giovedì 26 aprile 2012

Boris - Dronevil Final (2006)

Arrivati al 15esimo anno di attività, i Boris continuano a stupire con la loro stupefacente ecletticità e Attention please, in assoluto il loro disco più pop. Io però continuo a preferire il loro versante più oscuro, non tanto dronico quanto quello più meditato e ricco di fascino evocativo. E Dronevil ha svolto da capitolo importante in tal senso: uscito nel 2005 in due vinili da suonare contemporaneamente, soltanto l'anno dopo è stato combinato in un unico supporto. Sono 3 pezzi di 20 minuti ciascuno, imponenti, monolitici, ma espansi.
Loose/Red è fatta di funerea risonanza di piatti, rintocchi lisergici di chitarre, linea mesta e meditazione alla moviola. Bellissima.
Giddiness Throne-Evil Wave Form tira fuori fuzz e unghie da panzer, il suono cingolato pachidermico esclusa una pausa siderale a metà tragitto.
Interference Demon-The Evil One Which Sobs trova un inusitato punto d'incontro fra primi Melvins e i Pink Floyd più epici, per una suite mutante ed avvincente.
Istituzionali.

mercoledì 25 aprile 2012

Borbetomagus - Barbed Wire Maggots (1983)

L'aberrazione impro più radicale: più violenti di ogni forma di musica dura, più rumorosi del japa-noise che in effetti influenzarono, più estremista dell'industrial, i Borbetomagus sono tutt'ora un trio newyorkese che fa paura nel vero senso della parola. Questo è considerato il loro capolavoro, e per adesso non me la sento di esplorare altre incisioni.
Non oso immaginare, almeno a quei tempi, come doveva essere assistere ad un loro live: i due sassofonisti avevano le capacità polmonari di un maratoneta olimpico, non c'è altra spiegazione per le loro assurde, infinite iperboli atonali, dai toni più bassi (barriti pachidermici) a quelli più alti (squittii lancinati). Una delle loro tecniche preferite: appoggiare le rispettive bocche del sax l'una all'altra per creare nuovi mostri sonori.
Fra di loro, uno che definire un chitarrista è una parola grossa. Un generatore di feedbacks, di grumi elettrostatici, di nebulose elettromagnetiche.
Il primo risultato è il giudizio inascoltabile, ma già al 3°/4° ascolto si incomincia a capire qualcosa di più, specialmente nel finale quando la chitarra si ritaglia un'angolo di dominio quando nei 40 minuti precedenti è rimasta sopraffatta in lungo e in largo dai due fondisti. In ogni caso, non proprio gradevole, ma impressionante sì.

martedì 24 aprile 2012

Bologna Violenta - Il nuovissimo mondo (2009)

Fuori ma con criterio. è la serie. Questo in effetti non so se si era già sentito: un violinista classico che si rielabora chitarrista grindcore su arzigogolatissime basi ritmiche meccanicamente digitali, a tratti persino al limite della jungle. Il tutto infarcito di recitati macabri, grandguignoleschi, raccapriccianti. Sul motto di "nessuna religione, nessuna politica".
Ma attenzione, non c'è anarchia nella violenza felsinea. Passino i contenuti delle liriche, che alla fine mi appaiono solo un mero contorno al massimalismo parossistico strumentale e servono a stuzzicare la dichiarata passione per i b-movies.
Manzan ha sfruttato la sua formazione artistica (conservatorio, orchestrale) per dare alla luce un mostro cinico e lucidamente guerrigliero, fatto di tanti piccoli frammenti brucianti (il pezzo più lungo dura 2,5 minuti ma si tratta di una pastorale per archi, quindi è fuori contesto) la cui frenesia può anche ricordare certe sinfonie fra le conosciute anche agli ignoranti di classica come me. Manzan oggi è uno di quei personaggi atipicamente colti (come Gabrielli, ad esempio) che sono riusciti a ritagliarsi spazio nell'indie italiano per la sua qualità, abilità ma specialmente perchè la formazione è andata a cozzare contro il substrato più umilmente rock (o hardcore, come nel caso di Manzan stesso) , finendo per generare cosettine di questa fattura.
Non sarà avanguardia, ma l'originalità è garantita.

