domenica 31 gennaio 2016

Cleric ‎– Regressions (2010)

E a proposito di delicatezze, i Cleric, autori di uno dei più audaci esperimenti in campo metal degli ultimi anni. Da non confondere con ben due omonimi (un solista techno e addirittura un'altra band americana di death-metal canonico), il quartetto non ha ancora dato un seguito a questo pauroso e lunghissimo tour de force, il che fa pensare: cos'altro potrebbero aggiungere ad uno sforzo così disumano che non hanno già espresso?
Durante gli 80 minuti di Regressions, non si fa in tempo a catalogare qualcosa che subito dopo accade l'imprevisto: black sinfonico alla Gnaw Their Tongues, pathos epico imponente alla Neurosis, stacchi math-core, acrobazie alt-psych alla Mars Volta, girandole costipate alla King Crimson, scorci panoramici di stampo epic-instru, riprese alla Isis; tutto ciò mi ha portato ad elaborare la parola magica: prog!
Il tutto, inevitabilmente, eseguito con una tecnica strumentale terrificante, e come per miracolo senza neanche l'ombra di autoindulgenza o narcisismi.
Quando, ormai stremati, si arriva verso il termine del disco, l'urlo disumano di & introduce la chiusura di The fiberglass cheesecake, che dopo l'ennesima sfuriata all'improvviso sfuma in una tenue e malinconica sonata per solo piano. E' la quiete dopo la tempesta, una trovata semplice ma geniale, che non fa altro che accrescere il valore del disco.

venerdì 29 gennaio 2016

Napalm Death - Scum (1987)

Contro le frustrazioni quotidiane, contro questo mondo che scivola sempre più in un declino apparentemente inarrestabile, contro tutto ciò che ci fa contrariare; l'ascolto di Scum rappresenta ancora oggi dopo 30 anni un gesto di diniego e di rabbia sempre efficace.
La storia andò così: la prima facciata fu incisa dal trio Harris-Bullen-Broadrick. Per la storia, Scorn e Godflesh; appena ventenni, inventavano il grind-core, fenomeno destinato a diventare un baraccone auto-parodistico, ma che ai tempi aveva molto da dire. Nel giro di qualche mese Harris però si ritrovò da solo e rifondò il gruppo con altri 3 personaggi fra cui lo screamer Dorrian, ed ecco la seconda facciata. Più acuminata e chirurgica la prima, più grezza e schiumante la seconda. Difficile asserire quale sia la migliore, nonostante le evidenti differenze; in ogni caso sono 28 vorticosi pezzi, quasi tutti della durata intorno al minuto, di una violenza e di una ferocia inaudita. Roba che ancora oggi, incredibilmente, suona spontanea ed immediata. Da prendere ancora sul serio, insomma.

mercoledì 27 gennaio 2016

Lucky Pierre - Mixtape + Surface Noise EP (2013)

Due uscite a corollario dello splendido The island came true, con la speranza tuttavia di non dover aspettare altri 6 anni perchè Aidan si ritrovi un po' di tempo libero per sprigionare nuove magie targate LP.
Mixtape, titolo programmatico, è una cassetta inclusa nella deluxe edition dell'album che comprende tracce inedite, rarità e qualche episodio già noto, in soluzione di continuità: due lati intitolati Madrugada e Sonambulo. Una specie di bignami del LP-stolen-sound, fra tracce ritmate, atmosfere sognanti, contemplazioni e movimenti orchestrali; è la library del nuovo millennio, che pesca dal passato a piene mani e ne effettua una fotosintesi oserei dire nostalgica, con gli occhi commossi e strabordanti di umanità. Ottima occasione, fra l'altro, per ascoltare anche una buona parte di quel Blank for your own message che costituì il primo reale prodotto di LP, rilasciato soltanto come promo della Chemikal Underground nel 2000.
Surface Noise è un 10", rilasciato sempre da Melodic; una ventina scarsa di minuti di puro sinfonismo di risulta, con il suono granulare del vinile consumato in sottofondo costante. Ovviamente nessuna fonte riguardo alle fonti originali; è quanto di più incompromissorio abbia realizzato Aidan e quanto di più vicino ed assonante a Leyland The Caretaker Kirby. Fantamusica: chissà cosa genererebbe un gemellaggio fra i due.

lunedì 25 gennaio 2016

Wraiths ‎– Plaguebearer (2007)

