lunedì 29 novembre 2010

Jesus And Mary Chain - Psychocandy (1985)

Scopiazzando in quà e in là dal passato (Velvet Undrerground su tutti), i Jesus And Mary Chain guadagnarono la gloria con un intuizione che nessuno ai tempi aveva ancora elaborato: affogare innocui motivetti in quintalate di fuzz e distorsioni.
A dir la verità, Psycho candy vive un dualismo che alla lunga rende il disco godevolissimo anche dopo un quarto di secolo; le ballad quiete e zuccherose (Just like honey, Cut dead, Some candy talking, Sowing seeds) semi-acustiche e dirette eredi del jingle-jangle anni '60 evidenziano comunque una buona scrittura pop da parte dei fratelli Reid. Ma ciò che rese famosi i JAMC erano per l'appunto gli ispidi e fischianti treni di The living end, In a hole, Never understand, Inside me (i migliori), indiavolati manuali di punk-pop altamente infiammabile.
Un ambito che poi finiranno per abbandonare progressivamente verso un easy listening-indie di maniera, mentre intanto la legione di complessi a loro ispirati inizieranno ad accalcarsi sullo scenario shoegaze di fine '80 inglese.

domenica 28 novembre 2010

Jesu - Jesu (2005)

Il grande ritorno di Broadrick con una nuova creatura, in grado di salire un altro scalino di innovazione dopo le imprese dei Godflesh negli anni '90.
La trovata di Jesu, che non esito a definire geniale, sta nel concetto: stessi chitarroni, stessa pesantezza ritmica, ma con un apertura ad atmosfere di grande luce e respiro, e novità assoluta, le linee vocali. Non più growling feroce, bensì canto modulato a voce tenue, spesso raddoppiato, quasi angelico ed estasiato.
Come definirlo: dream-doom, shoegaze-metal, indie-industrial? Non importa, basti prendere i pezzi migliori di Jesu per capire e farsi avvolgere all'ascolto. Tired of me, Walk on water, Sun day, Friends are evil, sono elegie catramose ed evocative, in cui fanno comparse decisive anche tastiere ed organi aciduli ad ispessire il clima da sogno generale.
Di maggior cupezza, ma non per questo inferiori, ci sono anche i cingolati luminescenti di Your path to divinity, We all faulter e Guardian angel. L'unico pezzo in stile Godflesh anche col canto, Man/Woman, finisce per essere quasi disturbante.
Un marchio spiazzante, quello dei Jesu, che si ripeterà con grandi risultati anche sul successivo Conqueror.
Un panzer da estasi.

venerdì 26 novembre 2010

Jessamine - The Long Arm of Coincidence (1996)

Band dell'Ohio protagonista della prima gloriosa stagione della Kranky, nella seconda metà degli anni '90. Questo secondo album propone una psichedelia abbastanza particolare in quanto gli sbraghi acidi di chitarra e organo vengono ancorati da una sezione ritmica elastica e granitica, in particolare il basso pesante di Smithson, mixato notevolmente alto (forse anche troppo).
Il canovaccio portante dei Jessamine sta in lunghe improvvisazioni in cui il quartetto si compiace un po' troppo delle proprie capacità, spesso strumentali (le parti vocali erano anche evitabili, vista la poca consistenza) e dilatati all'impossibile. Le frasi di organo possono riportare a certe formazioni dei tardi '60, quando non ai Pink Floyd più oscuri. La ritmica saltellante che spesso sale alla ribalta fa venire in mente i Can.
Occorre riconoscere ai Jessamine una certa competenza in materia lisergica, oltre che meramente di tecnica, ma Long Arm of coincidence alla lunga finisce per stancare un po', denotando un autoindulgenza paurosa.

mercoledì 24 novembre 2010

Peter Jefferies & Jono Lonie - At swim two birds (1987)

