mercoledì 30 marzo 2011

Phantom Limb & Bison - Phantom Limb & Bison (2007)

Molta curiosità per un altro estratto dalla lista dei 10 dischi del decennio zero di SIB di Blow Up, la quale però non credo di voler portare a termine, me ne mancano un paio ma mi sa tanto ne ho avuto abbastanza...
L'operazione qui svolta dai newyorkesi PL&B, peraltro progetto collaterale di tali Peeesseye che non conosco, è oltremodo di quelle concettuali che forse si possono intuire dopo parecchi ascolti. Si tratta di un lavoro piuttosto dronico, in cui elementi di psichedelia statica si congiungono a lunghi, estenuanti periodi di elettroencefalogrammi piatti. Vanno un filino meglio quando decidono di increspare un po' la lugubre atmosfera con diversivi (industriali in St. Louis, ambient-sideral in The umbridge bombination, chitarre panzer e singulti animali in Bright Yellow Rays).
Ma il concetto, come detto, non è propriamente di quelli assimilabili. Per farla breve, è un disco difficilissimo che, secondo me, incute timore e gira su se stesso senza combinare un granchè di significativo. Gli Aufgehoben, tanto per restare in area (e nella stessa SIB-chart), sono ben altra cosa...

martedì 29 marzo 2011

Penguin Cafe Orchestra - Music from the Penguin Cafe (1976)

Al di là dell'attinenza che il simpatico nome poteva avere con lo spirito artistico dell'ensemble, Music from fu un bell'esercizio di giuoco e stile. Scoperto da Eno, che in questa sede lo fece debuttare sulla sua label personale, il collettivo guidato dal chitarrista / pianista Jeffes sfoggiava virtù classiche/cameristiche virate in toni disincantati, quasi mai seriosi e contaminati con folk, musica etnica e piccoli scogli di avanguardia.
Al primo ascolto la matassa potrebbe sembrare ingarbugliata non poco, vista l'ampiezza della tavolozza. Occorre approfondire con cura e pazienza per perdersi piacevolmente in un percorso che sembra quasi cinematico, raffinato ma mai ampolloso. I momenti più belli, secondo me: l'equilibrio fra piano ed archi nella struggente Surface tension, il madrigale femminile di Coronation, la visionaria ballad folk di Hugebaby. Sicuramente ho scelto i momenti più intensi dal punto di vista emotivo, ma occorre segnalare che risaltano maggiormente per via del fatto che restano incastrati in mezzo ad allegre fanfare fra il circense e il medioevale e bizzarri quadretti atonal/avaguardistici.
Il tutto ad alimentare l'ecletticità del progetto.

lunedì 28 marzo 2011

Pelican - City Of Echoes (2007)

Non ho cambiato molto idea sui Pelican neanche dopo questo episodio che li ha visti progredire verso orizzonti un po' più aperti rispetto agli esordi, in particolare a quell'Australasia che davvero non mi convinse per niente.
Francamente, è il classico gruppo che di sicuro dal vivo mi convincerebbe di più. Credo che la dimensione live saprebbe esaltare le dinamiche che in studio restano impantanate su uno stile non poco di maniera, che sembra voler spaccare il mondo ma finisce per non andare da nessuna parte. Apprezzabile il loro tentativo anche di voler svariare su qualcosa di diverso, come l'acustica Winds with hands o come la parte iniziale di A delicate sense of balance, che vorrebbe emulare certe pagine post-slintiane, circa June Of '44 e dintorni. Peccato che i risultati invece siano goffi e sfocati, privi di un'ispirazione che riesca anche solo a farli avvicinare a modelli nobili.
Irrimediabilmente bocciati.

mercoledì 23 marzo 2011

Pedro The Lion - It's hard to find a friend (1998)

Moniker dietro il quale si è agitato il cantautore di Seattle David Bazan per una decina d'anni, con innumerevoli rotazioni di personale. Ricordo che comprai questo cd dopo aver letto di accostamenti con i Codeine e all'ascolto rimasi terribilmente deluso, dal momento che non c'entrava praticamente niente. Superato lo scoglio di prevenzione, restava un indie-folk-rock educato e leggerino che tuttavia in certi frangenti non era neanche malaccio.
A tratti pare di sentire una versione ordinatissima e scevra di impennate dei Bedhead (Bad diary days, The Bells), ma nella maggior parte del disco Bazan si adagia su una formula rassicurante di college-rock con pochi sconvolgimenti, anzi spesso ripetitivo. Quando si arriva all'ultima traccia, Promise, curiosamente la più vigorosa e forse la migliore, un po' di noia è affiorata.

