sabato 30 luglio 2016

Nicolas Jaar ‎– Space Is Only Noise (2011)

Giovane dj figlio di un artista multimediale cileno, di base a New York, che a 20 anni ha pubblicato questo brillantissimo esordio all'insegna di un esuberanza smisurata.
Potrei definirlo soft-downtempo o cantautorato da club. Dotato di tatto e sensibilità, Jaar spiattella metronomie ponderate, languide cascate di piano elettrico, vocoder sornioni, spunti eleganti di jazz modificato geneticamente in salsa elettronica, quasi più a dare importanza al centellinare dei suoni che alle strutture compositive, che tuttavia sono eccellenti.
L'esuberanza si sfoga in un coacervo di stili che forse avrebbero meritato più omogeneità; fattore da imputarsi probabilmente alla giovane età, ma che stile. Inevitabile far ripartire la scaletta più volte, per scovare dettagli altrimenti non colti. Entusiasmante.

giovedì 28 luglio 2016

Franco Leprino ‎– Integrati… Disintegrati (1977)

Splendida gemma nascosta degli anni '70 italiani, inserita in un contesto al di fuori dalle correnti generaliste, e fra l'altro ristampata proprio l'anno scorso in vinile in Spagna (!). Autore, il polistrumentista siciliano Leprino che dopo aver pubblicato quest'unico disco si dedicò alla professione di musicista di servizio, scomparendo così da ogni panorama visibile.
Ingiustamente paragonato ai lavori contemporanei del conterraneo Battiato (forse per qualche svisata di VCS3, il leggendario synth di cui fu pioniere), Integrati...disintegrati fu diviso in due lati per limite imposto dal vinile, ma di fatto è un'unica suite di 40 minuti in cui convivono splendidi arpeggi di chitarra acustica, sia al naturale che trattata, spirali elettroniche di sapore cosmico, slanci solenni di vaga reminescenza progressive, dolenti sonate per piano e fagotto, quest'ultime in alcuni momenti persino assimilabili a quanto stava realizzando a Napoli Luciano Cilio. Strumentale e privo di percussioni, alternato con sapienza in soluzione di continuità e con un paio di temi ricorrenti che riconducono ad un concetto. 
Un lavoro profondamente mediterraneo ma affrancato da ogni provincialismo, dal respiro ampissimo. Vorrei ascoltare altro di sua firma, se si trovasse.

martedì 26 luglio 2016

Birdsongs Of The Mesozoic ‎– Magnetic Flip (1984)

Che i Mission Of Burma fossero una band avanguardistica nel loro genere era sotto gli occhi di tutti, ma che dopo lo split il loro chitarrista si reinventasse come pianista in una formazione di progressive atipico credo che ai tempi non se lo aspettasse nessuno. Ed invece Roger Miller fece proprio così, peraltro insieme ad un altro ex-Burma, Swope, che dai nastri passò addirittura alla chitarra. Unendosi al tastierista elettronico Lindgren ed all'organista Scott, fondarono i Birdsongs of the Mesozoic, che debuttarono con The Flip.
Questo fu un vero, mirabile progressive nel senso più moderno degli anni '80; un suono impetuoso con cascate di tasti d'avorio per nulla favolistiche, scariche elettrostatiche di chitarra distorta, ma anche partiture di elegante seriosità, in cui la mancanza di sezione ritmica neanche si nota tanta è l'energia sprigionata dagli effluvi.
Una formula originalissima, che li fece diventare nome di punta della Cuneiform e che finì per influenzare un grande come Peter Jefferies. Titanici.

domenica 24 luglio 2016

Date Palms ‎– The Dusted Sessions (2013)

Dopo un debutto a base di sensazioni ed aromi indianeggianti, il duo misto di Kowalsky (tastiere/elettronica) e Jacobson (violino/flauto) amplia la formazione ed approda meritatamente su Thrill Jockey. Le sessioni impolverate, fin dal titolo, trasuda deserto e rocce da ogni poro, e conferma la bontà della loro proposta. La prima parte del disco verte ancora sulle distese placide ed estasiate per synth, piano rhodes, violino e linee profonde di basso, a cui abbandonarsi senza condizioni. A partire da Night riding the skyline, però le cose cambiano: il basso si fa fuzzato, compare un beat echeggiante, una chitarra elettrica fa capolino con brevissime rasoiate ed il capolavoro è servito. Dusted down perpetra lo stile, con la sei corde che si infittisce; Dylan Carlson avrà apprezzato senza alcun dubbio. Il flauto notturno di Exodus due west chiude meravigliosamente l'ipnosi.
Non si spreca una-nota-una. The dusted sessions conferma che i DP sono una voce atipica dello scenario americano, in totale controllo del proprio suono, alla ricerca del bello oggettivo allucinatorio.