Si sa, da cosa nasce cosa e così la scusa è buona per farne un altro di Jefferies, oltretutto questo non fu proprio solista ma realizzato con tal dei tali Jono Lonie, chitarrista / violinista del tutto sconosciuto (immagino neozelandese anch'egli), che in rete viene menzionato solo esclusivamente in relazione a questo magnifico disco realizzato in pochissime copie nel 1987, appena alla fine dei This Kind Of Punishment.
At swim two birds nasce da un netto contrasto: la forza impressionista e sovversiva di Jefferies contro il surreale onirismo di Lonie. E il risultato finale è un mix variegatissimo di entrambi, con un equilibrio che ha del miracoloso. Quando predomina il primo, i toni sono grevi e drammatici (il martellamento pianistico di Thief with the silver, l'ipercinetico schizoide di Interalia). Ma sommando le parti, appare chiaro che è Lonie il vero conduttore del filo: i riffs sanguigni e i vagiti deformati di The standing stone, il drone siderale con violino della title-track, i loop sinistri di Tarantella, la psichedelia deforme di Where the flies sleep, nonchè la serenità della magica Aerial, mostrano tutte un vero e proprio visionario dedito a forme atipiche personalissime, ad un raggio pressochè illimitato.
Un vero delitto pertanto, che si sia trattato di un episodio una tantum, visti anche gli apici che i due raggiungono quando trovano un punto d'incontro ideale. Piano (One) si apre con una frase pianistica di Jefferies a cui si aggiunge prima un languido violino, poi basso e chitarra effettata, per una piece di eleganza e raffinatezza assolute. Per non parlare della Piano (Two) che chiude il disco con le sue atmosfere neo-classicheggianti da camera ed uno spartito struggente, una sigla finale da restarci incantati.
Già Jefferies ha fatto i salti mortali per farsi conoscere ad una ristretta cerchia di appassionati nel mondo, immagino che questo Lonie sia un musicista rimasto confinato in NZ, a sprecare il suo talento per pochissimi isolani. Ma in fondo è anche questo il bello della musica: che le pepite vanno cercate con cura e senza fretta. Sempre.

martedì 23 novembre 2010

Peter Jefferies - Substatic (1998)

E' sempre bello scoprire così, quasi per caso, i geni incompresi, gli assi misconosciuti. Mi succede raramente, tipo una o due volte all'anno, ed è una soddisfazione. L'ultima della serie è questo neo-zelandese che fu protagonista e prime-mover della prima scena nazionale all'inizio degli anni '80 (Clean, Tall Dwarfs), con i Nocturnal Projections prima e This Kind of Punishment poi, sempre in compagnia del fratello, fino a quando, nel 1990 si mise in proprio a tutti gli effetti.
Il bello di Jefferies sta nella crescita artistica, perchè è uno di quei casi rarissimi in cui la qualità del prodotto aumenta col passare degli anni. La cosa più clamorosa, poi, è stata che ad un certo punto, dopo l'ultimo disco del 2001, si è ritirato dalla scena discografica senza dire niente a nessuno. Ed oggi vive ancora nella sua Nuova Zelanda, dove di lavoro fa il maestro di batteria.
Perchè è come batterista che nasce Jefferies, ma è come pianista e compositore che sviluppa la sua possente cifra stilistica.
Subatatic è stato un punto di ulteriore rottura nel suo vorticoso cammino degli anni '90 verso musiche molto poco catalogabili, fortunatamente sorretto dalla benefica label texana Trance Syndicate. Al contrario dei precedenti, in cui si salvava ancora a malapena una vaga forma canzone e comparivano anche delle ottime parti cantate, questo è composto da 5 strumentali disorienta(n)ti ad alto tasso sperimentale.
Minimalismo, post-wave, avanguardia, cacofonia, ambient e soliloquio pianistico: è possibile condensare tutto ciò in un solo pezzo? Gli 8 minuti di Index sono subito un pugno nel cervello. L'ossessione opprimente di Signal porta quasi a stati di allucinazione che si annullano sul surreale panorama di Damage, un drone post-nucleare agghiacciante.
Ritmica martellante e chitarre acuminate segnano il risveglio improvviso di Kitty Loop, che spiana la strada allo splendore di Three movements, che in 16 minuti recupera una sanità mentale che sembrava irrimediabilmente persa. Ed infatti Jefferies dimostrava che senza smanettare troppo, con un impianto e sonorità più convenzionali, restava un autore di razza, di quelli che fanno la differenza. Prima fase, con l'immancabile piano a svisare sopra un giro di basso circolare, flauti e synth ad ingrossare. Seconda fase, assolo di chitarra su progressione epicheggiante. Terza ed ultima, lento sfumare del motivo guida sopra clangori di dubbia provenienza, quasi a riportarci al terrorismo sonoro della prima parte di Substatic.Tutti i suoi dischi solisti sono stati molto personali, ma questo ha rappresentato uno zenith artistico in tutti i sensi. Davvero geniale, quest'uomo che, come ho letto da qualche parte, veniva definito come colui che suona la batteria come il pianoforte e il pianoforte come la batteria...