domenica 20 marzo 2011

Transmission Festival - Artificierie Almagià, Ravenna 17-03










Evento realizzato dall'Associazione Culturale Bronson in 4 serate, alla prima delle quali ho assistito giovedì in un locale alquanto suggestivo del 19esimo secolo. Le Artificierie Almagià, ex-raffineria di zolfo, è un grande edificio dall'alto tetto e con archi ai lati, che si presta molto a luogo di iniziative culturali ed infatti è spesso utilizzato all'uopo.
E' una serata molto particolare, nonchè unica, per visionare gli headliner, i decani romani Zu, in quanto pare che sia l'ultimo spettacolo che propongono con lo storico, fondatore batterista Battaglia destinato ad uscire dalla formazione.
Ma andando con ordine, la serata propone 4 set. Aprono i Sybiann, quintetto locale incaricato di rompere il ghiaccio. Che dire? Promettono bene e hanno margini di crescita, con un sound che preleva qualcosa dei primi Rapture o primi Liars nelle fasi più ritmate e dei recenti Holy Fuck in quelle, per così dire, meno dirette. Se potessi dare loro un consiglio, direi di lasciar perdere le componenti più smaccatamente punk-funk e di dirigersi di più verso le coordinate dettate dall'ultimo, ottimo pezzo, oltre che a curare meglio le parti vocali (non certo nel senso tecnico, ma nel contesto "ambientale" del termine).
Poco dopo, nel palco dall'altro lato dell'edificio salgono due omoni di una certa presenza fisica, ma non solo. Mai, il sax possente degli Zu, e il tentacolare, barbuto batterista Zitarelli, ovvero Mombu. Formazione all'osso, grande tecnica, alchimie jazz-matematiche, per un live divertente e magnetico in cui l'aspetto ritmico e la violenza diagonal-sonica è tutto. Una piacevolissima sorpresa.
Aspettando gli Zu, sull'altro palco si sistema la Pedretti degli Ovo, in veste di ?Alos. Nel vociare del pubblico inizia con una delicata nenia fuori microfono e a giocare con un simulatore di canto di usignoli, quasi come a voler chiamare educatamente attenzione. Una volta che l'ha ricevuta, però, imbraccia una chitarra super-distorta e l'impatto è schockante. Con fare satanico, la Pedretti emette furiosi grugniti grind-death in una lingua (a me) incomprensibile, e prosegue a fare un casino bestiale con le saturazioni da sega elettrica della sei corde. Tutto molto intenso e catartico, non c'è che dire, ma forse un po' fuori dal contesto della serata. Mi dispiace di non aver apprezzato la performance, e a metà circa dell'esibizione riteniamo opportuno andare fuori a prendere una boccata d'aria.












E finalmente, è quasi mezzanotte e gli Zu si materializzano sul palco principale. Mi sistemo in prima fila, esattamente davanti a postazione ed ampli di Pupillo, e iniziano l'orda devastante per cui sono stati ben riconosciuti all'estero, al punto di essere messi sotto contratto dalla Ipecac di Mike Patton. Difficilmente posso dire qualcosa su di loro che non sia già stato detto, semmai il mio rimpianto è stato di non averli mai visti prima d'ora. Almeno ho la possibilità di vedere il trio classico con lo strepitoso Battaglia al loro ultimo spettacolo, ed è già qualcosa. Solo una breve definizione: spaventosamente bravi quanto ostici, quasi impossibile seguirli passo dopo passo nelle loro impossibili composizioni e dimostrazioni di forza sovrumana. Ad ulteriore testimonianza della loro aggressività non solo concettuale, basti pensare al fatto che durante un esecuzuone Pupillo rompe la corda del Sol in uno dei suoi bassi, e chi suona questo strumento sa bene quanto sia difficile/improbabile compiere l'impresa.
Solo un paio di battute col pubblico, tramite una bonaria presa per il culo ai Verdena e ai Marlene Kuntz... Un bis ed è missione compiuta. Fonti attendibili ci riportano che Mai e Pupillo stanno già provando con un (volutamente) innominato batterista per proseguire l'avventura di uno dei fiori all'occhiello nazionali.