A giudicare dall'estetica truculenta e dall'iconografia dell'artwork delle loro produzioni, i Wraiths sembrerebbero dei black-metallers o qualcosa di stilisticamente affine. In realtà, questo oscurissimo duo di Edinburgo (nè foto nè nomi) si trova in un'area grigia che non appartiene ai noisers anni 'zero nè ad un eventuale revivalismo industriale. L'originalità di un mostro come Plaguebearer può essere dovuto in effetti anche alla zona di provenienza: a mia memoria la Scozia non è mai stata una terra fertile per i rumoristi.
Dichiarano di non usare computer nè sintetizzatori, bensì soltanto attrezzature di risulta e rigenerate per le occasioni, che si trasformano in veri e propri rituali. E finiscono per fare davvero tanta paura, per diventare degli incubi orrorifici; contesi fra power electronics, percussivismi rimbombanti, voci distorte e feedback galattici, i 5 truci settori di Plaguebearer sono il più sano ed autentico rimedio reattivo all'esposizione di una qualsiasi radio commerciale per una durata superiore ai 30 minuti. Ma anche meno.

sabato 23 gennaio 2016

Morphine ‎– At Your Service (2009)

Operazione ricorrente al decimo anniversario della morte di Mark Sandman, e che con ogni probabilità chiude una volta per tutte la questione sul repertorio nascosto dei Morphine.
Come ogni antologia postuma che si rispetti, At your service compila inediti, versioni alternative e live (che tutt'al più direi registrati in studio, visto che non si sente volare una mosca fra le pause). I primi sono di buona qualità e ad orecchio direi risalenti al periodo 94/95, epoca Yes visto il brio generale; ovvio che non siamo ai livelli del materiale uscito all'epoca, ed in più di un occasione si sente la mancanza di rifiniture, ma ogni fan ne avrà tratto piacere indubbio.
Così come avrà goduto all'ascolto degli pseudo-live, suonati con un gran tiro ed un energia contagiosa. Solo per completisti; eventuali neofiti partano da Good o da Yes.

giovedì 21 gennaio 2016

Yamantaka // Sonic Titan ‎– UZU (2013)

Piacevole riconferma di Y/ST, due anni dopo quel sorprendente debutto che fondeva progressive, stoner e psichedelia con la peculiarità della voce, melodiosa e soave, della frontwoman Ruby Kato.
Il contesto non è cambiato di molto, se non che la percentuale hard segna il passo in favore di una maggior ambizione di magniloquenza, con l'ago decisamente più spostato verso il progressive. Basti ascoltare lo struggimento iniziale di Atalanta, che schiude subito la grande emotività delle loro fasi pastorali. 
Ciò che fa la differenza, alla fine, è ancora una volta l'aspetto compositivo e l'equilibrio quasi miracoloso che il gruppo riesce a mantenere, senza mai scadere nel cattivo gusto o negli eccessi. Merito senza dubbio primario delle due leader e fondatrici (l'altra è la batterista Alaska B), che rendono UZU un album davvero eccellente. Da applausi Saturn's returns, Whalesong e Hall of mirrors.

martedì 19 gennaio 2016

Peril ‎– Multiverse (1994)

Frutto di un lungo soggiorno in Giappone, il progetto Peril faceva capo al leggendario batterista dei Necks Tony Buck, per una formazione equamente fra australiani (lui e il chitarrista Sheridan) e nipponici (il bassista Hideki e Yoshidide alla seconda chitarra e ai nastri). Un trio di dischi rilasciati a metà '90 per loro, di cui Multiverse fu il centrale.
Il progetto era all'insegna della schizofrenia più recondita: prova di eclettismo sorprendente per Buck, autore della quasi totalità del materiale. Le brevi schegge di musica totale esponevano un riferimento evidente ai Naked City di John Zorn. Sulle tracce più omogenee invece si sviluppava un ibrido fra l'industrial-rock allora in voga, il trash-metal (forse una fonte di ispirazione per Bologna Violenta), il funk e il sample-rock alla Vampire Rodents. Avventuroso e privo di qualsiasi filo logico; peccato per la produzione un po' piatta, ma è un dettaglio secondario per un disco a suo modo estremista.

domenica 17 gennaio 2016

Kevin Coyne ‎– Marjory Razorblade (1973)

Un po' di vecchio gradevole folk blues alla britannica ci può stare, per questo autore dimenticato da tutti, che era in possesso di uno stile vocale pressochè unico. Fece parte di una generazione gloriosa di songwriters inglesi (Drake, Martyn, Harper, Van Morrison) ed ebbe anche qualche soddisfazione commerciale, ma per qualche motivo non è stato adeguatamente consegnato ai posteri.
Colpa, forse, di uno stile poco elegante, per non dire sgraziato, e di quella voce squillante e sguaiata che avrà diviso nettamente estimatori e detrattori. Marjory Razorblade fu doppio album, arrangiato in maniera spartana ma con un gusto tipico dell'epoca, equamente diviso fra pezzi interamente acustici e fra gli altri con band di supporto al completo. Resta scolpito nella memoria un pugno di canzoni a dir poco memorabili (Eastbourne Ladies, Old Soldier, Nasty, House on the hill), baldanzose ma anche a tratti toccanti, che avranno un influenza enorme (e dichiarata) su Will Oldham. Il secondo verteva più sul solitario, facendo un po' scendere il risultato finale ma con qualche impennata degna comunque di nota (Chairman's ball, Chicken Wing). Per un paio d'ore disimpegnate e per un immersione in epoche ormai lontane come ere geologiche.