Arab Strap - Dieci anni di turbolenze

La monografia fiume che ho scritto per Sunday Morning il neo-blog collettivo è on-line

domenica 21 novembre 2010

Bachi Da Pietra + Massimo Volume - Live in Bronson 20-11-2010













Ed ecco quello che ritengo uno dei connazionali più originali dell'ultimo quinquennio. Una piacevole conferma, se non sorpresa (era la prima volta in cui li vedevo). C'è da dire che la stragrande maggioranza della gente si era recata al Bronson per vedere i Massimo Volume, così ho potuto visionare i Bachi con la massima tranquillità (a parte il solito, fastidiosissimo casino infernale che fanno al bar, una peste bubbonica dura a morire) e subito sotto il palco.














Innanzitutto, l'impianto e la tecnica. Dorella ha un set più che essenziale. Un rullante, un timpano che utilizza come cassa e un piatto su cui indugia molto raramente, quasi sempre spazzole nelle mani. Il suo è un battito primordiale ed elementare, ma il Bachi-sound non esisterebbe con un batterista convenzionale, senza la sabbia delle sue pelli, senza le basse vibrazioni che mi si fermavano alla gola.
Succi è un fenomeno. Risoluto, determinato e voglioso di coinvolgere quei pochi attenti con sorriso sornione. La sua tecnica chitarristica è spettacolare: senza plettro, elabora una specie di tapping istintivo, sul ponte della Stratocaster, a toccare armonici nevrotici e note strozzate.








Gran parte dei (soli) 45 minuti è concentrata su Quarzo, il nuovo disco, che non ho ancora ascoltato ma si rivela più aggressivo dei tre precedenti. Ed infatti i primi pezzi sono veloci ed abrasivi, ma non è una normalizzazione, anzi. Ciò a cui ci hanno abituato, cioè le viscere lente e viscose, le litanie nebbiose sussurrate con occhi e bocca semichiusi, il lavoro ai fianchi resta un trademark non marcabile anche in caso di maggior velocità e chiarezza. E Succi si rivela anche un grande vocalist, uno shouter trascinante. Questa è stata un altra, piacevole sorpresa. Imprescindibili.















Poco dopo ecco comparire l'attrazione principale della serata. Clementi è rasato a zero e dirà sì e no due parole in tutto il concerto, che comprenderà ben due bis.
Devo ammettere di non possedere molta competenza riguardo ai Massimo Volume. Neppure ai tempi in cui venivano esaltati dalla stampa li seguivo con attenzione, e paradossalmente, il loro disco che apprezzo di più è quello all'unanimità ritenuto il più debole (Club Privè). Anche nel loro caso non ho fatto in tempo a sentire il nuovo albo, ma mi pare che anche qui sia stato oggetto di gran parte del set.












E che dire? Che non è cambiato molto rispetto alla seconda metà degli anni '90, anzi a pensarci bene è rimasto tutto uguale. I racconti di Clementi, le ritmiche della Burattini, gli arpeggi di Sommacal, l'unica novità è il nuovo chitarrista Pilia che si è rivelato l'elemento di gran lunga più interessante, un ottimo ricercatore di suoni.
A mio avviso il loro limite maggiore sta nell'eccessiva linearità di tutto. Le esecuzioni sono impeccabili, ogni cosa sta al suo posto. Speravo in qualche modo che la reunion avesse qualcosa di nuovo da dire, ma evidentemente sono io che non riesco ad entrare nel loro mondo....

martedì 16 novembre 2010

Japandroids - Post-nothing (2009)