sabato 19 marzo 2011

Panda Bear - Person Pitch (2007)

Sono sostanzialmente d'accordo con Bianchi di Blow Up quando afferma che gli Animal Collective, nonostante la grande acclamazione che hanno ricevuto nello scorso decennio e tutt'ora continuano ad avere, non sono destinati all'olimpo di chissà quale storia della musica. Casomai Lennox, specialmente con questo disco, ha realizzato cose davvero di gran pregio.
In attesa di un nuovo capitolo che dovrebbe uscire da un momento all'altro, Person Pitch merita sempre qualche ascolto perchè è così gioviale e contagiosamente allegro che non gli si può resistere. A maggior ragione perchè fa rivivere con nuova linfa e freschezza musicalità financo antiche come la psichedelia di metà anni '60, perchè è tutto incentrato su un lavoro vocale strabordante ed evocativo.
In particolare, amo molto la seconda parte del disco: il caleidoscopio allegorico di I'm not, il cantico forestale di Good girl, carrots, il collage ambient-freak-out di Search for delicious e il fenomenale bozzetto di chiusura di Ponytail.
Armonie finissime, quasi da sogno, anzi, da stati di dormiveglia piacevolmente alterati...

mercoledì 16 marzo 2011

Pain Teens - Destroy me lover (1993)

Texas primi anni '90, quindi Trance Syndicate come di rigore. I Pain Teens me li fece conoscere il bravissimo Max Prestia quando illuminava la prima tranche di Rai Stereonotte, ed erano un duo composto dalla cantante Bliss Blood e dal chitarrista Ayers.
Non scherzavano alquanto in tema di perversione e bassezze sociali, e svariavano fra noise, psichedelia, rumorismo e pop deviato. La Blood aveva un tono algido, quasi distaccato nel suo gelo, mentre Ayers si metteva in mostra con un bel rifferama ossessivo (ottima l'iniziale Cool Your Power). Ci sono 3-4 gamme di composizioni in Destroy me lover: il cingolato industriale dei Chrome più pesi (Tar Pit, Body Memory), il caos industrial-noise con cut-up vocali extra (Shock Treatment, Sexual Anorexia), la compattezza grintosa dei pezzi più convenzionalmente Trance Syndacate (Dominant Man, Lisa knew), e la variante semi-acustica (Prowling, la pastorale squisita The story of Isaac). Una varietà che contribuiva alla riuscita generale del disco, persino con l'inserimento di un pezzo smaccatamente pop come RU 486. Che però, guarda caso, parlava della pillola abortiva.
Amori che distruggono, pertanto.

martedì 15 marzo 2011

Oxes - Oxes (2000)

Trio di Baltimora, ormai decano di un math-rock muscoloso ma ricco di varianti. Sono proprio dei matti gli Oxes, come si potrebbe anche intuire dal loro aspetto, nonchè per le leggende relative ai loro concerti che spesso assumono le sembianze di shows intimidatori.
Questo fu il loro debutto sulla lunga distanza ed è un vulcano di potenza ed acume. Due chitarre e batteria, niente basso e ottima tecnica per un concentrato arzigogolato e contorto. Rocciosi passaggi donCaballeriani, fughe hard-metal, wall of sound di rumore bianco, brevi paresi spettrali di ruvido sound louisvilliano, persino qualche dolente momento bucolico (il finale di I'm From Hell), sono gli elementi essenziali di un disco intricatissimo che richiede parecchi passaggi per essere assimilato, ma sa soddisfare non poco gli amanti del genere.

martedì 8 marzo 2011

Oxbow - Song for the French (2009)

