giovedì 31 marzo 2016

Roger Chapman And The Shortlist ‎– He Was… She Was… You Was… We Was… (1982)

Un'iniezione di sano e ruspante blues-rock dalla grana grossa e venato di soul per questo live di Chappo del 1981, registrato ad Amburgo, in quella Germania che lo aveva adottato come beniamino e nella quale risiedette la maggior parte del decennio.
Non si faceva mancare nulla; con lui c'era la Shortlist, una formazione di ben 7 elementi che schierava, oltre ad alcune eminenze grigie della Gran Bretagna anni '70, anche l'ex-Family Poli Palmer e l'ex-King Crimson Boz Burrell. Esecuzioni e tecnica impeccabili, il leone ruggisce come suo solito che è un piacere, pezzi accattivanti e soprattutto di gran gusto: il dna era sempre quello, anche se l'inventiva e la classe dei Family erano lontane ormai anni luce.

martedì 29 marzo 2016

Haxan Cloak ‎– Excavation (2013)

Che il dubstep più oscuro ed inquietante (vedi Demdike Stare) potesse avere qualche affinità con la dark-ambient, ne avevo il sospetto. E tale si è materializzato con questa eccellente escavazione ad opera di un sound-designer inglese, Bobby Krlic.
Questo è un prodotto dei giorni nostri, non c'è che dire, alla faccia di chi dice che non si può più fare musica nuova ed eccitante (a meno che non si releghi la supposizione ad una mera questione di gusti). Il suo segreto è l'alternanza di situazioni, pur sempre immerso in atmosfere che vanno dall'angoscioso al tenebroso: bor-droni saturi di rumoristica varia con ritmi interessantissimi sotto, sferzate elettroniche che giustificano l'accostamento al dubstep, un paio di canoniche esplorazioni d/a ma sempre con qualche diversivo che fa drizzare le orecchie. Attendiamo un seguito, il ragazzo può avere altri assi nella manica.

domenica 27 marzo 2016

Umberto Maria Giardini ‎– La Dieta Dell'Imperatrice (2012)

Apparentemente poco o nulla è cambiato rispetto a I Segreti del Corallo, a parte il fatto che UMG ha smesso i panni di Moltheni. E pensare che nel 2010 aveva dichiarato di volersi ritirare.
Per fortuna, altrimenti chi terrebbe alto il vessillo del cantautorato nazionale?
Poco o nulla è cambiato a livello musicale, se non chè al posto degli svariati nadir umorali che erano presenti nel suddetto, qui UMG appare un filo più energico, alcune volte fragoroso. E' un uomo forse liberatosi da qualche demone interiore, ma soprattutto si conferma come songwriter ancora miracolosamente in possesso della capacità di scrivere grandi ed emozionanti canzoni. I detrattori sono feroci, lo so; sempre le stesse, bla bla bla.
Ma come dichiara lui stesso, In Italia non si sa più distinguere il bello. Amaro ma vero.

venerdì 25 marzo 2016

Grouper ‎– Ruins (2014)

Svolta intimista per la Harris, proprio all'indomani dell'entrata nella galassia Kranky?
Non si sa. Il suo cammino non è dei più lineari. Dopo i due giustamente acclamati A | A sono usciti 2 cdr ultra limitati, un album di ripescaggi del 2008 e per ultimo Ruins, che contiene materiale registrato in Portogallo nel 2011 + la lunga Made of Air, risalente addirittura ad un decennio prima, una delle sue tipiche giovani ruminazioni di drone-gaze in forma ancora acerba.
L'aria lusitana deve aver ispirato la parte più confidenziale della Harris, dato che si tratta esclusivamente di pezzi per piano acustico e voce. Se la trafila temporale fosse andata di pari passo l'uscita dei dischi, avrei fatto un parallelo con la Pj Harvey che ad un certo punto disorientò tutti e se ne uscì con quel gioiello che fu White Chalk. Significa, comunque, che dopo aver raggiunto un certo climax si può sentire il bisogno di togliere gli orpelli, di staccare ogni spina e di dare la giusta importanza anche ai vuoti. Allora ecco un parallelo più accorto, con le dovute proporzioni; la Cat Power di The Covers Record.
Da questa congiuntura di auto-ripiego ne escono quadretti compassati in bassa fedeltà fra il melanconico ed il trasognato, cantati con un filo di voce. Di una semplicità e di una naturalezza innata: doti che forse non ci aspettavamo dalla Harris, al punto che Made Of Air, posta in coda, sembra quasi guastare l'atmosfera creatasi.

mercoledì 23 marzo 2016

Alfredo Tisocco & Gruppo Italiano Di Danza Libera ‎– Kátharsis (1975)