Attenzione che potrebbe diventare una nuova tendenza, sulla scia dei bravissimi No Age, quella dei duo chitarra-batteria che fanno un indie-punk-pop-noise che non rivoluzionerà certo la storia della musica, ma ha energia e frenesia fresca da vendere.
Questi vengono dal Canada e debuttano con questo (gran bel titolo!) crogiuolo di granitici anthems dalle melodie catchy annegate in un mare di fuzz, tutte pressochè uguali ma apprezzabili per gli scarti, i giri azzeccatissimi, le ruvidità gioviali. Poi è chiaro che i No Age hanno molte più soluzioni e ampiezza di visuale, ma ciò non esclude che i Japandroids non possano evolvere verso qualcosa di più elaborato senza perdere quella saltellante epidermicità che rende Post-nothing un dischetto piacevole.
Attendiamo fiduciosi.

domenica 14 novembre 2010

Jackie-O Motherfucker - Fig. 5 (1999)

Inizia con uno stralcio minaccioso di elettronica primitiva, Analogue Skillet, questa prima uscita su Road Cone del collettivo di Greenwood. Approdando ad un etichetta seria, così, poterono iniziare a farsi sentire perlomeno anche in Europa, dopo le prime uscite alquanto carbonare. All'epoca il co-fondatore fiatista Bucket era ancora parte integrante del nucleo, ma il suo contributo era già minoritario o comunque allo stesso livello di tutti gli altri.
Greenwood coordinava così un ensemble anarchico che spaziava su tanti fronti. Il pezzo no.2, Native Einstein, è un quieto delirio organizzato di psichedelia fra squittii di clarino, clangori chitarristici sparsi, violini come seghe e scampanellii tenui.
Ci si inizia a dare una regolata con la più convenzionale Your cells are in motion, sorta di country-indianeggiante dagli umori volubili. A quel punto sale in cattedra la Owens con Go down old Hannah, un coro stile-traditional dolente e ripetitivo, e la pigrissima cantilena di Beautiful September. Bucket si ritaglia uno spazio importante nel marasma libertino di Amazing grace.Nel finale, fra i brevi quadretti surrealisti di Chiapas e Madame Curie, trova posto la gigantesca dilatazione di Michigan Avenue Social Club, che si protrae per ben 25 minuti in un impro totale di psichedelia-tribal-jazzata. Si poteva troncare qualche passaggio o farla partire dopo o farla finire prima, ma il bello dei JOMF sta proprio qui; il suono di una comune completamente fuori dal tempo, guidata da un leader democratico che tende quasi ad eclissarsi una volta dettata la linea al fine di far risaltare i compari del momento. Il suono di un allucinazione collettiva fresca e positiva.
Good trips.

venerdì 12 novembre 2010

Jack Or Jive - Kagura (Live in Kyoto 1994)

Venni introdotto al duo nipponico dal famigerato conduttore di Tedio Domenicale, che annunciando Snow covered landscape proprio da questo disco li bollò come "gruppo giapponese dalla vocalist soave...e anche buona). Gusti estetici a parte, i JOJ sono un entità personale e difficilmente catalogabile, e che ha trovato un maggiore riconoscimento in Europa piuttosto che in terra natale. Questo in virtù di un sentore onirico-gotico che permea le loro elucubrazioni, sempre però filtrato dal dna del sol levante, a creare un mix indefinibile e personalissimo.
La cantante Chako e il tastierista Makoto sono coppia fissa anche nella vita e nel loro sito questo live viene definito fortunato, in quanto non ne era in previsione l'uscita, ma la performance evidentemente fu reputata degna di essere pubblicata. Ed in effetti Kagura è di una bellezza sconvolgente, trasporta in una dimensione sconosciuta fatta di arie brumose post-classicheggianti e ipnosi vocali. Chako, infatti, gorgheggia in un modo mai sentito: il timbro è gentile ma imponente, il feeling generato conta molto di più dell'esecuzione meramente tecnica (e andiamo, non sono stonature, e anche se lo fossero? L'effetto di fondo ne risente? Per me ci guadagna!).
I pezzi sono 4 e durano più di 10 minuti l'uno. Snow covered landscape è un rituale solenne in cui i drones di synth si incrociano con le frasi di organo. Morning dew and the crescent, una passeggiata lunare melanconica dalla gentilezza commovente, ma con un finale tetro di dark-ambient ed esperimenti vocali orrorifici. Sea of flames è un bordone serioso di drammaticità, Woman in black una sospensione metafisica da polo nord.
Tutto ovviamente senza ritmi, tutto galleggia nella foschia; nonostante le ambientazioni siano perlopiù cupe, ritengo che il maggior pregio dei JOJ sia l'eleganza sonora tutta orientale che irradia queste generazioni d'atmosfera.
Magia pura.