Ci mancava, un live degli Oxbow.
Servono descrizioni più o meno accurate per descriverli? Io non riesco a trovarne molte, a parte sostenere che si tratta di una band originalissima, inimitabile, dalla creatività e dalle doti strabordanti. E straordinariamente longeva senza perdere un'oncia della propria energia, anche se non troppo produttiva.
Un live a dir la verità era ben presente anche visivamente sul DVD di Love that's last del 2006, ma questo non fa altro che alimentare la mia speranza di vederli live un bel giorno, essendomeli persi un paio d'anni fa. Intanto questo limited edition tour only perlomeno inganna l'attesa per un nuovo capitolo che spero non si farà aspettare troppo tempo, dopo lo spettacolare Narcotic Story.
Un 12" diviso in due parti: la prima composta da 3 inediti, due sul palco ed uno in studio, in collaborazione con il French citato nel titolo, il chitarrista degli Heliogabale (da riascoltare) Thiphaine, uno abituato a maneggiare anche del jazz-impro. 2 P.M. e Coalking sono storie malsane, spettacoli dell'assurdo; Robinson solito Cpt. Beefheart incazzato cresciuto nel ghetto, Wenner torbido chitarrista intento a sezionare minuziosamente ogni residuo rimasto vivo del blues-core, la sezione ritmica a disorientare con criterio di virtù (Davis si conferma un batterista mirabolante).
L'episodio in studio è una splendida escursione in territori acustici per classiche, piano e percussioni povere. Potrebbe anche rivelarsi una direzione futura, seppur rifletta un po' le tendenze di Robinson e Wenner quando si esibiscono in due. Straniante.
Il lato B invece sfodera un pokerissimo degli Oxbow classici on stage, per cui: potenza devastante, intelligenza e sarcasmo feroce, eccessi ed elasticità. La compattissima Frankly Frank, la serrata senza tregua di La Luna, lo sbrago collettivo organizzato di The Duke, e il gran finale col recupero (dal primo album del 1991) di Yoke, pura follia allo stato animalesco.
Al termine l'applauso è quello di poche persone, destino inevitabile per un gruppo così esclusivo e solitario nel proprio percorso.

lunedì 7 marzo 2011

Organum - Submission (1988)

Questo compìto signore diligentemente vestito da impiegato ed intento a passare l'archetto su un piatto è David Jackman, un decano della sperimentazione inglese diviso fra ambient inquietante, industriale e musica concreta, con intenti abbastanza seriosi di avanguardismo.
Questo 4-tracks fu pubblicato sulla United Diaries di Stapleton, di cui è stato peraltro assiduo collaboratore. Per certi versi anticipa un po' le tendenze dell'isolazionismo anni '90 (non a caso finirà per lavorare anche con Robert Hampson, che nei Main si avvicina spesso e volentieri a questo tipo di suoni) e dura soltanto 26 minuti.
Le serpentine fosforescenti di Cowl sembrano cigolii di violini impazziti, con il ringhio di una tromba dronica che va e viene. Il drone industrial-catastrofico di The expelled ha un effetto devastante, un wall of sound flangerizzato di solennità cavernosa.
Submission è una field-recording per piatti archettati come da foto, immagino. Jackman esegue all'aperto, circondato da cinguettii di volatili, e poco distante si odono clacson e automobili in transito per la strada. Con i suoi 18 minuti, Renunciate è l'ovvio catalizzatore del disco, anche perchè è l'unico con una vaghissima parvenza musicale: fra sparuti aliti spettrali, rintocchi di campane e i soliti piatti, è una lunga e minimale piece per flauto riverberato. Nel finale fa capolino anche un drone profondissimo, e non mi stupirei se Jackman in questo caso avesse registrato in una chiesa o qualcosa di similare.
Una sotto-missione molto evocativa.

domenica 6 marzo 2011

Orb - U.F. Orb (1992)

