I titoli dei dischi dei BH hanno quasi sempre avuto un significato riflettente i contenuti, perlomeno musicali. Il loro capolavoro esprimeva un senso di devozione compassata, di malinconia estatica. Il quarto del '12, Bloom, è stata un'esplosione di buonumore e colori primaverili. Fra di essi, il sogno adolescenziale diviso fra sottili inquietudini, speranze e disincanti tipici di quell'età.
Lo contrassegnava una produzione più piena, per non dire professionale; lasciate alle spalle le fragili e più che essenziali architetture, la Legrand e Scally continuavano a diffondere le loro eterne melodie tramite un suono più adulto, ma non finalizzato alla ricerca di un successo che inevitabile giungeva loro. Nulla da dire in merito al songwriting, già marchio indelebile che non ha deluso, ma soltanto visto una leggera flessione con Bloom.
Il mondo visto attraverso il sogno adolescenziale, secondo la mia fantasia, è quello che i BH sono riusciti a mettere sui solchi, in cui i singoli non sono i pezzi più accattivanti, bensì fra i più belli. Un mondo in cui la loro semplicità disarmante richiama l'ingenuità tipica di quell'età, da cui più ci si allontana più se ne ha nostalgia. E come per magia, questa musica senza tempo mi riporta ad allora...Divini.
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