lunedì 23 aprile 2012

Blue Water White Death - Blue Water White Death (2010)

Certe volte le letture di riferimento per scegliere i dischi da ascoltare sono rivelatrici. Di questo disco ho letto in giro soltanto stroncature, a parte Blow Up in cui SIB gli ha assestato un bell'8. E bravo direttore, io sto dalla tua parte come quasi sempre.
James XiuXiu Stewart e Jonathan Meiburg, di una band chiamata Shearwater. Ad essere sincero, quest'ultima non solo non l'ho mai sentita, ma neanche nominare. Mi perdo qualcosa?
Forse, perchè BWWD è un disco di quelli difficili non si catalogano comodamente.
L'apertura è un drone ronzante su cui si posa il lamento timido ed atonale di Stewart. Song For The Greater Jihad ha l'intelaiatura di un folk più o meno regolare ma è squarciato da clangori di vario genere. E' dalla terza traccia, Grunt tube, che le cose iniziano a farsi serie: intro maestosa di organo, accordi sparsi di piano, Stewart tenue e disorientato, senso di vuoto ed abbandono. Ipnosi secca per Nerd Future, nenie disturbanti e diagonali in The end of sex e Death for christmas. La strumentazione è scarna e il focus è profondamente sullo stato mentale-psicologico delle cose, fra allucinazione e cadute fragorose.
Il capolavoro è Gall, dimessa perla pianistica che al netto di rumorismi e schizofrenie si direbbe il perfetto incrocio fra il Mark Hollis isolato del 1998 e il Peter Hammill di In Camera.
Eccoli, i due riferimenti principi. La leggiadria e il timbro nasale del primo (che spesso Stewart rammenta) e le ossessività impressioniste del secondo (il drammatico finale di Rendering the Juggalos) possono aver permeato e drenato l'attitudine di BWWD, anche se solo a tratti nei risultati terminali. E si scusi se è poco.

domenica 22 aprile 2012

Blue Phantom - Distortions (1971)

Episodio anomalo che spesso viene elencato fra le reliquie più oscure della stagione progressive italiana, sia perchè uscito in quegli anni (anche se di tale non si trattava) sia perchè fu il one-shot ad opera di un gruppo fantasma. Si sa soltanto che il compositore, sotto uno pseudonimo già utilizzato, era Armando Sciascia, uno dei più prolifici autori di colonne sonore italiani dagli anni '50 in poi.
Pertanto Distortions si potrebbe catalogare file under library, anche se piuttosto atipica. Totalmente strumentale, si snoda attraverso un sorprendente e sincopato hard-rock, somigliante per certi versi ai contemporanei Black Sabbath. Il complesso (un quintetto, direi) che si occupava dell'esecuzione, preciso e tecnico al punto giusto, sulla carta sarebbe potuto anche essere il Rovescio Della Medaglia. Ma giurerei che il maestro Sciascia, violinista classico, abbia partecipato elettrificando il proprio strumento fin quasi a farlo sembrare una graffiante chitarra solista.
A parte una minoranza di episodi relativamente tranquilli (spiccano la bossa di Equilibrium, la placida ballad Equivalence), è un tambureggiare sulfureo di riff e sferzate elettriche, a partire dalla potentissima Diodo, alla splendida giravolta prog di Metamorphosis, alle serrate stentoree di Microchaos e Dipnoi, alla pura pesantezza sabbathiana di Distillation. Il tutto però sempre increspato di imprevedibili breaks ed aperture che mostravano l'abilità compositiva ed il notevolissimo gusto strumentale di Sciascia.
Il quale, a meno di smentite, risulta essere ancora vivo a tutt'oggi, avendo ormai passato i 90, ed è un altro personaggio su cui dovrei indagare meglio...

venerdì 20 aprile 2012

Blind Cave Salamander - Troglobite (2009)

