martedì 31 agosto 2010

Elegi - Varde (2009)

Dopo lo stupendo debutto di Sistereis, il norvegese Jansen lo ha bissato l'anno scorso, e c'è ancora da sobbalzare sulla sedia per gli amanti della sperimentazione dark.
Varde è un lavoro che, rispetto al predecessore, spinge sull'oscurità avvolgente delle 12 pieces, con ottica più ossessiva e raggelante. Se Sistereis sembrava acquatico, Varde è esplorazione notturna e glaciale (tant'è che Jansen si è ispirato alla disavventura polare di un escursionista).
Sono piccoli dettagli che affiorano all'ascolto accurato ed attento di questo secondo atto, che fondamentalmente non rivoluziona quanto espresso nel precedente. La ricerca di Elegi sta nel condensare caverne di dark-ambient con neo-classicismi abbozzati, fra cristalline gocce di piano, bordoni di violoncelli o stridori di violini. Esempio, il capolavoro Uranienborg, il pezzo meno intimidatorio dal fascino luminescente, o le meditazioni astrali di Svanesang e Sovnens skelertak. La desolamte Skrugard, i baratri profondissimi di Drivis, Fandens Bre, le solennità seriose di Angekok, Rak, sembrano comunque essere i motivi guida di questa colonna sonora antartica, buia e depressa.
Jansen non ha cambiato rotta ma stupisce di nuovo per la sua classe nell'appaiare strumenti classici ai tapes, alle trovate da field recordings, all'elettronica spartana e subliminale. Non sembra ancora necessario un cambiamento, visti i risultati, ma stiamo alla finestra per il terzo disco.

domenica 29 agosto 2010

Editors - An end has a start (2007)

Nel momento esatto in cui gli Interpol cedevano il passo con l'ultimo, deludente albo, gli Editors ne rimpiazzavano il posto con prontezza e simbolicamente incarnavano la rivincita inglese della new-new-wave sugli americani, ovvero come "riprendersi" ciò che era stato da loro inventato e adattarlo al presente.
Dosi energiche e songs contagiose sono diventati gli ingredienti di un successo mondiale a presa rapida, e occorre dirlo, meritato. Soltanto dopo ripetuti ascolti, sono riuscito anch'io a farmi prendere profondamente da An end has a start, che all'epoca dell'uscita avevo bocciato. Il primo scoglio da superare è senz'altro la voce di Smith, che sembra esattamente quella di Banks, e allora pensavo: cosa ci serve un'altro imitatore di Ian Curtis?
La somiglianza con gli Interpol è un preconcetto duro da morire, ma una volta superato questo e l'evidente retaggio new-wave non si può resistere ad una decina di pezzi letteralmente "perfetti". Come highlights segnalerei la title-track, The racing rats e Bones con le loro folate ipercinetiche, le decadenze autunnali di When Anger shows, Escape the nets, nonchè le due commoventi ballad finali, Spiders e Well worn hand, che stemperano la grinta spesa in tutto il disco con la meditazione melanconica irrinunciabile per qualsiasi band che si ispiri alla new-wave che conta.
Tratto distintivo della band, oltre al frontman Smith, è il chitarrista solista Urbanowicz che indugia spesso sulle note altissime del legno con effetti penetranti.
Ma è il quadro d'insieme che funziona alla grande, e se brit-pop dev'essere, così sia.

lunedì 23 agosto 2010

Ecstasy of Saint Theresa - Free-D (1994)