venerdì 22 luglio 2016

Mihály Víg - Filmzenék Tarr Béla Filmjeihez (2003)

Vig è un polistrumentista ungherese la cui fama difficilmente avrebbe travalicato i confini magiari se la sua produzione non si fosse sposata in maniera indissolubile alle opere di Bela Tarr da Almanacco D'Autunno in poi. Non per mettere in discussione le sue capacità, sia chiaro; occorre tirare fuori la classica frase trita e ritrita, lo so, ma è necessario: per sonorizzare l'universo di Tarr, che non è cinematografico in senso classico bensì una forma d'arte superiore e a sè stante, non sarebbe servito materiale d'avanguardia o carismatico. Servivano le partiture circolari, semplici e compassate di Vig, perfettamente adatte ad accompagnare le saghe umane dei derelitti e negletti protagonisti diretti dal Maestro.
In questa raccolta, per ovvi motivi temporali, mancano gli estratti di L'uomo di Londra e Il Cavallo di Torino, recuperabili in rete soltanto per vie traverse. Per cui sono 4 le opere prese in considerazione.
Per Almanacco D'Autunno, Vig realizzò un pugno di ballad trasognate per piano e synth (Lukin la migliore). Per Perdizione recuperò le sue radici est-europee e gitane con un deciso innesto di fisarmoniche e fiati (memorabile il tema di Slow Dance). Per l'opus magnum Satantango, di cui fu anche protagonista nei panni di Irimias, continuò su questa strada ma iniettando una massiccia dosa di malinconia (Rain II il vertice). 
Infine, per Le armonie di Werckmeister arrivò il suo capolavoro, con un paio di partiture di bellezza struggente: Valuska e Old, per piano tintinnante e archi, si calano magnificamente nello psicodramma di oppressione e persecuzione collettiva che fu la mirabolante pellicola.
Musica elementare, ma che diventa epica tanta è l'associazione che si innesca in automatico con le immagini, quelle immagini, quelle scene, quegli ambienti fuori dal tempo che Tarr ha prodigiosamente regalato al mondo.

mercoledì 20 luglio 2016

Jacques Dudon ‎– Lumières Audibles (1995)

Classe 1951, una giovinezza da freak migrato in India a studiare canto, Dudon ha dedicato una vita alla creazione di strumenti in grado di suonare sott'acqua e generatori di suono tramite fasci di luce. Per i dettagli tecnici e bio abbastanza esaustive rimando a questa pagina o a questa, di sicuro molto interessanti ma in un certo senso persino ininfluenti, giacchè il mondo sonoro di Dudon sarebbe intrigante anche se avesse usato tastiere elettroniche, synth o qualsiasi equipaggiamento standard per l'ambientalista che si rispetti.
E Dudon lo è, nonostante la sua discografia ufficiale sia rimasta limitatissima. In questo lungo cd ci troviamo di fronte a suoni atipici, con uno spettro sonoro spiazzante; droni avvolgenti, spirali compresse, eppure inseriti in una musicalità che può ricordare suggestioni etniche, ma senza mai avvicinarsi alla new age: piuttosto difficile da paragonare ad altri artisti del genere, forse soltanto a Steve Roach per attitudine, ma con una peculiarità tutta sua. Per questo motivo, un ascolto obbligatorio per gli amanti dell'ambient.

lunedì 18 luglio 2016

Fuck Buttons ‎– Slow Focus (2013)

Terzo ed ancora ultimo disco del duo di Bristol, che conoscemmo all'epoca del debutto come un'entità molto promettente ma ancora un po' acerba. Alla prova della maturità i FB dimostrano di saper mescolare un sacco di citazioni e riferimenti, indifferenti a qualsiasi carenza di coesione ma determinati nel saper costruire qualcosa di dannatamante concreto e capace di attirare le simpatie di pressochè tutte le correnti elettroniche, moderne ed antiche.
In ordine sparso, l'ascolto di Slow Focus mi rivela queste suggestioni: Aphex Twin, i corrieri cosmici, i Boards Of Canada, i Trans Am, John Carpenter, i Future Sound Of London, l'industrial-rock degli anni '90, i God Is An Astronaut. Una gran bella compilation virata sul saturo, grazie alle asperità poste in essere dal duo: proprio questa la trovata più originale, come una caramella rivestita di carta vetrata. Esemplari.

sabato 16 luglio 2016

Inward Circles ‎– Nimrod Is Lost In Orion And Osyris In The Doggestarre (2014)