mercoledì 10 novembre 2010

Isis - Oceanic (2002)

La preparazione al capolavoro.
Oceanic, metallo in progressione verso nuove coordinate. Disco con cui si giocarono una fetta di fans puri e duri esaltati dalle eruzioni di Celestial, ma diretti a guadagnarne dei nuovi, oltre che sconvolgere la critica a tutto campo.
Misero in campo un formidabile percorso che continuava la scia lasciata dei loro padri putativi, Godflesh e Neurosis, ma aprendo i loro castelli granitici a fasi meditative di cristallina bellezza: prendesi ad esempio la splendida Carry, con una fase centrale da brividi, un po' il manifesto del disco.
Uno schema che si ripeterà più o meno regolarmente in tutti i pezzi, tant'è che il trittico iniziale è linearmente imperniato su questa ambivalenza; The beginning and the end denota una ferocia stemperata dalla melanconia dei fraseggi puliti. La durissima The other è godfleshiana fino al midollo, esclusa la ritmica. Le ossessioni di False light sono ai limiti di un minimalismo monotonico, con Turner che si sgola furioso e amaro.
Ma è un disco che cresce, inesorabile, nel finale; il barocco strumentale di Maritime è un intermezzo del tutto atipico. La stratificazione di Weight, con voci femminili incantevoli. Gli 8 minuti e mezzo di From sinking, sublimazione totale dei sensi sprigionati dal solco insieme alla chiusura minacciosa di Hym, che porta al parossismo l'onda innalzata dai lenti tsunami.
Sebbene le chitarre abbiano il dominio totale, anche le ritmiche hanno un importanza capitale nel loro scandire medio-lente, a volte dispari e spettatrici inermi del disastro oceanico che gli Isis hanno concepito con questo sforzo pindarico.

martedì 9 novembre 2010

Illusion Of Safety - Water seeks its own level (1994)

Progetto di sperimentazione sonora che di recente ha celebrato il quarto di secolo di età, praticamente sempre nella persona del chicagoano Burke.
Eppure, per circa un lustro, ha fatto parte della coalizione anche un poco più che adolescente Jim O'Rourke; questo fu l'ultimo disco a comprendere la collaborazione del talentuoso, che nel frattempo aveva riscoperto la chitarra "tradizionale", una forma di suoni leggermente più umana e già avviato i Gastr Del Sol al fianco di Grubbs. Molti anni dopo, O'Rourke rinnegherà totalmente quegli anni di folli sperimentazioni sia da solista che nell'ambito di altri progetti, arrivando persino a degradare umanamente le persone con cui aveva iniziato i propri passi discografici.
Water mi ricorda molto certi collage rumoristici di Nurse With Wound, ma anche in sonorità così difficili da maneggiare si possono notare differenze negli approcci: laddove Stapleton si è sempre distinto per un surrealismo tipicamente british anche nei lavori più temibili (Homotopy to Marie è il primo titolo che mi sovviene) che gli ha permesso di diventare voce fondante, gli Illusion Of Safety affondano duro con seriosità costante e induzione al timore. A parte l'unico motivo ritmato e vagamente musicale, Dissenting Voices, il disco è un corridoio buio e gelido, in gran parte dronico e solo minimamente graffiato da sprazzi di power electonics, sirene, fischi.
Diciamo nella sufficenza generica dell'industrial e niente più.

lunedì 8 novembre 2010

If These Trees Could Talk - If These Trees Could Talk (2006)