venerdì 15 gennaio 2016

Dälek ‎- Untitled (2010)

Testamento artistico (seppur registrato nel bel mezzo dell'attività, un lustro prima della pubblicazione) di questa illuminata entità che ha saputo elevare di non poco lo stantio status dell'hip-hop fino a portarlo ad una formula quasi indecifrabile.
Strutturata come una suite gigante di 45 minuti, Untitled è un oggetto non identificato, principalmente strumentale, un pastone inquietante che galleggia con poche ritmiche. L'inizio mi ricorda la stasi liquida degli Hawkwind di You should't do that, dopodichè tutto ciò che si aggiunge concorre a seminare panico ed astrazione; riflessi percussivi etnici, vortici lisergici, banjos minimali, clangori industriali, manipolazioni aliene, silenzi siderali, una breve e stentorea fase ritmica. La chiusura è di nuovo cosmica, di pulviscolo nero pece, fino al fade-out finale. Capolavoro.

mercoledì 13 gennaio 2016

Half Japanese - Half Gentlemen/Not Beasts (1980)

Non molto da dire su un immortale capolavoro di art-naif abbrutito. I fratelli Jad e David Fair iniziarono a fare musica a metà anni '70, all'insegna della più gretta ignoranza musicale. Vissero l'era del punk in diretta e riuscirono a debuttare su disco soltanto 5 anni dopo, con un triplo vinile.
Tutto molto assurdo, e tutto molto geniale. Soltanto per una questione geografica non finirono nella Los Angeles Free Music Society, ma sarebbero stati laterali in ogni caso. Con un totale di circa 70 tracce, Half Gentlemen/Not Beasts fu un bestiario che aveva come numi tutelari precedenti ideologici solo il Capitano e qualche cavernicolo spostato degli anni '60, ma sempre col filtro del punk installato. Finirono per influenzare una marea di mostri che sarebbero nati nei 10-15 anni successivi, per non parlare del nippo-noise.
Memorabili i titoli per certi versi sperimentali, ovvero quelli strumentali con titoli onomatopeici o di sole consonanti, totalmente estranei al contesto circostante, in una parola dadaisti. I due estratti live di 20 minuti ciascuno santificavano la realtà a fuoco con una pioggia di sassate senza ritegno.
Contro ogni intellettualismo.

lunedì 11 gennaio 2016

Tartufi ‎– Nests Of Waves And Wire (2009)

Tre anni dopo il piccolo miracolo che li rivelava come alfieri mondiali dell'indie-prog, la coppia Gorman & Angel tornava ed intricava ancor di più la matassa con un meritato approdo alla potenza Southern.
Nests of waves and wire è infatti ancor più elaborato del precedente; laddove i capitoli erano suddivisi in 2 o più fasi, questo contiene 7 pezzi dai 5 ai 13 minuti. Una fioritura coloratissima, che logicamente ha ancora in Doug Martsch una grande fonte di ispirazione soprattutto per l'impostazione vocale, ma che si perde in un labirinto di costruzioni compositive articolate oltre misura, e conosce anche fasi meno spensierate. Necessita di un paio di ascolti almeno per essere apprezzato in tutta la sua genuinità.

sabato 9 gennaio 2016

Xela With Greg Haines & Danny Saul ‎– The 12th Chapel (2007) + Xela ‎– Dunwich Dreams (2011)

Due uscite minori di Twells, ma non per questo meno interessanti, anzi.
La collaborazione in trio con i due conterranei Haines (cellista) e Saul (chitarrista), solisti a me sconosciuti, è un gioiello di drone-folk apocalittico di 23 minuti in stratificazione inesorabile. Basata su un motivo tenue di chitarra acustica, su frequenze disturbate di cello elettrificato, su un loop vocale dello stesso Twells in estasi, la suite cresce fino a diventare un vortice rumoristico impazzito.
Il singoletto Dunwich Dreams, una delle sue ultime pubblicazioni, fu stampato in ben 10 (!) copie e poi a grande richiesta rilasciato successivamente in formato mp3 dall'etichetta stessa, conteneva due pezzi: Cemetary Mane, in stile marziale ed oscuro come In Bocca al lupo, ed il fugace ritorno alle origini di The Marching Dead, atmosferico e glitching come i primi due album. Dedicato al compositore di colonne sonore Fabio Frizzi, a rimarcare la passione italica del rosso.