Non mi succede molto spesso: al primo ascolto Troglobite mi era piaciuto molto, ma alla distanza mostra qualche corda. L'idea di Moonfish, all'inizio, è buona: arpeggio minimale di chitarra, concentricità elettronica e violino lamentoso, squisitamente gotico. Poi la mano psichedelica prende il sopravvento, con la viola elettrica di Palumbo a delirare in sottofondo.
Il polistrumentista larseniano è qui insieme alla violinista Kent e dall'elettronico Beauchamp, a creare sfondi molteplici, non sempre angosciosi come nell'apertura. La rilassatezza di Blood lagoon e Untitled li fa sembrare un mini ensemble gotico da camera, l'ambientale siderale di Transition e Magma rassicura. Certe idee melodiche sono anche piuttosto buone, come in Used to be the last, ma alla fine non resta un granchè di memorabile.
E di sicuro potevano risparmiarsi la vacua versione di Set the control for the heart of the sun.

giovedì 19 aprile 2012

Black Dice - Beaches & Canyons (2002)

Fuori, fuori, ma sul serio, ma col filo logico di chi ha creatività da dispiegare. Ricordo bene l'incredulità generale che circondò B&C al momento dell'uscita, ma a me a dir la verità non piacque. C'è voluto qualche anno perchè riuscissi ad entrare in questo mondo stralunato e contorto, anche perchè mi è sempre piaciuto di più il successivo Broken Ear Record.
Diec'anni dopo, mi ri-appare in tutta la sua forza eversiva e la sua follia selvaggia, nelle tracce più fragorose e ribollenti. Oppure col suo candore nei passaggi più quieti e cristallini (il top sta in Endless happiness), e lo scherzo si perpetua, specialmente in quelle fasi vocali androidi, nelle propulsioni micidiali, nei cinguettii elettronici, nelle didascalie nucleari.
Diec'anni dopo, il mistero ammanta ancora B&C. Con le conseguenze del caso.

mercoledì 18 aprile 2012

Black Angels - Phosphene Dream (2010)

L'ossessione per i Velvet Underground può giocare brutti scherzi ad una band, a partire dal nome stesso che si adotta. Ma dopotutto questi texani sfuggono la trappola dell'eccesiva reverenza con una bella sventagliata di '60-oriented-rock, in questo terzo album molto ben fatto.
L'insieme è un curioso meltin' pot: le chitarre acide e piene di riverbero, i moduli ipnotici di farfisa, un cantante che sembra Jeffrey Lee Pierce sotto tranquillante, la batterista minimale e funzionale. Ma più che altro sono i pezzi migliori a farsi ricordare, e sono i più stentorei come River of Blood, Bad Vibrations, Entrance song, Phosphene Dream. O il curioso incrocio fra Doors e Velvet di True Believers, dall'impatto notevole.
Altrove le atmosfere si fanno quasi giocose, come se si fossero veramente immersi nel '67/68 e si divertissero a replicarne il clima e l'aroma. Magari fra qualche anno non ce li ricorderemo neanche, ma questa è una buona mezz'oretta di vintagismo.

Beware Of Safety - It Is Curtains (2007)

It's only post'n'roll.
Dalle tende si vede la tempesta, la quiete, la bravura di questi losangelini attivi da un quinquennio, pur persi nel marasma infinito della valanga epic-instru.
Questo debutto vale molto, più dei due successivi parti. Come già pensai riguardo ai If these trees could talk, se fossero tutti così ci sarebbe da far festa ogni giorno. It is curtains fa 36 minuti netti di abrasioni e carezze. Kaura è un sontuoso biglietto da visita. La differenza sembra farla il chitarrista solista, che quando decide di salire in cattedra elabora i giri più elementari quanto incisivi; chiamasi buon gusto.
Weak wrists in tal senso è maniacal-fumigante, una Like Herod riaggiornata. Ma una volta fuori dal caos spuntano le migliori melanconiche tessiture di The difference between wind and rain e To The Roof! Let's Jump And Fall, degne degli Explosions. Questo per non tacere degli altri due pezzi, il soliloquio di chitarre sinistre di Veneklasen, o dell'unico pezzo meno che memorabile del lotto, O'Canada.
I like it.

lunedì 16 aprile 2012

Bedhead - 4songCDEP19.10 (1994) + The Dark Ages EP (1996)