Spuntano come funghi. Hanno nomi lunghi, evocativi e talvolta persino pomposi. Si potrebbero riconoscere anche dalle foto, in cui i membri appaiono distanti, sfuggenti, ritratti spesso in ambienti naturistici, con gli sguardi assorti e lontani dall'obiettivo della camera.
Ma basta, mi sono stufato del tag post-rock, è orribilmente inadeguato. Nel 1995 aveva un senso per i capostipiti, come i Tortoise, ma già nel 1997 con la bomba-Mogwai era limitante. Da allora non si è trovato un altro termine per individuare i gruppi strumentali che avessero fantasia e libertà da vendere, nemmeno per i 4-5 giganti che hanno compiuto miracoli nel decennio zero.
E nella seconda metà di esso sono arrivati i replicanti, la seconda generazione. E per la legge della probabilità, nel mazzo dei funghi spunta qualche asso. Così si rende necessaria una definizione alternativa, ed ho deciso di coniare il mio personale tag epic-instru nella comodità di inquadrare queste band, per la stragrande maggioranza americane, che armate di immaginazione e buona tecnica si inerpicano in questi sentieri difficili, già abbondantemente battuti ma comunque ancora da sfruttare, per chi ne abbia le capacità.
Questi ohioani rispettano fedelmente i comandamenti soprariportati. Ma se tutti fossero a questo livello, ci sarebbe da fare festa ogni giorno. Con questo debutto auto-prodotto i Trees hanno pescato in qua e in là fra i giganti, sintetizzando in un concept di 27 minuti cinque pezzi legati fra di loro in cui i rimandi, i voli e l'immaginazione salgono alla ribalta.
Si immagini una versione decisamente muscolare degli Explosions, e ancora non si renderà giustizia alla personalità del quintetto. A partire dall'iniziale meraviglia di Malabar front, i Trees espongono le loro doti con compiacenza: i lavori di cesello delle tre chitarre, sia sull'altissimo pulito che sul distorto acidulo. Il batterista Kelly, potente e risolutivo. Le trame avvincenti e le progressioni da brividi scorrono senza soste nell'effluvio della suite; Smoke stacks fa dell'usuratissimo standard quiet/loud un utilizzo intelligente. The friskalating dusklight pastoralizza prima, spinge forte poi sul gas di più azzeccatissime sequenze di accordi.
La ripresa del tema iniziale, in Signal Tree, non lascia tregua al susseguirsi dell'inseguimento. Sono dei folli troppo lucidi per essere credibili. La chiusura del cerchio si ottiene con The death of paradigm, commosso fragore di innocenze che non si vogliono ancora lasciare alle spalle. Sento a tratti quella voglia di tornare alla prima giovinezza che mi invase 7 anni fa, ai tempi di The earth is not a cold dead place. E ho detto tutto.
Un disco da divorare.

domenica 7 novembre 2010

Jeff Martin (Idaho) - Days Soundtrack (2004)

Ancora Martin. Da uno dei suoi 3 siti, la colonna sonora di una serie TV americana intitolata Days, immagino non molto fortunata in quanto non ci fu un seguito alla prima serie di episodi. Come testimonia il piccolo spazio ad essa dedicata, la prima esperienza come scorer. Dal momento che i suoi siti sono alquanto criptici e confusionari (ma credo sia più una scelta artistica che altro), non è dato di sapere se ne ha fatte altre, ma ritengo sia una buona occupazione per Martin, se non altro per sopravvivere e lavorare più tranquillamente alla sua produzione Idaho.
Trattasi di 36 frammenti di durata fra i 30 secondi e il minuto e mezzo, quasi esclusivamente strumentali, c'è qualche vocalizzo fonetico in qua e in là a guarnire con gradevolezza. Il filone è quello del cantautorato semi-digitale di Lone Gunman (nel mucchio c'è persino l'intro di Orange Cliffs), e anche se la funzionalità alle immagini è rilevante, appare chiaro che si tratta di un prodotto ispirato e preparato con molta cura, con tanti di quegli spunti che si arriva persino a recriminare che siano stati sacrificati in qualità di bozzetti, vignette didascaliche ad uso del telefilm.
Anche se adatto esclusivamente ai consumatori onnivori di Martin, Days risulta piacevolissimo e ricco di atmosfera.