giovedì 7 gennaio 2016

Screams From The List 14 - Archaïa ‎– Archaïa (1977)

Ennesima clamorosa rivelazione dal benemerito listone. Trattavasi di un oscurissimo trio francese che realizzò soltanto l'omonimo nel 1977 e lo diede alle stampe in forma privata. Soltanto una ventina d'anni dopo la label parigina specializzata Soleil Zeuhl lo resuscitò con l'aggiunta di alcune bonus track.
Troppo difficile da inquadrare, ai tempi. Certo, qualche affinità d'atmosfere con i Magma e col movimento Zeuhl c'era, principalmente dovuto alla marzialità delle voci, ma non era quello il punto. Archaïa era un oggetto misterioso, insinuante e inquietante. Innanzitutto l'assenza della batteria, sopperita soltanto da qualche percussione e qualche piatto. I ritmi dettati da un basso gommoso e carico di flanger alla Barry Adamson (un anno prima che esordisse coi Magazine), tastiere dissociate da ogni melodia ed impegnate in contrappunti dissonanti e frullii atonali, una chitarra psicotica e spaziale alla Helios Creed (nell'anno in cui entrava nei Chrome, dall'altra parte del mondo e senza distribuzione). Ecco il punto: la follia latente nell'Archaïa-sound lo rendeva l'equivalente europeo, nonchè discendente dal progressive, dei Chrome. Impressione confermata dalle due bonus track poste al termine della ristampa, che furono registrate dal vivo nell'anno successivo e segnavano l'ingresso della batteria in formazione. Purtroppo senza seguito.

martedì 5 gennaio 2016

Raphael ‎– Angels Of The Deep (1995)

Compositore new-age statunitense arrivato in pieno ritardo in ogni aspetto: una decina di anni buoni dopo l'esplosione del movimento e al primo disco intorno ai 40 anni. Rilasciò soltanto una manciata di titoli negli anni '90 e poi scomparve.
La sua fu una storia di altri tempi: cresciuto in un convento di suore, formato musicalmente in conservatorio, attivo nella summer of love di San Francisco. Angels of the deep, per piano, synth, arpa, flauto e poco altro è segnato da un livello enorme di misticismo, con dei climax emotivi impressionanti. Un ascolto estremamente rilassante ma non privo di sorprese, grazie alle progressioni armoniche per nulla scontate. E con una chiusura deliziosa per solo piano, un omaggio sincero ad Erik Satie con la malinconica Gnossienne n.3, casualmente la mia preferita del francese.

domenica 3 gennaio 2016

Anathema - Distant Satellites (2014)

Devo essermi perso qualcosa negli ultimi vent'anni perchè mi ricordavo gli inglesi Anathema come un gruppo per cui Claudio Sorge esternava grande apprezzamento durante una delle sue ore Rumore 2 La vendetta a Planet Rock, nel '93. Facevano un doom-metal molto lento con le growls ed erano abbastanza simili ai My Dying Bride.
Dopodichè non ne sentii più parlare. Non succede spesso (mi vengono in mente solo gli Ulver, in questo momento): ti dimentichi di un vecchio gruppo per il quale non andavi neanche matto e te lo ritrovi dopo vent'anni completamente cambiato, nonostante la maggioranza dei componenti siano rimasti gli stessi.
Oggi gli Anathema fanno un emo-rock molto melodico, un po' gotico e dalle grandi ambizioni, un genere pericolosissimo che si espone spesso alla stucchevolezza, al patetico ed al salottiero, soprattutto quando si piazzano degli archi a mo' di contorno. Invece Distant satellites si rivela un lavoro onesto e dagli ottimi contenuti, progressivo nel senso più attuale del termine ed equilibrato negli umori. Non mi resta che indagare su come è avvenuta questa metamorfosi.

venerdì 1 gennaio 2016

William S. Burroughs & Kurt Cobain ‎– The "Priest" They Called Him (1993)

Una decina scarsa di minuti di Burroughs che declama un racconto sopra un delirio torturato di chitarra di Cobain, e nient'altro. Ricordo che ai tempi fu salutato come un sorprendente ed inaspettato esperimento da parte del biondo, che nutriva una spasmodica ammirazione nei confronti dell'anziano scrittore. La sua parte fu una psicologica dimostrazione che lo stato d'animo della giovane rockstar era sempre più perturbato dal successo sterminato dei Nirvana ed insofferente a causa di Nevermind, che si diceva odiasse. Dopo un intro natalizia, parte una raffica di feedback, di fischi e distorsioni agonizzanti che non lasciano scampo ed inquadrano il recitato di Burroughs come un trip andato a male.
Questa era una reazione d'orgoglio, poco da dire. La lunghezza è quella giusta: al termine della traccia occorre aspettare un attimo prima di mettere altra musica, dall'impressione che fa ancora adesso.