Due prodotti minori, ma non per questo trascurabili nella discografia dei Kadane Bros. Lampante segno dell'indolenza che non solo permeava la loro musica, ma anche il loro atteggiamento generico, la scelta di dare un titolo come 4songCDEP19.10. Ricordo una risposta geniale in un'intervista di Scaruffi: alla domanda Che cosa avete in comune con Codeine e Mazzy Star? "Molte cose, abbiamo tutti i piatti nella batteria, corde nella chitarra e microfoni per il cantante".
Il 4song contiene un paio di pezzi, Heiszahobit e What I'm here for, che non avevano nulla da invidiare ai vertici del primo memorabile album, il folk soleggiato di Dead Language e, sorpresa sorpresa, la cover di Disorder dei Joy Division , che viene rifatta esattamente come si penserebbe potessero farla i Bedhead; lenta, con un filo di voce, strascicata ed indolente.
The dark ages si fregiava di un'altro piccolo capolavoro, la title-track, in classico schema crescente e finale forzuto, così come lo splendido strumentale Inhume, per chiudersi con un'altra delicatissima nenia folk, Any life.
E non si può dire che fossero limitati, quando si sfornavano pezzi così belli.

domenica 15 aprile 2012

Beach House - Devotion (2008)

Che accoppiata!, questi due statunitensi: Lui alla chitarra, Lei all'organo, farfisa e quella voce tutt'altro che suadente, anzi spesso paragonata a Nico per il timbro. Completa l'organico una discretissima e dimessa beat-box. Impianto inguaribilmente vintagistico, la voglia di far sognare e l'abilità sopraffina di scrivere.
Non credevo alle mie orecchie la prima volta che ho sentito Devotion: ma da dove escono questi due, che rapiscono le mie orecchie in un vellutato abbraccio autunnale, con così tanta spudorata semplicità?
Lo vogliamo definire dream-pop? La vogliamo chiamare psichedelia languida? Li hanno voluti affiancare a nomi del passato più o meno importanti, ma francamente non m'importa. Io voglio solo tuffarmi in questo morbido sogno ad occhi aperti, senza neanche una mezza caduta di tono, capitanato dalle fantastiche You came to me, Gila, Holy Dances, All the years, Home Again.
Fuori può nevicare o esserci il sole, non fa differenza.

sabato 14 aprile 2012

Bastro - Antlers (Live 1991)

Live postumo del trio transitorio di David Grubbs, immortalato durante l'ultimo tour prima dello scioglimento. Alle pelli c'era McEntire e al basso Brown, futuri Tortoise.
La qualità audio è buona ed è molto interessante perchè nessuno dei 7 pezzi proposti fecero parte della manciata di titoli rilasciati in breve esistenza, oltrechè interamente strumentale. La chitarra del leader faceva fuoco e fiamme, gli altri due erano ossessi ben lontani dalle sonorità tartarugose in cui sarebbero confluiti.
Math puro e duro; completamente staccatisi da qualsiasi influenza stevealbiniana, i Bastro facevano già parte della gloriosa scuderia Louisville allora in auge: la title-track è curiosamente simile a certi passaggi di Spiderland, ma è un episodio a parte. Il live è un arroventato showcase di assalti free somigliante più al primo Diablo Guapo che al secondo Sing the troubled beast che sfocia nel turbinio finale di Glistery.
Ma Grubbs con la testa era già proteso oltre, verso le derive avanguardistiche di Gastr Del Sol.

venerdì 13 aprile 2012

William Basinski - The Garden Of Brokenness (2005) + El Camino Real (2007)