Cechi, gli EOST partirono come band indie-chitarrosa in stile MBV nei primissimi nineties per poi svoltare di scatto verso l'elettro-ambient con il presente. Le info in rete sono scarsissime e non è dato di sapere a quale film sia stato attribuito (il sottotitolo è Original Soundtrack), e Free-D è una metamorfosi davvero ai limiti dell'incredibile, per i (scarsi) replicanti che erano di formule già ampiamente testate nel Regno Unito ai tempi.
E' un elettronica quasi silenziosa, con poche increspature: l'estrema calma spaziale dell'apertura di Vacuum Blow è poco più che un tremolio di bleeps. La meraviglia di Surfing on steam (conosciuta ai tempi delle Mental Hours) è senz'altro il punto più alto del disco; intro giocosa con beat sordo, frenata e arpeggio paradisiaco (chitarra privata dei toni alti?) con eterei vocalizzi femminili, per nove minuti di magia. Il ritmo incalzante di Trance between the stars è il loro versante electro-beat alla Aphex Twin, con ancora la voce della Libowitz ad impreziosire lo spettro galattico. Her eyes have it è un tappeto per chitarra e synth, memore del Gone to earth Sylvianiano con acclusa coda robotica.
Ma la calma piatta ritorna con la panoramica Sooper Kosmos e le due tracce finali, Interstellar overdose e la seconda parte di Trance between the stars, che fra concretismi animali (cinguettii vari e canti di gallo in lontananza) e mimetismi appena udibili portano il disco sempre più lontano dalla realtà.
Di certo non un capolavoro del genere (anche se Surfing on steam è davvero molto bella), ma non mi risulta che siano arrivate ondate di gruppi dalla Repubblica Ceca negli ultimi 20 anni. Mi si corregga se sbaglio, ovviamente...

venerdì 20 agosto 2010

Echo & The Bunnymen - The Complete Peel Sessions 1979-1983

Questa non è la raccolta parziale che uscì come bonus disc ad una delle reunion di McCulloch e Sergeant, bensì un valente assemblaggio di tutte e 6-sei-6 le Sessions registrate a Maida Vale durante l'epoca d'oro, ovvero fra il 1979 e il 1983. Ed è quasi superfluo dire che di prezioso colato si tratta, album fotografico della prima sfolgorante fase di una carriera destinata a lasciare il segno, seppur il declino che ne conseguì abbia un po' offuscato la stella. Le versioni sono strumentalmente differenti (nulla di rivoluzionario rispetto agli originali in studio, ma interessanti comunque), il carisma e il fascino decadente tipico degli E&TB risplende incontrastato in tutte le fasi del lustro.
Ferragosto 1979, McCulloch, Sergeant e Pattinson sono ancora privi di batterista, al cui posto c'è la cosiddetta Echo, una beatbox spartanissima che rende il suono un po' ingessato, ma le songs sono già leggenda vivente: Stars are Stars, Villiers Terrace, Read it in books, Bagsy yours, sono leggermente diverse da come andranno a vivere sul primo album.
Maggio 1980: Crocodiles sta per uscire e De Freitas siede al predellino, i risultati sono eclatanti: Pictures on my wall, All that jazz e in anticipo di un anno, Over the wall.Novembre 1980: inarrestabili, rodano costantemente quel capolavoro che uscirà dopo qualche mese, Heaven up here, con un poker d'assi. La title-track è ivi presente in versione scarnificata, già fenomentale crogiuolo di perversione psichedelica. That golden smile (diventerà Show of strenght), Turquoise days, All my colours, mostrano un work in progress di lussureggiante perdizione e valore artistico elevatissimo.
Maggio 1982, da Porcupine la lugubre No hands, la splendida Taking advantage, la circospetta An equation.Giugno e Settembre 1983, siamo nel pieno della stagione barocca di Ocean Rain, il successo è arrivato e il suono è sereno e rilassato, con l'hit sempreverde Killing moon, la sarabanda teatrale Nocturnal me, le raffinatissime digressioni esotiche di My kingdom e Ocean Rain, ed altri.
Non si poteva esattamente gridare allo scandalo commerciale, dal momento che questi E&TB avevano perso quella tensione spasmodica degli esordi ma non erano certo da buttare via.

sabato 14 agosto 2010

Duello Madre - Duello Madre (1973)

