mercoledì 30 gennaio 2019

A Place To Bury Strangers ‎– Pinned (2018)

Prosegue a fasi alterne la carriera del trio di Oliver Ackermann. Dopo l'ottimo Exploding Head ed il medio Worship c'era stato un passo indietro con lo scialbo Transfixiation, culminato con l'addio del batterista che oggi è rimpiazzato dalla validissima Lia Braswell, che conferisce anche svariati controcanti. Una diversificazione allo stile tipico che con Pinned vede anche una riduzione dei muri chitarristici ed annebbia un po' lo scenario con un goccio di elettronica ed atmosfere più rarefatte. E' sempre dark-punk molto espanso, ipercinetico e nevrotico, la sostanza non cambia, (Joy Division e Loop sono sempre il massimo punto di riferimento), ma questa volta anche le composizioni funzionano ed i nostalgici ne trarranno post-soddisfazione.

lunedì 28 gennaio 2019

Scream From The List 79 - ZNR ‎– Barricade 3 (1976)

Atto d'esordio di Hector Zazou, personaggio francese che nel corso degli '80 e '90 diventerà un crossoverista internazionale di elettronica e world, finendo per collaborare con tantissimi illustri fra cui Sylvian e Budd, solo per nominare i miei preferiti. Da giovane invece era un tastierista convenzionale in questo duo con tal Joseph Racaille; un duo abbastanza slegato, a dir la verità, dato che l'80% del materiale era farina del sacco di HZ e che i rispettivi spiriti espressivi sembrano abbastanza distanti. Più classico e posato Racaille, più coraggioso ed articolato l'altro, anche in termini di arrangiamenti, generalmente molto scarni quando non limitati alle due tastiere ed alle voci. 
Satie, Canterbury ed i Red Krayola di God Bless... sono i nomi che vengono in mente per primi all'ascolto, per un disco trasognato, svanito ed eterogeneo che svia parecchio dai suoni di quell'epoca, ripiegando su un morigerato post-cantautorato post-classico e situato in un area indefinibile. Per questo Barricade 3 è classificabile come una mosca bianca che di certo non sarà ricordato come pietra miliare, ma dalle peculiarità tutte sue.

sabato 26 gennaio 2019

Fall ‎– This Nation's Saving Grace (1985)

Una piccola celebrazione un anno dopo la morte di MES ci sta, e credo sia giusto con uno degli albums più ricordati nella sterminata discografia dei Fall. Ho un opinione molto positiva della fase Brix Smith, quella che va dal 1983 al 1989; l'influsso che la consorte / chitarrista americana diede ad uno stile già peculiare di suo fu decisivo nel mischiare le carte; i detrattori sostengono che li fece deviare pericolosamente verso il pop, io sostengo che se pop fu non fu mai becero nè scontato nè piegato alle leggi di mercato, e This nation's saving grace ne è prova fumante, piccolo miracolo di varietà ed omogeneità, con almeno 3/4 perle da antologia (Gut of the quantifier, Paintwork, Cruisers Creek, L.A. + lo spudorato omaggio ai Can I Am Damo Suzuki, di cui solo un'arrogante spaccone come MES poteva impunemente non accreditare ai tedeschi neanche una royalty!). Difficile dire se sia il miglior disco dei Fall, non mi sogno neanche lontanamente di completare le mie lacune e dubito che i Fall abbiano mai fatto un miglior disco. Uno dei migliori credo proprio di sì.

giovedì 24 gennaio 2019

Fausto Rossi ‎– Blank Times (2012)

A tutt'oggi ultimo prodotto di FR e finale di una breve fase di rinascita fra il 09 ed il 12. In fondo lui ha sempre centellinato le produzioni, concentrandole in periodi ben definiti, probabilmente di ispirazione debordante.
Blank Times vira sul classicissimo, nel senso che non è uno shock come il suo precedente; cantautorato rock per chitarra-basso-batteria asciutto e stringato, liriche miste italo-inglesi (a volte persino nello stesso pezzo), grande mestiere; molto meno eversivo di L'erba, ma tutt'altro che un colpo di spugna, vede un FR non certamente pacificato, forse rassegnato e più sognatore.
A dispetto del contesto tradizionalista, il dna vince per manifesta superiorità con un manipolo di pezzi irresistibili come Sogni, Names, Il Vostro Mondo e soprattutto Can't explain, una perla di rara bellezza.

martedì 22 gennaio 2019

Cows ‎– Whorn (1996)