Il nostro prode Riccardo riparte con un nuovo moniker e dà una sterzata al suo glorioso filone chamber-core, ormai giunto a saturazione e quindi bisognoso di appartarsi.
Sopra Inward Circles (citazione letteraria che si riferisce ai cerchi concentrici interni agli alberi) si posano nuvole dense e plumbee. Skelton incupisce le atmosfere, le carica di tensione e fa passare i suoi archi un attimo in secondo piano, in favore di una ambient cupa ed imponente. Si dà al drone inquinato di scorie elettroniche, uno stile che non è certo innovativo ma la sua mano inconfondibile prende il sopravvento col passare dei minuti, gettando il cuore oltre l'ostacolo con una seconda metà del disco formidabile.
Non è il suo top assoluto, onestamente, ma vorrei sapere quanti skeltoniani pensano che sia possibile superare le vette di 6-7 anni fa.

giovedì 14 luglio 2016

Touch - Touch (1969)

Uno di quei lost records di cui normalmente si pensa "ma come fece a non ottenere credito ai tempi?". Uno di quelli che, a scatola chiusa, scometteresti tutto che fu realizzato in Europa.
Ed invece i Touch erano statunitensi, ed il loro leader era nientemeno che Don Gallucci, il grande produttore responsabile del suono immenso di Funhouse, quello osteggiato da Iggy Pop che non lo voleva, quello che in futuro si schernì asserendo che non aveva fatto altro che far suonare il gruppo come se fosse dal vivo, senza incasinare nulla. Il quintetto da lui messo in piedi fu, con ogni probabilità, il primo gruppo progressive del nuovo continente in assoluto; Touch fu un capolavoro che merita in primis di essere scoperto, e che ebbe il solo limite di essere nato al momento giusto ma nel posto sbagliato del pianeta. Incentrato sugli effluvi di piano ed organo di Gallucci, un key-master di grande tecnica e gusto, il disco gira meravigliosamente fra arie pastorali, suite sepolcrali, acrobazie neo-classiche e fioriture esplosive in cui fa ottima figura anche il chitarrista Newman.
La ristampa in cd include una colonna sonora registrata nel 1973 da un'estemporanea reunion, che non fa altro che accrescere il rimpianto per non aver potuto assistere alla prosecuzione artistica di Gallucci, che di lì a poco abbandonò del tutto la musica.

martedì 12 luglio 2016

Stian Westerhus & Pale Horses ‎– Maelstrom (2014)

Abbiamo scoperto Westerhus come immagignifico chitarrista dal vivo e poi approfondito su disco le sue doti tecniche radicali, certo ai più ostiche. Non può che fare grande piacere, dopo un primo momento di inevitabile disorientamento, la sua deriva art-rock con la collaborazione di altri due eccellenti norvegesi, il batterista Dahlen ed il tastierista Moen, talmente fondamentali nell'economia del disco che se l'entità avesse un nome collettivo non sarebbe un'eresia.
Ma artisti come SW in fondo hanno un ego importante, e lui lo mette ben in mostra in Maelstrom. Al netto delle fasi un po' meno accomodanti e del drumming irregolare e fantasioso di Dahlen, gli orfani dei Radiohead elettrici più enfatici ed atmosferici troveranno di sicuro motivi di godimento (quelli con ampie vedute, superfluo aggiungere) in queste sette tracce. Il trasporto emotivo, l'ampiezza di orizzonti e la solennità delle stesure non possono non ricordare certe pagine del celeberrimo quintetto di Oxford (fra Ok Computer ed Amnesiac, elettronica esclusa) a partire dal timbro vocale dello stesso SW, che richiama nettamente quello di Yorke, impennate di falsetto incluse.
Radiohead-heads, ascoltate in primis On and on e Chasing hills, e se vi piacciono procedete col resto del disco. Se ne traete godimento, avete ampie vedute e scoprirete un grande artista. E forse ne vorrete ancora.

domenica 10 luglio 2016

Boduf Songs ‎– How Shadows Chase The Balance (2008)

Non si direbbe proprio essere inglese, l'ombroso Matthew Sweet. Il suo cantautorato dolente e spoglio sembrerebbe più quello dell'Imaad Wasif acustico o di un Rivulets, ed è scevro di qualsiasi traccia di esoterismo tipico del suolo britannico e dei suoi visionari esponenti.
Eppure si tratta a modo suo di un folk apocalittico, da presagi sinistri, sussurrato con un filo di voce (curiosamente simile a quella di Aurelio Valle dei Calla) ed arrangiato in maniera molto spoglia, a volte soltanto con la chitarra acustica che dipana temi lenti e dimessi.
Certo, il mondo non aveva bisogno del millesimo menestrello-filosofo che narra inquietudini, male di vivere, parafrasando un titolo cose da non fare ad un sabba e similari. Al primo ascolto il mio pensiero era esattamente questo, ma già al secondo l'apprezzamento scatta automatico se si è amanti di questo filone che forse ha vissuto giorni migliori. E fra l'altro il disco cresce col passare dei minuti, dopo una prima metà un po' sonnolenta: la seconda è bellissima, grazie anche alle splendide Pitiful Shadow Engulfed in Darkness e la sottostante.