Episodio molto marginale della storia del prog italiano, perchè ne sfiorava le coordinate e per la sua natura dichiaratamente coreografica in quanto andò a musicare uno spettacolo di danza teatrale.
Artefice ne fu il veneto Tisocco, già tastierista e compositore alla guida degli Opus Avantra, altro nome che ebbe lo stesso destino: troppo ambiziosa e variegata la formula per essere apprezzata dai puristi del prog.
Eppure Kátharsis va ripescato, perchè è un opera di levatura notevole: inizia con un deliquio psichedelico in stile Ummagumma, poi prosegue con astrattismi di piano in linea con la library più oscura, con quadretti Rio alla Henry Cow, con liturgie estatiche per organo e voci femminili, con un gospel bianco e così via. Una fase di recitazioni miste spezza un po' il filo, ma il finale è riservato alla fase più geneticamente progressive, che in fondo in fondo non poteva mancare.
E' frammentario, per certi versi autoindulgente ed ovviamente trasuda settantismo da tutti i pori; chi non resiste a questo fascino è avvertito, nel caso in cui non l'abbia mai ascoltato.

lunedì 21 marzo 2016

Al Cisneros ‎– Toward Nazareth (2014)

Sempre più illuminato dalla fede e dall'iconologia cristiana, il buon Al da 3 anni a questa parte si è dato al Dub ed ha rilasciato una manciata di 7 pollici, alcuni in proprio sulla sua label personale Sinai ed altri sulla Drag City come questo 12".
La particolarità di tali singoletti è che, nonostante titoli differenti, i pezzi sono gli stessi su entrambe le facciate (a meno di essere incappato in una serie di sviste colossali). Una scelta difficilmente spiegabile, soprattutto a chi li ha comprati.
Toward Nazareth segna un progresso di stile e quantità; 5 pezzi, numero dispari. 2 su 3 sono ripetuti, però guardacaso sono per adesso i migliori dell'esiguo repertorio. Come si poteva intuire da alcune tendenze in Advaitic Songs, il dub spettrale e misticheggiante potrebbe essere il centro della maturità di Cisneros, e queste potrebbero essere le prove generali. Si tratta di mantra spiritati e solenni (la title-track), grooves caracollanti e rilassanti (Indica Fields), grooves notturni e sinistri (Yerushalayim). L'effetto ipnotico è a dir poco garantito; io riesco ad ascoltare l'EP anche diverse volte di seguito senza stancarmi. Eccellente.

sabato 19 marzo 2016

Mothlite ‎– The Flax Of Reverie (2008)

Uno dei motivi per cui probabilmente O'Sullivan lasciò i Guapo fu il lancio di Mothlite, ed anche se il fatto dispiacque bastò questo splendido debutto per dimenticare in fretta l'accaduto.
The flax of reverie non era un lavoro solista, ma frutto di una collaborazione a 4 mani insieme al finlandese Uusimaki, ingegnere del suono collaboratore del giro Aethenor/Sunn O)))/altri e vari. Nell'ottica di un work in progress continuo nello stile del londinese, si tratta di un lavoro transitorio ma fotografico di uno stato di grazia forse irripetibile. Sospeso fra le maestosità inquietanti dei Guapo e le derive pop che caratterizzeranno l'episodio Mothlite successivo, il duo coglieva il bersaglio pieno di un art-rock decadente e splendidamente arrangiato (unico paragone possibile a mio avviso i Three Mile Pilot di fine '90), a tratti confinante con il prog e con la musica da camera (frequenti le incursioni di archi e fiati), con delle composizioni bellissime, spesso frutto di quei riff di piano irregolari che sono trademark inconfondibile dell'artista. Fondamentale.

giovedì 17 marzo 2016

Azonic ‎– Halo (1994)

I Blind Idiot God furono un gruppo piuttosto in anticipo sui tempi, per cui non stupì di certo il fatto che da solo il chitarrista Andy Hawkins potesse realizzare qualcosa di non meno lungimirante.
Halo è composto da 4 lunghi solipsismi, e si sa sulla carta quanto possano tediare 45 minuti di sola chitarra, seppur pesantemente effettata, con qualche effetto sparso e qualche tappeto di synth soltanto nella finale, la fenomenale Raze. Questione brillantemente risolto da Hawkins che, aggirando qualsiasi showcase di tecnica, mise in piedi una serie di gorghi orrorifici, di distorsioni impressionistiche, di scenari apocalittici; anticipò persino il drone-metal, che dopo qualche anno conobbe la sua massima esposizione.
Sconvolgente e catastrofico.