E a quasi vent'anni di distanza, invece, i primi dischi degli Orb personalmente non finiscono mai di affascinarmi. Ciò che inizialmente era ideata e pensata come musica da riposo post-rave diventò un fenomeno a sè stante e difatto ne segnò la fine.
Patterson e i suoi estemporanei collaboratori coniarono una nuova formula di elettronica che frullava con fantasia tante cose: i corrieri cosmici, la psichedelia, il dub, la techno-trance, la musica concreta, l'ambient pionieristica di Eno. Ciò che mi piace di più, ancora oggi, è la manifesta giocosità ed ironia di queste tracce, che vogliono ipnotizzare e far viaggiare con la mente, ma con un implicito sense of humour tutt'altro che inglese.
Di questo episodio che li consacrò definitivamente al di fuori di Albione, prediligo gli ambienti meno ritmati e più trippy come O.O.B.E. (una nebulosa di synth krauti, bleeps e flauti sabbiati), Blue Room (suite subacquea con fendenti concreti a destabilizzare), Towers of dub (lo dice il titolo, ma l'approccio era ben diverso dagli standard).
Una ventata di freschezza "fuori"....

sabato 5 marzo 2011

Optic Eye - Trance (1992)

A quasi vent'anni di distanza, l'elettronica inglese dei rave party e dei goa sembra quasi anti-diluviana nella sua, diciamo, ingenuità e ancor più nelle sonorità, ben radicate negli '80. Quasi come la scena freakedelica adiacente, della quale in un certo senso rappresentava il contraltare tecnologico.
Il duo di Stephenson & Trower faceva un po' da raccordo fra i due versanti in quanto questo Trance usciva su Mystic Stones, una piccola indie dalla vita breve che era solita pubblicare lo psych-rock vintagistico di bands come i grandi Dead Flowers, i Mandragora, Strobe ed altri. Il mio affetto in questo caso però è legato alla solita storia della Mental Hour, quindi l'occhio ottico assume una valenza ancor più di parte.
E faceva techno-ambient intrisa di percussivismi, sapori africani (Sunchant), accenti indianeggianti (Eye of India), scenari vaporosi (Trance dance), quasi wave-goticheggianti (Crsytal Moon). E' chiaro che i suoni sono un po' quello che sono, plastificati ed invecchiati malaccio. Però qualche idea buona quei due ce l'avevano, nei pezzi citati che sono la metà esatta del disco. Quindi una quarantina di minuti di sottofondo trance-onirico ci possono anche stare...

venerdì 4 marzo 2011

One Starving Day - Atlas Coelestis (2009)

Davvero atipico il fatto che un gruppo del genere venga da Napoli. Gli OSD sono un quintetto piuttosto ambizioso in termini di sound e costruzioni, e realizzano un post-hardcore-metal che pesca da diversi frangenti. La voce di Foresti e le deflagrazioni più violente ricordano parecchio i Neurosis, ma rappresentano solo una minima parte di questo lungo albo.
Il synth riveste un ruolo molto importante, allo stesso livello se non più importante delle chitarre, è il vero strumento solista del gruppo; fornisce all'impianto la venatura hard-prog che straborda in parecchi frangenti (il passaggio kingcrimsoniano di Black Black), nonchè ricordi inconsulti della stagione tedesca degli anni '70.
Atlas Coelestis non è un disco che passa tanto inosservato; quasi tutti i pezzi sono lunghi dai 8 ai 12, le composizioni sono articolatissime e contorte. Se posso muovere qualche osservazione, consiglierei ai OSD di condensare meglio le loro numerose idee in un formato più breve, mentre a Foresti di provare qualche pezzo con una voce normale, e non di utilizzare sempre il classico growling.
Alla lunga, nonostante l'ottima produzione e la varietà delle atmosfere, Atlas Coelestis finisce per esssere così dispersivo che alcuni passaggi eccellenti rischiano di restare sotterrati sotto la mole gigantesca di sviluppi.
Insomma, si può solo migliorare....

giovedì 3 marzo 2011

One Dimensional Man - 1000 Doses of Love (2000)