Seppur uno dei tanti one-shot dei seventies italiani, il Duello Madre non era poi una manica di novellini, anzi. Zoccheddu e Callero avevano già sparato una cartuccia isolata coi mitici Osage Tribe, e con questo progetto puntarono a muso duro sul jazz con il batterista LoPrevite e il sassofonista Trentin. Ovvero, una concentrazione di musicisti dagli attributi quadri, intenta a sfogare tutte le proprie abilità in 5 temi labirintici e cervellotici.
Detto questo, occorre dire che DM è un disco non proprio facile. I Soft Machine strumentali di Ratledge, Dean e Hopper appaiono una grossa influenza sul quartetto, se non altro perchè Zoccheddu si ritaglia assoli estraniati con la sua chitarra acrobatica e si cimenta spesso alle tastiere, perchè Trentin ha un ruolo assolutamente centrale nel sound e la ritmica folle imperversa.
A parte i break pastorali (i temi iniziali di Aquile Blu e Duello, la fase centrale di Momento) il disco è scuro e nervosissimo, davvero troppo ostico anche per quegli anni. Sarà piaciuto senz'altro agli integralisti del genere, non a sufficienza agli altri estimatori di prog e derivati. Specialmente al confronto delle altre esperienze, precedenti e future, da protagonisti o da session men. Tanto per dire, l'anno successivo Callero risponderà ad una nuova chiamata di Battisti portando con sè LoPrevite alle registrazioni di nientemeno che Anima Latina...

sabato 7 agosto 2010

Drunkdriver - Born pregnant (2008)

Non faccio in tempo a trovare i miei nuovi campioni del noise che succede qualche inconveniente. Appena i detronizzati Pissed Jeans perdono il titolo a causa dell'ultimo disco, molle e sfilacciato, scopro questo power-trio pauroso che sposta un po' più avanti il confine della follia e della sporcizia sonica, realizzando un debutto (sulla ottima Parts Unknown) di rara ferocia ed efferatezza.
Born pregnant è un movimento tellurico di neanche mezz'ora, al cui termine mi è quasi inevitabile far ripartire la scaletta. E' una catarsi atomica che non ammette compromessi nè condizioni, da parte di trio neanche tanto convenzionale. Lo shouter Berdan è un serial killer debosciato che grida senza soste, ma con abilissimo stile ondulatorio. Il batterista Villalobos non sarà un mostro di tecnica ma pesta e martella come un demonio, e sorpresa sorpresa, alla chitarraccia pantagruelica e urticante c'è una ragazza, la Greene, che si fa carico della fonderia di riffs impressionante, rigorosamente atonale of course.
La forza di Born Pregnant sta nelle variazioni, impercettibili ad orecchio disattento (un po' come nel caso del noise concettuale di altri campioni come Hair Police o Air Conditioning, che prendono la causa da un punto di vista sostanzialmente diverso), nelle pause e ripartenze micidiali, nelle micro-trovate che lo rendono una spina nel fianco continua. Ha una forza che non ha nulla da spartire col punk, o con l'hardcore, nè con la stagione dei nineties. E' un mostro figlio di quest'epoca malata e deviata.
Purtroppo i DD si sono sciolti: sul loro blog lo fanno capire con due meste parole relative al secondo disco uscito pochi mesi fa, sadly the last. Villalobos è stato accusato di stupro, che lo sia o no non ha importanza, perchè in ogni caso questa noise-saga eccitante è già terminata.

venerdì 6 agosto 2010

Drown - Hold on to the hollow (1994)

Quartetto losangeleno che debuttò direttamente su major e poi scomparve nel nulla, amaro destino per il valore che dimostrarono. Non avevano nulla da spartire col metal commerciale di quegli anni, esprimevano un disagio soffocante ed avevano una forza spettacolare, erano stati prodotti divinamente ed avevano uno screamer impressionante, Boquette, per potenza e abrasione vocale. Il versante più devastante dei Nine Inch Nails era una influenza tangibile, ma laddove Reznor svariava su più fronti i Drown invece optavano per un approccio di urto frontale, rabbioso e scurissimo. Quindi, chitarroni sludge, ritmiche pestate e il quid degli effetti elettronici a fare un po' tendenza. Gli highlights erano Beautiful, Trasparent, Reflection, Everything, forti come detto prima di una produzione essenziale e diretta.
La cosa curiosa è che l'unica variante di Hold on to the hollow era una perla fenomenale, Longing, per voce e synth. Un'affresco gotico raggelante e tenebroso, saliscendi emozionale, quasi un inaudito connubio fra i Dead Can Dance più freddi e un Henry Rollins agonizzante.