Giunti quasi a fine corsa, i Cows erano una garanzia nel bene e nel male. L'eversione dei dischi iniziali era progressivamente declinata e all'ottavo di nove Whorn la loro professionalità era al picco, nonostante la registrazione live in studio. Dopo la sublimazione di Sexy pee story non restava loro che la sfida di poter eguagliare tali livelli, di confermare la loro depravazione sonora in un quadro ben delimitato dalla crescente professionalità raggiunta.
Whorn quindi non toglieva nulla alla loro cifra stilistica, e provava a crescere con gli psicodrammi di Divorcee Moore, A Oven, Tropic of cancelled, in cui il loro proverbiale noise-punk si tinge di tratti jesuslizardiani e/o blueseggianti. Ed anche quando i ritmi si rallentavano, i veri eredi dei Dead Kennedys in fondo erano loro.

domenica 20 gennaio 2019

Eluvium ‎– False Readings On (2016)

Matthew Robert Cooper continua a dispensare con generosità la sua classic ambient metafisica, sempre sotto l'egida protettiva della Temporary Residence. Alterna dischi sperimentali o comunque più criptici (come l'ultimo Shuffle drones) ad altri più focalizzati e compiuti, se vogliamo maggiori, come questo False readings on che prosegue sul suo stile più core, un po' sporcato, alla Tim Hecker ma sempre col suo piglio personale ed immediatamente riconoscibile. Lasciati alle spalle gli svolazzi neoclassici di Copia ed i timidi approcci pseudo-cantatoriali di Similes, in questo episodio Cooper inserisce comunque voci miste (dalle corali alle operistiche) in un firmamento di estatiche escursioni, all'insegna di una solennità imponente, piacevole conferma di un artigiano dei giorni nostri, baciato dall'abilità di confermarsi su alti livelli.

venerdì 18 gennaio 2019

Acetone – Cindy (1993)

Venticinque anni fa questo debut-album del trio californiano era nella mia wishlist, a causa di una di quelle recensioni che solo PS sapeva elaborare; passionale ma distaccata, lucida ma incantata. Intendiamoci, la mia wish-list dei tempi conteneva tanti titoli quanto circa 10 volte potessi permettermi di acquistare: meditavo giorni, settimane, mesi prima di rompere il maialino e decidermi ad ordinare. E gli Acetone non erano neanche in alte posizioni di quella classifica: era uno di quei cd che avrei comprato solo se l'avessi trovato drasticamente scontato, cosa che ovviamente non accadde mai, vista l'edizione indie. E poi chi ci ha pensato più? Solcarono i '90s con altri 4 album ma io li ignorai e poi il bassista nel 2001 si suicidò, facendo terminare la loro corsa nel dimenticatoio generale.
Qualche mese fa Blow Up pubblica un 20 Essentials a tema slow-core, e toh, guarda chi si rivede. Un'altra casella vuota, ingiallita ed appassita che finalmente si riempie con soddisfazione. Certo, l'inserimento nella categoria appare molto forzata, ma per dovere di riempimento gli Acetone non sfigurano di certo. In Cindy di slow-core ce n'è poco, ed è anche molto buono, ma non era certo quello il cuore della loro espressione: immersi fino al collo nel passatismo (Neil Young su tutti, chitarra solista compresa, ma anche Grateful Dead e Velvet Underground), i tre godevano di una produzione moderna, piena e rotonda, e di un canzoniere di tutto rispetto dal ventaglio ampio, dalla ballad trasognata all'attacco diretto e sanguigno. Nonostante le evidenti capacità e l'ingaggio da parte di Young stesso nella sua Vapor verso la fine del decennio, purtroppo vennero inghiottiti dall'incomprensione del grande pubblico, a causa del loro essere anomali; come giustamente ha scritto Pitchfork They were too rootsy to be shoegazers, too woozy to be alt-country, too classic rock for slowcore, too casually Californian to be mere Velvet Underground revivalists. Dopo 25 anni, è bello scoprirli e farsi un viaggio nell'aria di quei giorni.

mercoledì 16 gennaio 2019

Don Caballero ‎– American Don (2000)