martedì 15 marzo 2016

Abu Lahab - Humid Limbs Of The Torn Beadsman (2012)

La globalizzazione avanza inesorabilmente: già di per sè un progetto così musicalmente estremo ispira interesse, se poi si viene a sapere che questo fantomatico Abu Lahab (zero informazioni al riguardo, dischi autoprodotti) proviene dal Marocco la curiosità aumenta sempre più.
Per definire il suono caotico e terrorizzante di Humid Limbs farei qualche nome di riferimento come Vampire Rodents (riciclo e campionamenti inseriti in un contesto vorticoso), Vas Deferens Organization (la parte meno orrorifica del disco, ma anche quella più freakedelica), Gnaw Their Tongues (frenesie post-black-metal e slanci di grandeur), e persino quella grande meteora che furono gli Ubzub (follie psicotiche ai limiti del demente), tutto frullato sotto la grande ala originaria della musica industriale.
Usciti da Humid Limbs, non ci si capisce un granchè. Ed è molto positivo.....

domenica 13 marzo 2016

Cheap Trick ‎– Cheap Trick (1977)

Non sono un intenditore del power-pop (o pop-core), però mi piace pensare ai Cheap Trick come la prosecuzione easy-proletaria dei Patto. Potrà sembrare inaudito, lo so; la tecnica strumentale non è paragonabile fra le due formazioni (figuriamoci la sorte commerciale), ma il modo in cui entrambe si tuffavano sulla melodia pura è molto affine. E Zander, il vocalist del quartetto dell'Illinois, aveva un timbro e le movenze d'ugola simili a Mike Patto, pur essendo meno potente.
Cheap trick è un disco fresco e per qualche strana congiuntura astrale non suona neanche troppo datato. E' smaccatamente pop, però suonato con fragore genuino ed ironia evidente. E ci sono due pezzi così memorabili che posso ascoltare anche più volte consecutive: il mid-tempo Taxman, Mr. Thief e la sfuriata adrenalinica He's a whore, che una decina d'anni dopo fu ripresa da Steve Albini nei Big Black (in una versione peraltro abbastanza deludente). Due manuali da far impallidire il resto della scaletta, che nel peggior caso è gradevole.

venerdì 11 marzo 2016

Disappears ‎– Era (2013)

Con puntuale determinazione i Disappears continuano a sfornare una media di un disco all'anno, e con immutato affetto per Brian Case li ascolto sempre, anche se nessuno di questi è un capolavoro. 
Però a mio parere il penultimo, Era, è il migliore di tutti. La loro formula indie-psych qui si arricchisce di una vena mobile ed ossessiva, quasi a recuperare antiche sensazioni gothic-wave; merito, con ogni probabilità dell'ultimo acquisto, il batterista Leger, molto più portato dei predecessori al groove ipnotico. Da non ignorare inoltre l'aspetto fondamentale della registrazione effettuata presso gli studi di Steve Albini, ad opera di John Congleton, forse destinato a diventare uno dei suoi eredi più credibili. Il suono è perfetto ed arricchisce la band non poco.
La sezione ritmica ha acquisito autorevolezza nell'economia del disco, che si potrebbe dividere in due filoni, fra il pezzo lungo, dilatato, acido ed ossessivo ed il pezzo di durata normale, canonico. Sono questi ultimi a lasciare più il segno, in primis la meravigliosa title-track, una specie di inno gotico che si stampa in testa e non va più via.

mercoledì 9 marzo 2016

Scream From The List 16 - Holger Czukay & Rolf Dammers ‎– Canaxis (1969)

Quasi nessuna parola per questo colossale precursore dell'ethnic music mescolata all'elettronica, realizzato quando i Can non avevano neanche inciso una traccia. Composto insieme all'oscuro Rolf Damners (indicato come produttore e al supporto non meglio precisato), Canaxis vede uno Czukaj già trentenne, allievo ancora per poco di Stockhausen ma costretto a registrare nel suo studio nottetempo, di nascosto dal maestro, per non subirne l'enorme influenza e per contrastare la sua avversione per la musica folk, qualunque origine essa avesse.
Per il dettaglio, le riflessioni e la portata, ha già scritto tutto Vlad. Ribadisco soltanto la potenza impressionante.

lunedì 7 marzo 2016

Heliogabale ‎– Mobile Home (1999)