giovedì 5 agosto 2010

Discharge - Why? (1981)

Potenza del p2p; nell'estate del 1993 Rumore pubblicava un fascicoletto intitolato tipo Il Rumore dalla A alla Z e alla lettera D si parlava di questi pionieri hardcore inglesi con una prospettiva di assoluta reverenza. La firma era di Frazzi, che ho sempre guardato con un occhio di sospetto in quanto a mio avviso fin troppo integralista del filone punk e derivati.
La mia curiosità è stata comunque soddisfatta con 17 anni di ritardo, e anche se l'hardcore classico non è propriamente la mia cup of tea occorre tributare ai Discharge una funzione anticipatrice non indifferente. La lezione hard-punk dei Motorhead veniva amplificata all'ennesima potenza, dissanguata di qualsiasi residuo blues, cannibalizzata e iper-velocizzata. A parte qualche breve assolo di chitarra che fa un po' metallo, Why è una grezzissima esplosione di schegge impazzite, e non nascondo che l'ascolto mi diverte parecchio.
Con le bonus tracks i titoli sono diventati 24, tutti sotto i due minuti di durata. E' impossibile ricordare un pezzo piuttosto che un altro per l'egualità diffusa, e le tematiche erano fortemente social-politicizzate. L'ascolto di questo solco bruciante mi diverte per l'effetto catartico che ha, per le mitragliate di batteria e il celebre D-beat, per lo stile del vocalist e il suo effetto vomitante di terminare quasi tutti i versi con quel bleaaaah, che fa veramente molto "sporco e brutto", definizione fin troppo ovvia per un disco che non ha bisogno di tante causali...

mercoledì 4 agosto 2010

Dirty Three - Whatever you love, you are (2000)

Fra liquefazioni desertiche e ribellione cameristica, i D3 pervennero al loro punto più alto nel 2000 con questo 6-trax da incanto vero e proprio. Nonostante la povertà di mezzi che non prevede altro che i 3-elementi-3, Whatever giganteggia per lo stile che è sì ambizioso, ma privo di mediazioni accademiche di alcun appartenenza.
Ellis è il conduttore; c'è qualche sovraincisione del suo rigoglioso violino, ma sono dubs puramente funzionali. Ha avuto il grande merito di sapersi fare largo nell'ambiente indie-rock per lo sdoganamento definitivo di uno strumento ritenuto anacronistico, obsoleto, mentre questo eccellente esecutore ha dimostrato che nelle mani giuste può dare le stesse sensazioni, se non di più, degli strumenti canonici. Alle sue spalle il chitarrista Turner e il batterista White, meramente ritmici e discreti. Il sentore finisce per essere antico nel senso più nobile del termine, e le composizioni sono il non-plus-ultra della formula: la commovente Some summers they drop like flies apre procurando subito brividi sulla schiena. Barocchismi westernati si manifestano con I've really should have gone out tonight, prima che arrivi la fase melanconica in cui i D3 eccellono, sempre con grande savoir-faire e grezza eleganza. Allucinazioni desertiche con la suite I offered it up to the stars, in un crescendo inarrestabile, un po' la Heroin del post-rock strumentale. Tutte tematiche che vengono sviscerate in formule diverse anche nella seconda tripletta, con l'aggiunta di qualche spruzzo di jazz in Stellar, o perlomeno una concetto di materia jazz che si possa imparentare con la sopraffina essenza di bastardi che hanno i D3.
Ovviamente, dotati anche di gloria.

martedì 3 agosto 2010

Dente - L'amore non è bello (2009)

