Non si direbbe proprio essere inglese, l'ombroso Matthew Sweet. Il suo cantautorato dolente e spoglio sembrerebbe più quello dell'Imaad Wasif acustico o di un Rivulets, ed è scevro di qualsiasi traccia di esoterismo tipico del suolo britannico e dei suoi visionari esponenti.
Eppure si tratta a modo suo di un folk apocalittico, da presagi sinistri, sussurrato con un filo di voce (curiosamente simile a quella di Aurelio Valle dei Calla) ed arrangiato in maniera molto spoglia, a volte soltanto con la chitarra acustica che dipana temi lenti e dimessi.
Certo, il mondo non aveva bisogno del millesimo menestrello-filosofo che narra inquietudini, male di vivere, parafrasando un titolo cose da non fare ad un sabba e similari. Al primo ascolto il mio pensiero era esattamente questo, ma già al secondo l'apprezzamento scatta automatico se si è amanti di questo filone che forse ha vissuto giorni migliori. E fra l'altro il disco cresce col passare dei minuti, dopo una prima metà un po' sonnolenta: la seconda è bellissima, grazie anche alle splendide Pitiful Shadow Engulfed in Darkness e la sottostante.
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