Fotografia di un gruppo allo sbando, American Don segnava la resa di Damon Che alla leadership di uno Ian Williams sempre più preponderante. Il drummer fondatore risultava stranamente sotto controllo, per non dire sedato, piegato alle trame sempre più minimaliste e pulite (zero virgola uno per cento di distorsioni in tutto l'arco) del chitarrista, in quell'anno alle prese anche col secondo Storm And Stress. In quell'ottica progressiva di maturazione, American Don potrebbe essere anche visto come l'estremo anteprima dei Battles, con Che impegnato in uno stile che anticipa il futuro John Stanier, oppure come l'appendice professional-rock degli stessi SAS, vista anche la comune presenza del bassista Erich Emm.
A parte queste considerazioni, era logico immaginare che American Don fosse un disco di non ritorno: le prodezze acrobatiche del passato erano finite ed una nuova frontiera era stata oltrepassata, che piacesse o no: dopo una ventina d'anni, secondo me è da rivalutare ampiamente.

lunedì 14 gennaio 2019

Sisters Of Mercy ‎– Some Girls Wander By Mistake (1992)

La raccolta di tutta le messe di 7" e 12" che scandirono la prima parte di carriera dei SOM, fino al sospirato debutto a 33 giri. Devo ammettere che per anni ed anni li ho snobbati ingiustamente ma ora li sto rivalutando alla grande, nonostante la grande limitazione della drum machine: l'antologia risulta spezzettata, com'è ovvio vista la cronologia, e le debolezze non mancano (la cover di 1969, un paio di strumentali prolissi e puramente riempitivi), ma abbondano perle di programmatico dark-punk come Valentine, Burn, Body Electric, Anaconda, Watch. A tratti acerbi (ed un po' succubi di Bauhaus, Cure e Joy Division) ma ancora poco sofisticati ed istrionici come si sarebbero poi sviluppati, i SOM degli inizi erano un'espressione perfettibile ma già autentica istituzione del dark.

sabato 12 gennaio 2019

Chris Cornell ‎– Euphoria Morning (1999)

Più per perseguire il ricordo dello scomparso che per il ventennale. Ed anche per rivalutare un esordio solista che all'epoca, in verità, non apprezzai. Era forse, preventivamente, a causa del risentimento; si tendeva ad imputare a CC la responsabilità principale dello split dei Soundgarden, e la generale accessibilità di Euphoria Morning rappresentava, a pensiero di tanti, un colpo di spugna.
Ora, la mente non è fresca, perchè il suicidio di CC resta un dispiacere immutato. Nemmeno lui che era un simbolo degli attributi della scena più baciata dal successo degli anni '90 ce l'ha fatta. Diciamo che il successo commerciale solista l'avrebbe meritato (e voluto, perchè no?), ma il fatto che non arrivò con Euphoria Morning fu un segno del destino. Molti fan dei Soundgarden gli voltarono le spalle, anzichè cercare in esso quel dna cantautoriale che CC aveva sparso nei vari album; uno stampo mutuato da modelli come Fell on black days, Just like suicide o Burden in my hand che aveva ancora tante soluzioni da poter coniare, come le meraviglie di EM: Steel rain in primis, un climax emotivo degno di Limo Wreck, ma anche Moonchild, Follow my way, e l'inaspettato e sorprendente alternative-soul di When I'm down.
Un album generalmente pacato e dai ritmi medio-lenti, che non gli portò fortuna e gli fece cambiare idea sul percorso artistico da seguire (preferisco non dilungarmi sugli Audioslave, che non ho mai sopportato). Nel dolce ricordo di questo grande cantante, con una perla memorabile che impersonava perfettamente il suo stato d'animo del periodo:

giovedì 10 gennaio 2019

Loop – A Gilded Eternity (1990)

L'ultimo album dei Loop è forse il meno ricordato dei tre; solitamente (e io non sono da meno) il loro zenith si identifica in Heaven's end, ma in prospettiva futura resta un caposaldo; rispetto a Fade out la produzione fu più aperta e professionale e vi sono molto affezionato perchè comprai questo cd dalla copertina dorata su di cui restavano impresse le impronte digitali.
A gilded eternity è innanzitutto una questione di ipnosi: sono 10 mantra (anzi 9, perchè Nail will burn è ripetuta due volte...) in forma compiuta, ma esattamente con lo stesso schema ripetuto dall'inizio alla fine. Logico, si trattava di un album di transizione verso altre forme, nonostante la compartecipazione di stili del passato (Arc-Lite Sonar, Breathe into me), che poi non sono neanche la free-form dei Main, semmai più la meta-psichedelia degli Hair & Skin Trading Company. Il meglio sta nelle terre di nessuno come Blood, Shot with a diamond o nelle ultime scorie di energia pura come Afterglow, From centre to wave, Vapour.
E' bello rispolverare certi cd che non ascoltavo da tanti anni ed uscirne con l'opinione rafforzata. E fu un peccato che i Loop si fermarono in un momento di maturità come questo.