venerdì 5 novembre 2010

Idaho - White Session, Paris 20-02-2008

Ormai non ci credo più, ma le ultime news di Jeff Martin danno in uscita il disco nuovo di Idaho a marzo. Così saranno quasi 6 anni di hiatus, ovvero come prendersela comoda, chè non voglio immaginare che sia stata crisi compositivo/creativa...Insomma, non sembra essersi sforzato più di tanto. Nell'attesa quindi del successore di Lone gunman ci si può anche accontentare di questa session (credo radiofonica, ci sono anche un paio di video disponibili e sembra in effetti di essere in uno studio del genere) registrata a Parigi nel febbraio 2008, durante il tour europeo in cui Martin viene accompagnato da una sezione ritmica.
Deve avere un rapporto particolare con la Francia, il nostro. In questa decina di pezzi (cordialmente passatami da un amico d'oltralpe, grazie Tony!) il trio si concentra molto sul periodo 1998-2000. Viene da chiedersi pertanto se Martin abbia smaltito la sbornia elettronica dell'ultimo disco in favore di un sound più caldo ed umano, vista anche l'obiettiva qualità dei due comprimari e la totale assenza di pezzi da esso.
Tendenza confermata, peraltro, dalla presenza di un gustoso inedito, in stile pianistico e trasognato come da manuale di rito. Un pezzo che potrebbe confermare la nuova tendenza oppure limitarsi a restare un classico stage-only come la sempre presente e sempre splendida Lately. Prevalgono i pezzi con la 4-string guitar, con le riprese quasi insperate di Jump up, Get you back, ed una straniante versione iper-velocizzata di Social Studies. Non si disdegnano neanche i classiconi di 20 years on e To be the one. Unico neo del set, un Martin non eccessivamente nella solita forma vocale, per non dire un po' giù di tono.
A mò di bonus track, il buon Tony mi allega anche un paio di estratti lo-fi da un concerto sempre francese, con Just might run ed un altro ottimo inedito chitarristico, che mi fa ben sperare per la prossima primavera.

mercoledì 3 novembre 2010

Balmorhea - Live in Bronson, 30-10-2010











Questo è il bello dei concerti (sottolineando fino alla noia la grande stagione che sta realizzando il Bronson, un programma ricchissimo e per tutti i gusti); vai a vedere un gruppo di cui hai ascoltato tutti i dischi, che ti crea un bel sottofondo, che è elegante e raffinato e ha delle belle soluzioni, ma in fondo non ti ha fatto impazzire nè fatto proprio venire quella voglia matta di tirarlo fuori in un qualsiasi momento della giornata. Lo vai a vedere e ne resti così entusiasta che ti cambia la considerazione generale di esso. Così mi è successo con i texani, sabato sera.








Arriviamo e troviamo uno stuolo di sedie sistemate per l'occasione, sotto il palco. Una buona idea da parte degli organizzatori, alla luce delle caratteristiche in scena. Il sestetto entra quasi in punta di piedi e si sistema. I due leader sono dei classici nerds all'americana; Lowe ha una formazione classica preparatissima ed è un pianista coi controfiocchi, il suo aspetto vivace e sbarazzino lo fa sembrare come uscito direttamente dalla cover del primo dei Feelies...Muller invece sembra un professore universitario, ha un aria molto più compassata e si divide fra chitarre e basso. Il resto del gruppo però non scherza per niente. L'elemento più interessante per me si rivelerà il violoncellista Rieck, col suo ornare le composizioni magistralmente ma soprattutto in grado di tirare fuori dei suoni inusuali per il suo strumento. Poi c'è una giovane violinista di colore e la sezione ritmica di batteria e contrabbasso, discreta e funzionale.









Fin dall'inizio si capisce che la preparazione e la coesione dell'ensemble sono impressionanti, ma non solo. Viene fuori alla grande anche la pregiata qualità del songwriting, che sa svolazzare fra tenui malinconie e sinfonie festaiole passando attraverso tutto lo spettro che ci corre dentro. Non ci sono stravolgimenti rispetto alle versioni in studio, a parte quando Lowe si mette a vocalizzare (denotando quasi altrettanta bravura) foneticamente in qualche pezzo e in occasione del penultimo, in cui tutti e sei inscenano un coro generale curatissimo di grande effetto.