A dispetto della sua aria da dandy maledetto o da fighetto metropolitano, Basinski è un personaggio di tutto rilievo che ha ricevuto una certa nomea grazie ai Disintegration Loops rilasciati nella prima metà del decennio scorso. Sarà stato più che altro per la curiosa origine degli stessi che qualcuno si è avvicinato all'opera del texano, me compreso. Comunque, l'ormai ex clarinettista jazz si è progressivamente trasformato in un compositore di ambient minimalistica, di avanguardia o meno non saprei dire, ma di alto spessore sì, lo ritengo.
Nei suoi due lavori migliori, relativamente recenti, Basinski esplora gli estremi del suo canovaccio stilistico: in The garden of brokenness un melanconico giro di pianoforte riverberato di 7-note-7 viene circondato da micro-emissioni di sfondi sinistri, come fossero lievi fuoriuscite di gas. E' l'aspetto intimista che la spunta, con le figure di piano che in stile classico-minimalistico si muovono impercettibilmente, si sovrappongono, fanno pause indeterminate, si riducono ad una nota, infine si ritrovano.
El camino real invece è l'espressione della magniloquenza, della sinfonia, dell'elevazione. Qui le toniche principali sono 4, rapite in un inesorabile, maesltrom celestiale. Lo spettro sonoro è costantemente saturo, al punto che al picco della terza tonica le casse gracchiano sensibilmente. Talmente potente che non ci sono variazioni.
Entrambi questi episodi sono costituiti da tracce continuate di circa 50 minuti (è il suo formato più frequente), quindi l'ascolto non è proprio per tutti. E' per chi ama naufragare in questi mari...

mercoledì 11 aprile 2012

Barn Owl - Ancestral Star (2010)

Pesante ed etereo, gravoso ma librato in voli galattici, Ancestral Star (ed in generale il lavoro dei Barbagianni da San Francisco, anche se questo è decisamente il loro masterpiece) rappresenta una delle esperienze più emozionanti fra gli ascolti degli ultimi due anni.
A partire dal vibrante feedback di apertura, sembrerebbe di trovarsi in un gorgo doom senza ritmica nello stile dei primi Earth, ma il viaggio è appena cominciato e le costellazioni hanno un impatto tremebondo. Vision in dust, l'unico pezzo con batteria e voci, si dipana in un mantra cosmico che sfocia nel misticheggiante intreccio di chitarre rintoccanti in Night's shroud.
Caminiti e Porras sono essenzialmente due ex-metallari che studiano l'inconscio immobile della contemplazione, scavano nel profondo, vanno a cercare l'ancestralità alternando pienoni saturi (il drone massimalista della title-track, in cui sembra che le casse prendano fuoco, tale è l'impeto) a fasi quiete e riflessive (il fingepicking acustico di Cavern Hymn), fino a toccare desolate lande ambientali.
E' una meraviglia senza soste. I violini di Flatlands, il piano minimalista di Twilight, le frasi epic/western di Awakening, i cori gregoriani su drone di fisa di Incantation, fino al sigillo finale della folata sonica di Light from the Mesa.
La produzione e i suoni sono semplicemente spettacolari, non a caso courtesy della Thrill Jockey. Com'è intuibile, ci sono tante soluzioni in Ancestral Star, ma il senso di omogeneità di questa missione (perchè di tale si tratta, in fondo) finisce per commuovermi e darmi brividi in continuazione.

martedì 10 aprile 2012

Bark Psychosis – Independency (1994)


E' stato fatto un po' di casino fra questa antologia e Game Over, il che è tristemente simbolico per Sutton & co., sempre in conflitto con le disgraziate labels con cui si trovavano a che fare.
Comunque Independency era decisamente più ordinato perchè raccoglieva tutta la produzione dei divini BP pre-Hex. Per la completezza che si sono meritati pertanto occorrerebbe menzionare i 3 pezzi esclusi dalla sopracitata, raffazzonata raccolta.
By Blow era il retro di All different things. Un incubo psichedelico costruito su tensioni quasi insopportabili, reminescente di un certo Ummagumma live altezza A Saucerful of Secrets, con un Sutton impazzito in preda ai fulmini.
Nothing feels riprendeva una estatica aria di certe produzioni 4AD, con chitarre cristalline e percussioni leggere, forse l'unico pezzo interlocutorio che fecero ai tempi.
Ma attenzione che Tooled Up, epurato dal Manman EP, fa parte di una delle tante altre facce del BP sound che potenzialmente poteva andare in qualsiasi zona. Uno strumentale che inizia come una specie di lounge-wave soporifero ma che esplode all'improvviso in un frenetico maelstrom elettro-industrial ad alta velocità.
Ma lo confesso...il vero pretesto di parlare di questo disco era esclusivamente legato alla possibilità (necessità) di ascoltare Scum per l'ennesima volta, per immergersi in quel bagno purificatore, per cibare la mente di quei 21 minuti di meraviglia...