martedì 8 gennaio 2019

Burning Witch ‎– Crippled Lucifer (1998)

I primi passi nel professionismo di Stephen O'Malley, all'insegna di un doom-metal super-compatto, duro e puro, non proprio ciò che lasciava immaginare l'aria di allegri cazzoni nella foto sopra. Il giovane chitarrista menava mannaie in uno stile forse non originalissimo ma esemplare, alla guida di un quartetto che in vita rilasciava due lunghi EP ivi raccolti, per poi sciogliersi.
In Crippled Lucifer possiamo sentire i germi in embrione dei Khanate, quando il vocalist enigmaticamente denominato Edgy 59 si inerpicava sulle soluzioni più stridule ed impervie: la particolarità fu che il primo dei due EP fu registrato da Steve Albini, che non sapevo si fosse cimentato in sonorità di questo genere. Al di là di tutte le considerazioni, una testimonianza preziosa, non soltanto per le prodezze che O'Malley si stava preparando a compiere, ma anche per un capitolato doom modello.

domenica 6 gennaio 2019

Mercury Rev ‎– Boces (1993)

Che importanza ricopriva David Baker nell'economia dei primi MR? Che ne sarebbe stato di loro se fosse rimasto in formazione dopo Boces? Sono sicuro che i fans (numerosi) che hanno guadagnato Donahue, Friedman e Grasshopper a partire da fine millennio non si pongono più di tanto questa domanda. Chi invece, come me, resta convinto che i primi due album siano stati piccoli capolavori di moderna psichedelia, si sente legittimato a farlo. Che sia stato giusto poi evolvere verso altre forme, più arty e raffinate, è un altro discorso. L'influenza dei Flaming Lips era evidente soprattutto negli slanci più melodici, come del resto si era evinto dal debutto, ma la follia dirompente del sestetto di Buffalo sapeva travalicare ogni sospetto di mutuazione e rendeva il loro suono una formula speciale, schizoide, gioviale e gioiosamente originale.

venerdì 4 gennaio 2019

ÄÄNIPÄÄ ‎– Through A Pre-Memory (2013)

Esperienza presumibilmente one-shot fra O'Malley e Vainio, con un album da 80 minuti circa, ovvero 4 pezzi per 20. Uscito su Mego ed accolto con relativa freddezza dalla stampa di settore, Through a pre-memory non aggiunge granchè ai curricula artistici dei due, ma dopo 2-3 ascolti rivela tutta la sua forza e soprattutto stabilisce un format difficilmente imitabile e/o replicabile; grazie alla presenza di Alan Dubin, per un quarto d'ora circa riesce a far materializzare l'ultra-spettro Khanate in salsa electro-glitch-dronica, come a dire che O'Malley aveva ancora qualcosa da esprimere in quel glorioso filone abbandonato in fretta e furia qualche anno prima. A prescindere da questo, come negli altri 99 progetti in cui ha fatto parte nella sua vita, il giacca-di-pelle seattleiano riesce ad interagire con l'interlocutore della situazione in maniera efficiente, con il solito gusto della sfida impertinente: Vainio fa il suo ed insieme tirano fuori questo electro-drone-doom apocalittico, spezzettato, angoscioso, con apice nelle partiture d'archi di Mirror of mirror dreams.

mercoledì 2 gennaio 2019

This Kind Of Punishment ‎– In The Same Room / 5 By Four (1993)

Il terzo ed ultimo album dei TKOP, uscito postumo nel 1987 e ristampato in cd nel 1993 dalla Ajax insieme all'EP 5 by Four, che di fatto era stata l'ultima pubblicazione in vita, un'anno dopo il secondo A beard of bees. Lo split dei fratelli Jefferies fu probabilmente dovuto a due correnti che si respingevano: il grandissimo Peter diretto verso forme sempre più incompromissorie vs. Graham, voglioso di maggior respiro melodico ed apertura verso forme leggermente più canoniche, testimoniata da alcune ballad anemiche che cozzano un po' contro i capolavori del disco, cioè On Various days, Don't go, Ivan Fjordovitch, già ricchissimi di quei connotati di alto cantautorato sperimentale in dote a Peter. Il miracolo della comunione d'intenti riusciva soltanto nella splendida Overground in China; se i bros avessero potuto concretizzare un intero disco con questi risultati saremmo a parlare di una band storica, invece ne ricordiamo le gesta considerandoli un work in progress, seppur nobilissimo e progenitore delle prodezze future di Peter.