lunedì 8 novembre 2010

If These Trees Could Talk - If These Trees Could Talk (2006)

Spuntano come funghi. Hanno nomi lunghi, evocativi e talvolta persino pomposi. Si potrebbero riconoscere anche dalle foto, in cui i membri appaiono distanti, sfuggenti, ritratti spesso in ambienti naturistici, con gli sguardi assorti e lontani dall'obiettivo della camera.
Ma basta, mi sono stufato del tag post-rock, è orribilmente inadeguato. Nel 1995 aveva un senso per i capostipiti, come i Tortoise, ma già nel 1997 con la bomba-Mogwai era limitante. Da allora non si è trovato un altro termine per individuare i gruppi strumentali che avessero fantasia e libertà da vendere, nemmeno per i 4-5 giganti che hanno compiuto miracoli nel decennio zero.
E nella seconda metà di esso sono arrivati i replicanti, la seconda generazione. E per la legge della probabilità, nel mazzo dei funghi spunta qualche asso. Così si rende necessaria una definizione alternativa, ed ho deciso di coniare il mio personale tag epic-instru nella comodità di inquadrare queste band, per la stragrande maggioranza americane, che armate di immaginazione e buona tecnica si inerpicano in questi sentieri difficili, già abbondantemente battuti ma comunque ancora da sfruttare, per chi ne abbia le capacità.
Questi ohioani rispettano fedelmente i comandamenti soprariportati. Ma se tutti fossero a questo livello, ci sarebbe da fare festa ogni giorno. Con questo debutto auto-prodotto i Trees hanno pescato in qua e in là fra i giganti, sintetizzando in un concept di 27 minuti cinque pezzi legati fra di loro in cui i rimandi, i voli e l'immaginazione salgono alla ribalta.
Si immagini una versione decisamente muscolare degli Explosions, e ancora non si renderà giustizia alla personalità del quintetto. A partire dall'iniziale meraviglia di Malabar front, i Trees espongono le loro doti con compiacenza: i lavori di cesello delle tre chitarre, sia sull'altissimo pulito che sul distorto acidulo. Il batterista Kelly, potente e risolutivo. Le trame avvincenti e le progressioni da brividi scorrono senza soste nell'effluvio della suite; Smoke stacks fa dell'usuratissimo standard quiet/loud un utilizzo intelligente. The friskalating dusklight pastoralizza prima, spinge forte poi sul gas di più azzeccatissime sequenze di accordi.
La ripresa del tema iniziale, in Signal Tree, non lascia tregua al susseguirsi dell'inseguimento. Sono dei folli troppo lucidi per essere credibili. La chiusura del cerchio si ottiene con The death of paradigm, commosso fragore di innocenze che non si vogliono ancora lasciare alle spalle. Sento a tratti quella voglia di tornare alla prima giovinezza che mi invase 7 anni fa, ai tempi di The earth is not a cold dead place. E ho detto tutto.
Un disco da divorare.

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