Mi ci sono voluti svariati ascolti per cercare di capire per quale motivo si fa un gran parlare di Peveri, e non pago ho sentito anche gli altri due dischi che ha fatto. Alla prima botta, tempo fa, avevo trovato L'amore non è bello insopportabile e terribilmente ruffiano, archiviandolo velocemente.
Oggi, il mio giudizio è un filo migliorato, ma la sostanza non cambia; non trovo molte differenze con i classici cantautori dell'area commerciale italiana. Sì, c'è un approccio naif e piacevolmente ironico, cosa che senz'altro gli fa guadagnare immediata simpatia, ma i testi non sono un granchè di memorabile (carina la storiella di Quel mazzolino e poco altro).
A livello strumentale gli arrangiamenti sono squisitamente vintage, basati su una linea semplice di chitarra acustica e qualche coloritura di fiati, ed è un punto a favore. E' un dischetto senza pretese, e lo spirito di Dente va preso per come è; un cantautore leggero e disincantato, che cade di tanto in tanto in qualche banalità ma resta coerente col proprio approccio.
Ciò che non capisco proprio è l'accostamento che è stato fatto in pratica da tutte le recensioni, cioè Battisti. Ok, La presunta santità di Irene che apre il disco può aver fuorviato parecchio, essendo un tentativo piuttosto maldestro di creare un impossibile medley fra Il mio canto libero e Abbracciala abbracciali abbracciati, o giù di lì.
Auguro al parmigiano di crescere e sapersi reinventare, di progredire il proprio stile. E di non vedersi più appioppare paragoni completamente fuori luogo.

lunedì 2 agosto 2010

Death In June - Rose clouds of olocaust (1995)

Più che apocalittico questo folk mi sembra pastorale, orchestrale, persino bucolico. A parte che è un aggettivo che a mio parere è sempre stato più adatto al maturo Current 93, che ha collaborato tantissimo con il Pearce (ed è presente anche in questo albo).
Che era partito ad inizio '80 alla testa di un trio electro-dark e alla fine si è ritrovato come menestrello esoterico, dai mezzi scarni ma dalle ottime idee produttive. Rose clouds of holocaust non è generalmente indicato come il suo disco migliore, anzi. Ciò che lo rende estremamente gradevole non è la qualità delle songs in sè, abbastanza metodiche e reiterate nei propri schemi non troppo fantasiosi, nè la voce monotona e bassa del Pearce. Ciò che piace tanto è la produzione, lo spiegamento di massa di strumenti al servizio delle sue arie che lo rende praticamente un folk orchestrale. Pertanto, le atmosfere sono ancestrali, fiabesche, quasi progressive nel suo essere baroccheggiante, e di ottimo gusto.
Al punto da far passare in secondo piano una collezione di songs che di certo non è fenomenale.

domenica 1 agosto 2010

Dead Meadow - Feathers (2005)

Stilare un'ipotetica classifica dei miei amatissimi DM risulta essere impresa improba, ma uehi, se proprio devo, Feathers svetta sugli altri di un pelo. Per l'occasione il power-trio si era allargato con l'innesto del chitarrista Shane, forse per lasciare più libertà alla scintillante Telecaster di Simon. Durerà solo lo spazio di questo disco, ma diede ottimi frutti; già la splendida apertura di Let's jump in visualizza l'incrocio perfetto delle sei corde per dar forma ad un panorama di bellezza perversa. Such hawks such hounds spinge su forme di psichedelia dai ritmi dispari dal sapore vagamente '60s.
E' una collection più atmosferica dei suoi precedenti, Feathers, che punta alla creazione di paesaggi desertici e ventosi, in linea con la loro produzione e sempre con la classe vintagistica di Simon e Kille. E' una chicca dietro l'altra: Get up on down, Heaven, Eyeless gaze, sono mix perfetti di riff sanguigni e languori psichedelici in fusione. I toni si affievoliscono con l'acustica Stacy's song, la trasognata Let it all pass, per poi finire in rovente jam con un live della vecchia Sleepy silver door, un quarto d'ora fra space-rock deragliante e pause ambientali di grandissima suggestione.
Il pezzo forte della raccolta però è la magnifica At her open door, dalla melodia a presa efficace ed un finale ultra-movimentato, con le due chitarre a fare faville.
Quelli che.... vintage è bello.