L'entusiasmo del pubblico è ampiamente manifestato e i Balmorhea sembrano quasi commossi dalla contentezza di ricevere effluvi di applausi al termine di ogni esecuzione. Piacciono per l'atteggiamento umile e amichevole, quindi.
Unico neo della serata, la parte di presenti, principalmente avventori del bar, che se ne sbattono altamente della concentrazione e del silenzio degli interessati facendo un casino bestiale. Ci sarebbe voluta una paratia anti-rumore contro di essi.
I video non sono neanche pessimi, dato che stavo in piedi dietro la gente seduta e l'acustica del sound escludeva bassi pesanti. Li condivido tutti e 4.




I Love You But I've Chosen Darkness - Fear Is On Our Side (2006)

Ecco un clamoroso caso di getto di maschera, che può anche sembrare modaiolo ma trova nel suo risultato finale un degno coronamento.
Goyer e McNeely, fra i fondatori dei Windsor For The Derby, e l'ex-bassista dei Paul Newman Robert, alle prese con uno spudorato e curatissimo dark-wave. Ovvero due fra i gruppi texani che negli anni '90 hanno aderito al filone post-rock. Se i secondi sono praticamente dissolti, i WFTD continuano a ciccare un disco dietro l'altro in modo inesorabile, i 5 non trovano meglio da fare che varare un progetto revivalistico proprio negli anni di maggior martellamento.
Dunque la questione è sempre la solita: roba stra-sentita trent'anni fa ma fatta tremendamente bene. Quindi piace a chi ama il genere, nulla più. Il bello è che, come si evince da foto, i 5 non sono propriamente giovinotti di primo pelo e quindi hanno l'esperienza dalla loro, elemento che consente loro di evitare stereotipi già fin troppo sfruttati da bands contemporanee presto assurte alla fama ma destinate a bruciarsi nel giro di poco.
Quindi in Fear si sentono umori di nomi meno conosciuti ma non meno gloriosi della wave inglese, Sound e Modern English sono i primi nomi che mi vengono in mente; quella capacità atmosferica di far vibrare certe corde che risiedeva nel talento di Borland si percepisce spesso nell'arco delle dodici tracce.
Poi è ovvio che dei texani non resterà molta traccia anche nel futuro, ma un ascolto gradevole se lo guadagnano volentieri.

lunedì 1 novembre 2010

Human Condition - Live at the Collegiate Theatre 1981

Per anni ho favoleggiato su questo trio del quale si sanno notizie zero; soltanto qualche accenno in qua e in là sulle bio di Wobble, ma nessun dettaglio che riguardasse la musica. In breve: Wobble, il suo chitarrista di fiducia ai tempi, Animal e il primissimo batterista dei PIL Walker. Abbastanza potenziale da fare qualcosa d'importante, ma è fin troppo chiaro che se con gli anni non è arrivata nessuna valutazione nè tantomeno ristampe o riesumazione di eventuali archivi, significa che non è stato nulla di epocale.
E infatti è tutto abbastanza dispensabile. Apparentemente HC visse soltanto qualche mese fra il 1981 e l'82, pubblicando soltanto due cassette artigianali frutto di registrazioni live. Wobble proveniva dall'esordio solista Betrayal, e aveva sempre espresso l'ammirazione per il Walker (si scopre che aveva ricevuto una formazione jazz) che aveva abbandonato i PIL poco prima di Metal Box, una scelta apparentemente auto-lesionistica ma dettata evidentemente da motivi caratteriali (sempre difficile avere a che fare con Lydon!).
Non è dato di sapere per quale motivo il progetto fu abortito, chè con un maggior lavoro forse avrebbe potuto realizzare qualcosa: restano così agli annali queste due cassette di jam live strumentali dal sapore poco definibile, di pezzi appena abbozzati e ad un discreto tasso tecnico: Wobble che sciorina i suoi giri stentorei fino all'ossessione, Animal caustico e corrosivo e Walker a sfogare l'abilità che forse First issue aveva soffocato per la causa generale. Un risultato sterile e quasi privo d'inventiva.
Peccato per un occasione persa.