Seguito di quel fondamentale secondo album che li fece conoscere un po' anche al di fuori del territorio nazionale, Mobile Home vedeva i francesi scivolare verso terreni più subdoli, psicologici se vogliamo. Ma fu anche quello che precedette un lunghissimo iato, di fatto undici anni se si esclude l'autoprodotto del 2004. Si chiudeva un decennio del quale essi incarnavano alla perfezione l'essenza, e forse il non essere riusciti ad esportare concretamente la loro musica (incisero solo sulla parigina Prohibited) fece loro segnare il passo. Peccato, perchè meritavano ancora una volta: Mobile Home vedeva un quartetto più concentrato a costruire grooves scuri, con Thiphaine più intento a sperimentare che a snocciolare le sue trame di classe. Altro punto a favore la registrazione impeccabile alla Steve Albini di Al Sutton. Da segnalare anche un episodio deragliante con Eugene Robinson a delirare ed incursioni di tromba; questo molti anni prima che il vocalist degli Oxbow diventasse uno dei guest più richiesti.

sabato 5 marzo 2016

Gustoforte ‎– Quinto Quarto (2014)

Ci sono diversi motivi per cui è inevitabile amare i Gustoforte. Primo fra tutti, Quinto quarto sembra un disco fatto da giovincelli al debutto, tanta è la freschezza e l'energia che comunica, e non il frutto della reunion di elementi di mezza età che si rimettono insieme, magari puramente per nostalgia, e con poche idee. Roba da far saltare il banco dell'italian occult psychedelia e dei suoi giovani esponenti. 
Sono tornati, come dichiarano in un intervista, perchè vogliamo dare fastidio a questa desolata penisola degli idioti. Ed è emblematico che i Gustoforte siano romani, che la loro furia logica senza speranza sia più che mai attuale ai giorni nostri.
Poi certo, il ritorno è di quelli importanti se non insperati, dopo 30 anni in cui dichiarano di non essersi mai sciolti ma solo di aver fatto attività alternative ai meccanismi di mercato (come abbandonare cassette in giro, a casaccio). Quinto quarto è un album convulso, tambureggiante, acido, vortice sulfureo con pochi capi e poche code, di un ossessività che sconvolge. Più che mai moderno.
Poi sono da amare per l'iconografia della loro etichetta Plastica Marella; dare un occhiata agli annunci pubblicitari per crederci, sono di un'ironia geniale. Su un Blow Up dell'anno scorso recitava una cosa che più o meno faceva così: Non sai come investire gli 80 € di Renzi? Acquista Quinto Quarto dei Gustoforte e Pape Satan di Fabio Fabor (provvidenzialmente ristampato).

giovedì 3 marzo 2016

Atoll ‎– L'Araignée-Mal (1975)

Quando si parla di Francia anni '70, di solito una parola predomina su tutte le altre: Zeuhl. Eppure, all'ascolto di questo disco spettacolare, mi viene un sospetto: non è che ci siano state grandi prog-bands la cui fama postuma è stata offuscata da Magma e compagnia?
Non c'è alcun dubbio sul fatto che gli Atoll fossero un prodotto tipicamente influenzato dai mostri sacri del genere, eppure la fusione messa in atto in questo contesto aveva del mirabolante. Al netto del neanche troppo ingombrante fattore Genesis, infatti, i transalpini sapevano inserire anche citazioni borderline come gli Area (interventi jazz-rock e temi acrobatici alla Fariselli) o gli High Tide (atmosfere malinconiche e svisate di violino alla House). Citazione personale per il chitarrista Beya, che nelle fasi più concitate riesce a farmi venire in mente il John McLaughlin di Inner mounting flame.
Quindi, vale la pena indagare e recuperare anche il prog ortodosso francese

martedì 1 marzo 2016

Barn Owl ‎– V (2013)

Davvero dura riuscire a replicare quel mastodontico capolavoro che era Ancestral Star per i due californiani, che rappresentava quasi un funerale simbolico ed impietoso del drone-doom. Per cui, dopo un episodio interlocutorio (Lost in the glare) e qualche divagazione (uno split, un EP, un live), li aspettavo al varco con qualcosa di più significativo ma con la consapevolezza che avrebbero dovuto cambiare le carte in tavola. Così hanno fatto, e si tratta di una mutazione drastica.
V assimila con successo l'esperienza ambient che Caminiti ormai sviluppa a scadenza annuale da un lustro a questa parte e la inserisce nel maestoso BO-sound, compiendo una trasfigurazione fra mistica e metafisica. Scompaiono feedback e distorsioni, entrano a gamba tesa colonne impetuose di synth e liquefazioni psichedeliche, le chitarre sono meste ed indolenti. E' un cerimoniale solenne che culmina nei 17 minuti di The opulent decline, summa di quanto elaborato in precedenza nella scaletta. 
L'impresa lambisce i livelli di Ancestral star, e chissà ora cosa ci riserva il Barbagianni per il futuro.