Essendomi capitato di vederli di recente dal vivo, ho potuto apprezzare le qualità dei veneziani in modo tangibile, un power-trio compatto e feroce che ha in Capovilla cantante incisivo e ruggente. Quindi ecco l'occasione per ridare loro una chance in studio dopo che anni fa avevo ascoltato i loro dischi senza che mi restasse un granchè; peccato che non sia cambiato praticamente nulla in merito.
Nella prima metà degli anni '90, in Italia ci fu un manipolo abbastanza carbonaro di bands che aveva assimilato il noise-rock americano e provava a lanciarne una propria versione, senza risultati degni di successo o di durata temporale. Soltanto un paio di queste sono sopravvissute; gli Uzeda (facendo però un disco ogni 10 anni) e i Larsen (che invece si sono mirabilmente reinventati).
Curiosamente i ODM sono nati nel 1996, quindi facenti parte di un ipotetica seconda generazioncina, ma alla fine sono rimasti i più coerenti e duraturi, con quasi 10 anni di militanza escludendo ovviamente l'attuale reunion-tour. Non che ciò sia un merito oggettivo; su disco hanno sempre pagato un debito ispirativo impressionante ai Jesus Lizard (si potrebbero citare anche gli ultimi Cop Shoot Cop) senza averne nè la spettacolarità nè le doti tecniche mirabolanti.
Quindi, noise-blues da macelleria senza troppa fantasia, riservato esclusivamente agli stretti cultori del genere. Meglio vederli dal vivo.
Meglio il Teatro.

mercoledì 2 marzo 2011

Old Time Relijun - Uterus and Fire (1999)

Li vidi al Link nel 1998 o 1999, e li trovai confusionari e con poco costrutto. D'altra parte ero lì per vedere Will Oldham e non ero molto predisposto a sorbirmi questo trio selvaggio ed iconoclasta, molto dipendente dal frontman De Dionyso. Di lì a poco finirono sulla cover di Blow Up, non poco incensati.
Un performer davvero peculiare, influenzato da Captain Beefheart e dal primo Nick Cave nell'uso della voce, dedito a schitarrate sbilenche o a scorribande di sax invasato, che compone schizzi schizofrenici, monocromatici ed ossessivi. Ma occorreva dare grande merito anche ad Elvrum, davvero il batterista ideale per questo tipo di sound; non a caso destinato successivamente ad un percorso in proprio, in veste di Microphones.
Oggi, riascoltandoli, li apprezzo sicuramente di più. Le mini-devastazioni di Giant Boat, Jail, Hot oven, Casino, gli highlights del disco, colpiscono come pugni nello stomaco. Il filtro del post-blues atomico intasato dal punk, scenari desolanti come Johnny Applecast o Broken water, qualche melodia un filo più accessibile (Archaeopteryx claw, vicina a certe cose dei primi Grifters, voce esclusa), completano il quadro di Uterus And Fire convincendomi ad oltre dieci anni di distanza. Quel che si dice visceralità.

martedì 1 marzo 2011

Of Cabbages And Kings - Basic Pain Basic Pleasure (1990)

Oscurissima band newyorkese che incise un paio di dischi per la Triple X e altre frattaglie a cavallo degli anni '90. Il loro approccio al corrente noise-rock era piuttosto obliquo, e non poco personale. Nella prima formazione c'era anche il batterista Parsons, che però non figura in questo episodio, in quanto era passato ai Prong; col senno di poi, la mossa fu indovinata dal punto di vista commerciale. Comunque i due fondatori (Kizys il cantante/bassista e Master la chitarrista) non si persero d'animo, continuarono e diedero alle stampe questo debutto sulla lunga distanza.
Il suono di BPBP è stordente e ottundente quasi quanto quello dei Flipper di Gone fishin', ma si contraddistingue per una maggiore rifinitura, zero punk e svarioni gotico-industriali. Il nuovo batterista Huthins si faceva notare per un tribalismo insistito su toms e timpani, il canto di Kizys si divideva fra ruggito rabbioso e un tremolio androgino spesso doppiato da una voce femminile.
Gli effetti che i OCAK puntavano a raggiungere erano diversi; terrore bianco percussivo (The reign, Snake, Crawl), catatonia funerea (Of Service, Land of '57 Chevy, Locked in position), straniamento irriverente (la cover del tradizionale John Barleycorn must die), approcciato con un perenne senso di sballo lascivo.
Nel mezzo, spunta per reazione col resto la litania chiesastica per voce, organo e schizzi di violino di Crawl again, che a 20 anni di distanza forse regge meglio il passo dei tempi, per ironia della sorte. Restarono in una terra di mezzo indefinita (poco incisivi per essere eredi degli Swans, troppo down per essere noise), fecero l'ultimo atto Hunter's moon e si sciolsero due anni dopo.