giovedì 5 aprile 2012

Bare Minimum - Can't cure the nailbiters (1998)

Oscurissimo quartetto di Seattle, i BM ebbero vita breve a fine millennio e questo fu il loro secondo ed ultimo disco. E si trattava di un lavoro notevole in linea con i tempi, ma col piglio giusto e l'attitudine adatta a non farsi bollare come plagiatori.
L'ombra dei Sonic Youth aleggia spesso grazie al doppio attacco chitarristico, atonale e volutamente caotico (ma mai troppo rumoroso), ma i BM aggiungevano alla lezione una certa dose di astrattismo che permetteva loro di avvicinarsi a tratti alle sonorità dei grandi June Of '44. Rilevante anche l'iniezione di Slint che peraltro contrassegna i momenti migliori del disco: la lenta nebulosa dell'iniziale Waterfight or Firefight, i rabbrividenti accordi sospesi all'inizio della trascinante Downing Dolly, e soprattutto lo splendore della post-ballad Luchuck, corredata di intimo pianoforte.
Quest'ultima sarebbe potuta essere la direzione giusta per i BM, ma scomparvero.

mercoledì 4 aprile 2012

Bandulu - Guidance (1993)

Frullii siderali, mulinelli ipnotici, cassa-pompa, bassi sintetizzati. Il trio londinese non era uno dei tanti nomi qualunque della scena techno-trance, anche se oggi non se li ricorda più nessuno. E anche se Guidance non verrà certo ricordato come uno dei capolavori della branca, il riascolto mette addosso una certa gradevolezza stordente.
Era un sound leggero, levitante e arioso: non davano l'idea di essere una formula per club, da tenere al chiuso di sale sudate. E c'era persino un pezzo, Gravity Pull, in cui faceva capolino una batteria umana. Uno dei migliori in elenco insieme al cyber-dub di Messenger e alle trasfigurazioni fuse in Tribal Reign.

martedì 3 aprile 2012

Band Of Horses - Everything all the time (2006)



Non ho mai ascoltato i Carissa's Wierd, da cui provengono i due fondatori di BOH, ed a quanto pare sarebbe una pecca niente male. Ma forse mi ha permesso di ascoltare Everything all the time senza alcuna prevenzione, cogliendone aspetti positivi e negativi.
Il folk-rock ultra-elettrificato dei Built To Spill appare un influenza abbastanza importante, in primis per la sonorità piena e dirompente delle chitarre e per il tono vocale di Bridwell, acuto quasi più di quello di Martsch (a tratti arriva quasi ad evocare persino Coyne dei Flaming Lips).
La prima metà del disco è ottima, con la rotondità di The first song, la pressione quasi isterica di Wicked gil, la cantilena di Our swords che sembra un residuato dei primi Death Cab For Cutie, e soprattutto con il potentissimo lento di The funeral, un folk-rock all'ennesima potenza che ha il sapore dell'inno (ed infatti lo è diventato).
Escludendo l'ultima power-ballad builttospilliana The great salt lake, è quindi un vero peccato che la seconda metà sia così moscia e tirata via, come se Bridwell avesse finito le idee e provasse a rimescolare le carte con del country languido e insipido.
Poi è bastato vedere i voti riservati ai due dischi successivi per fare in modo che io passassi oltre, diffidente che non sono altro.

lunedì 2 aprile 2012

Bachi Da Pietra - Tornare nella terra (2005)


Quando affiorarono dalla terra 7 anni fa, i BDP fecero impressione al punto di guadagnarsi la cover di un Blow Up. Era l'implosione del torbido blues intimista, muto nel dire, registrato in una cripta, inedito. Poca forma e molto humus da drenare.
A differenza dei successori, TNT è in gran parte acustico e dimesso. Non sarà il loro migliore, per fortuna loro e nostra. Resterà il loro episodio più cupo e incompromissorio, con le liriche di Succi ad esprimere un esistenzialismo disagiato ma forte di se stesso ed orgoglioso.
Ad incidere la pietra.