altro. Un disco che non procura brividi immediati come il predecessore e che per questo richiede più attenzione; suona un po' come un ritorno all'arcaico, ad una regressione umana, lascia tanti interrogativi e questioni irrisolte nella nebbia mattutina di una gelida radura. Saperci entrare è l'impresa più ardua; questo non è folk psichedelico ordinario, ma l'espressione purissima di un artista a sè stante.

sabato 2 giugno 2018

Scream From The List 71 - Good Missionaries ‎– Fire From Heaven (1979)

Per dovere di completezza (oppure per gonfiarla, chissà...) nella List non poteva mancare l'alter ego degli Alternative TV di Vibing un the senile man, il quintetto messo in piedi da un Mark Perry sempre più punk nell'essere anti-punk, con un live registrato in diverse sedi nella primavera del 1979.
Un suono sulfureo, sbilenco e un attitudine spiccatamente free contraddistinguono Fire From Heaven, che recupera alcuni pezzi degli ATV e li adatta alla dimensione da palco; un po' di doti più arty e saremmo stati quasi in area Pop Group coevi (non a caso omaggiati con un breve scheggia di Thief Of Fire) oppure in zona Metal Box, ma il caos regna sovrano in queste allucinate divagazioni in cui l'improvvisazione recitava un ruolo fondamentale. Più post-punk di così era davvero difficile fare; Perry ebbe voglia di strafare e strafece, ma è indubbio che a 40 anni queste dissacrazioni pseudo-avant esercitano ancora un certo fascino.