venerdì 8 luglio 2016

Helios - Yume (2015)

Saluto con grande piacere il ritorno di Keith Helios Kenneff, che dopo un Moiety sottotono ritorna ad essere abbastanza vicino ai livelli dei suoi capolavori Eingya e Caesura, dai quali sono passati ormai anni in cui si è dedicato più agli altri suoi progetti, alle produzioni ed alle colonne sonore.
Yume, cosi come in generali tutti quelli di Kenniff, è un disco che amo mettere in sottofondo quando sono in compagnia di persone dalla cultura musicale mainstream o comunque abbastanza limitata. Nessuna novità sostanziale, ma chi ne ha bisogno? E' il solito cantautorato ambient strumentale di grande classe, luminoso e carico di profonde emozioni. Inutile cercare altre parole per descriverlo.

mercoledì 6 luglio 2016

Screams From The List 48 - Crass ‎– Stations Of The Crass (1979)

Impossibile identificare un gruppo più integralista ed isolato dalla scena punk britannica dei Crass, che non a caso vivevano in una comune ed ebbero un coraggio da leoni a portare avanti le loro provocazioni in anni molto difficili a livello sociale in Inghilterra.
A livello musicale furono a loro modo non meno unici, però ancora oggi è piuttosto difficile riuscire a parlarne perchè l'aspetto politico finisce per avere il sopravvento su tutto. Se è innegabile che di punk si trattava, la band lo gestiva come un veicolo di divulgazione qualsiasi, con un approccio diagonale fatto di suoni secchi e spigolosi, il basso in primo piano, una serie esplosiva di esplosioni e rallentamenti, gli sproloqui di Ignorant fra il furioso e lo stralunato; se si considera che in formazione c'era un hippy vero e proprio (il batterista Rimbaud), se si analizzano anche le variazioni significative (l'incubo per bombe e campane di Demoncrats è il caso più clamoroso, ma le stranezze sono disseminate ovunque), appare chiaro che questo fu art-punk nello spirito più spontaneo e puro. E, nondimeno, che furono di un influenza capitale sui nostri CCCP. 
Mangiamo tutti insieme queste schegge di vetro e rivalutiamoli (cit. Vlad).

lunedì 4 luglio 2016

Earth – Primitive And Deadly (2014)

Svolta benefica per Dylan Carlson, seppur inquadrabile come concessione ad un complesso più accessibile. Ma dopo i due volumi di Angels Of Darkness, Demons Of Light, che sublimavano la fase più rilassata e contemplativa a suo tempo inaugurata dallo splendido The bees..., probabilmente serviva un cambio e il ritorno ad un formato più rock sembra abbia convinto i più.
Non che ci siano stravolgimenti; i ritmi sono sempre quelli pachidermici, le lunghezze delle tracce chilometriche, gli accordoni dronici e i ruvidi ricami della chitarra solista, immancabili, è ovvio: le novità più essenziali sono i tre pezzi cantati. Il vocione espressivo e sempre amico di Lanegan fa materializzare una forma di drone-grunge dal fascino polveroso, mentre il timbro asettico di Rabia Shaheen Qazi si cala alla perfezione nell'ipnosi ronzante del contesto.
Lunga vita a Carlson, sopravvissuto scampato e marchiato a fuoco. Questo bluesman del deserto è sempre una sicurezza.

sabato 2 luglio 2016

Von Lmo ‎– Red Resistor (1996)

Terzo ed ultimo disco ufficiale di Frankie Cavallo, anche se Discogs segnala un autoprodotto del '99 del quale non si trova traccia in rete. Chissà se il destino ci riserverà un'altro rientro a sorpresa, ma soprattutto chissà come se la passa a 60 anni suonati questo fanta-rocker dei perdenti e dei maledetti.
Su Red Resistor ci sono poche info; la più evidente è che la formazione non è quella di Cosmic Interception, bensì un rocciosissimo power-trio con in grande evidenza il chitarrista nippo-americano Tamura, uno scalmanato senza ritegno. Si tratta sicuramente di un live registrato in studio a New York, e se si trattasse veramente della fine della sua storia, ritengo sia perchè dopo questo inferno non sembra esserci rimasto più nulla da suonare.
Soprattutto non si può andare oltre i 31 minuti di X + Z = 0, un'interminabile sarabanda di space-noise che spazza via qualsiasi cosa, compresi i 10 di Mass destruction, cingolato marziale che apre il programma. Più relativamente canonici gli altri due pezzi, sulla scia del robot-metal di Cosmic Interception. Difficile dire se quale sia più indispensabile questo eccesso di violenza o l'altro, più per modo di dire sotto controllo. Diciamo che Red resistor si comprende meglio dopo aver preso coscienza del personaggio, che resta un mito totale.